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Spartaco n. 77 |
Ottobre 2013 |
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Marxismo e parlamentarismo borghese Perché rifiutiamo la rivendicazione dellassemblea costituente “In nessuna parte del mondo c’è, né può esservi, via di mezzo. O dittatura della borghesia (dissimulata sotto le frasi pompose dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi sul potere del popolo, sulla Costituente, sulle libertà, ecc.), o dittatura del proletariato. Chi non l’ha imparato dalla storia di tutto il secolo XIX, è un perfetto idiota.” (V.I. Lenin, “Lettera agli operai e ai contadini. A proposito della vittoria su Kolciak”, agosto 1919)
In diverse occasioni nel corso degli anni, la Lega comunista internazionale (e la Tendenza spartachista internazionale che l’ha preceduta) ha sollevato la richiesta di un'assemblea costituente rivoluzionaria in risposta a sommovimenti sociali in paesi a sviluppo capitalistico ritardato, dall'Indonesia al Cile. Nel motivare tali rivendicazioni, ci siamo basati sugli scritti e sulla pratica del dirigente bolscevico V.I. Lenin nel periodo precedente la Rivoluzione d'Ottobre del 1917 e soprattutto sugli scritti di Lev Trotsky sulla Cina e la Spagna alla fine degli anni Venti e nei primi anni Trenta (si veda, ad esempio, “Nicaragua, Peru, Iran, Portugal: Why a Revolutionary Constituent Assembly?” Workers Vanguard n. 221, 15 dicembre 1978).
Negli ultimi anni, abbiamo avuto diversi scambi interni su quando e in quali circostanze sia opportuno fare appello a un’assemblea costituente. Tuttavia, dopo aver brevemente lanciato questa parola d’ordine nei nostri primi articoli sulle rivolte in Tunisia e in Egitto all'inizio del 2011, vari compagni dirigenti hanno sostenuto, fondandosi su ampie basi storiche, che questa parola d’ordine è sbagliata in tutte le circostanze. Ciò ha portato a un’ampia ricerca e analisi storica, che continua tuttora. Alla fine del 2011, una riunione plenaria del Comitato esecutivo internazionale (Cei) della Lci ha votato all'unanimità di ripudiare questo slogan. La risoluzione adottata in quella riunione ha notato:
“Se nella grande Rivoluzione francese del 1789 l’Assemblea costituente svolse un ruolo progressista, l’esperienza storica ha dimostrato che in seguito questo non è più successo. A partire dalle rivoluzioni del 1848, in ogni situazione in cui un’assemblea costituente o un organo legislativo borghese simile, è stata convocata nel contesto di una rivolta proletaria, il suo scopo è stato quello di radunare le forze della controrivoluzione contro il proletariato e di liquidare il potere proletario. La cosa fu evidente con la Comune di Parigi del 1871, con la Rivoluzione d'Ottobre del 1917 e con la Rivoluzione tedesca del 1918-1919. Per quanto non sia mai stato codificato dall’Internazionale comunista (Ic) sotto forma di una dichiarazione generale e di principio, l’atteggiamento dei bolscevichi di Lenin e Trotsky dopo la Rivoluzione d’Ottobre, consistette nel trattare l’Assemblea costituente come uno strumento della controrivoluzione.
Quando Trotsky riprese ad utilizzare questa parola d'ordine alla fine degli anni Venti, lo fece principalmente, anche se non solo, per contrastare (erroneamente) le idiozie ultrasinistre del Comintern del Terzo periodo”.
La nostra nuova posizione, di opposizione per principio alla rivendicazione di una assemblea costituente, si è espressa nell'articolo “Egypt: Military and Islamists Target Women, Copts, Workers” (Workers Vanguard n. 994, 20 gennaio 2012).
Il nostro rifiuto della richiesta di un’assemblea costituente riflette sia l'esperienza storica del proletariato che l'estensione del programma marxista nel corso degli anni. Come Lenin spiega chiaramente nel passaggio citato, tutta la storia del diciannovesimo secolo dimostra che questa rivendicazione si contrappone alla lotta per il dominio del proletariato. Propugnando la “rivoluzione in permanenza” nel 1850, Marx si basò sull’esperienza delle rivoluzioni del 1848, quando le borghesie in diversi paesi europei fecero causa comune con le forze della reazione aristocratica contro il proletariato in lotta. All’epoca della Rivoluzione del 1905, Trotsky si basò sulle concezioni di Marx quando sviluppò la teoria della rivoluzione permanente per la Russia zarista. Dopo la sconfitta della Seconda rivoluzione cinese nel 1927, Trotsky estese questa prospettiva sul piano internazionale, ad includere i paesi a sviluppo capitalista ritardato.
Al centro della teoria di Trotsky vi è la comprensione che le aspirazioni ai diritti democratici e all’emancipazione nazionale e sociale dei lavoratori di questi paesi non possono essere soddisfatte sotto il dominio della borghesia. Per farlo, serve una rivoluzione proletaria che spazzi via l’ordinamento capitalista ed estenda le conquiste rivoluzionarie alle roccaforti dell’imperialismo mondiale. A differenza di rivendicazioni come l’autodeterminazione nazionale, l’uguaglianza delle donne, la terra a chi la lavora, il suffragio universale o l’opposizione alla monarchia, che possono, singolarmente o tutte assieme, essere cruciali nel mobilitare le masse dietro le lotte del proletariato, l’assemblea costituente non è una rivendicazione democratica ma un appello a un nuovo governo capitalista. Dato il carattere reazionario della borghesia, nel mondo semicoloniale così come negli Stati capitalisti avanzati, non può esistere un parlamento borghese rivoluzionario. Per questo la rivendicazione dell’assemblea costituente si contrappone alla prospettiva della rivoluzione permanente.
Nel riesaminare la documentazione storica, è diventato chiaro che ogni documento comunista autorevole che ha trattato la questione nei primi anni dopo il 1917 ha categoricamente respinto l’idea che un’assemblea costituente o nazionale, possa essere nell’interesse del proletariato. Il libro di Lenin La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, scritto verso la fine del 1918, è solo l’esempio più noto. Questa parola d’ordine fu considerata parte di quello che Lenin chiamava un accumulo di opportunismo nel movimento operaio nella Seconda internazionale. In Germania, Rosa Luxemburg si oppose vigorosamente al tentativo (che alla fine riuscì) del Partito socialdemocratico (Spd) e dei centristi Socialdemocratici indipendenti (Uspd), di far abortire la rivoluzione scoppiata nel novembre 1918 con l’imposizione di un’assemblea nazionale:
“Cosa si ottiene con la vile diversione che si chiama assemblea nazionale? Si rafforza la borghesia, si indebolisce il proletariato e lo si confonde con vane illusioni, si sprecano tempo e forze in ‘discussioni’ tra il lupo e l’agnello. In una parola, si fa il gioco di tutti gli elementi che hanno intenzione di tradire la rivoluzione proletaria deviandola dai suoi obiettivi socialisti e castrandola in una rivoluzione democratico-borghese.
La questione dell’assemblea nazionale non è una questione tattica, né una questione di cosa sia ‘più facile’. E’ una questione di principio, di percezione socialista della rivoluzione (...) L’assemblea nazionale è un retaggio obsoleto delle rivoluzioni borghesi, un guscio vuoto, una messinscena dell’epoca delle illusioni piccolo-borghesi sul ‘popolo unito’, sulla ‘libertà, uguaglianza, fraternità’ nello Stato borghese.” (Rosa Luxemburg, “L’Assemblea nazionale”, Die Rote Fahne, 20 novembre 1918. Tradotto in John Riddell, The German Revolution and the Debate on Soviet Power, New York: Anchor Foundation, 1986)
Nel ripudiare il nostro precedente uso dello slogan dell’assemblea costituente, abbiamo dovuto innanzitutto considerare le varie argomentazioni, a volte contraddittorie, usate da Trotsky per giustificarne l’impiego. Il fatto che Trotsky abbia rilanciato questa parola d’ordine proprio nel periodo in cui stava generalizzando la teoria della rivoluzione permanente determinò necessariamente confusione tra le file dell’Opposizione di sinistra internazionale e del movimento quartinternazionalista. In Cina, la confusione sulla questione dell’assemblea nazionale contribuì a paralizzare vari aspetti delle attività dei trotskisti negli anni Trenta. In India, dove dopo la Seconda guerra mondiale il ruolo controrivoluzionario dell’assemblea costituente divenne evidente nell’esperienza quotidiana, il partito bolscevico-leninista trotskista fu scosso da profonde lotte di fazione, che videro i sostenitori dello slogan promuovere una politica maggiormente liquidazionista. All’interno della Quarta internazionale (Qi), vi furono anche ampie differenze sull’applicabilità della rivendicazione ai paesi europei che uscivano dal dominio fascista o dall’occupazione tedesca durante e dopo la Seconda guerra mondiale, che non trovava giustificazione negli scritti di Trotsky.
Analizzando i dibattiti sull’assemblea costituente nel movimento trotskista dalla fine degli anni Venti agli anni Quaranta, abbiamo incontrato un grosso ostacolo. Mentre è facile conoscere il punto di vista di Trotsky dopo che rilanciò la parola d’ordine nel 1928, le argomentazioni di molti tra coloro che la misero in discussione o si opposero al suo impiego, spesso si trovano solo in archivi separati o in bollettini interni. In alcuni casi, come quello del folto gruppo di studenti cinesi a Mosca conquistati all’Opposizione di sinistra nel 1928-29, i documenti che possono essere esistiti all’epoca sembrano definitivamente perduti con la repressione stalinista. Al momento perciò la nostra ricerca è necessariamente parziale, in particolare per quanto riguarda le controversie all’interno dell’Opposizione di sinistra nel periodo in cui Trotsky riprese la parola d’ordine.
Riesame marxista e abuso revisionista
L’analisi e il rifiuto della parola d’ordine dell’assemblea costituente appartengono al nostro impegno in difesa del nucleo rivoluzionario del bolscevismo contro l’accumularsi di confusionismo e tradimenti revisionisti. In una sua risoluzione, il Cei della Lci ha notato: “Anche in questo caso, come è avvenuto con la questione collegata di candidarsi a, o di assumere, incarichi esecutivi dello Stato capitalista, ci troviamo di fronte ad un retaggio della Seconda internazionale che non fu risolto dai primi quattro congressi dell’Internazionale comunista.” Nel 2007, la Quinta conferenza della Lci ha respinto, come questione di principio, la nostra precedente posizione secondo la quale i comunisti potevano candidarsi a cariche esecutive (come presidente, sindaco, governatore di Stato o provincia) a patto di dichiarare in anticipo che se eletti non avrebbero assunto la carica (vedi “Principi marxisti e tattica elettorale”, Spartaco n. 71, aprile 2009). Allo stesso tempo, abbiamo notato:
“La nostra pratica precedente si rifaceva a quella del Comintern e della Quarta internazionale. Ciò non significa che nel passato abbiamo agito in violazione dei principi: il principio non era mai stato riconosciuto come tale né dai nostri predecessori né da noi stessi. I programmi si evolvono, nuove questioni si pongono e noi sottoponiamo a scrutinio critico il lavoro dei nostri predecessori rivoluzionari”. (“Abbasso le cariche esecutive”, Spartaco n. 69, gennaio 2008)
Nell’adottare la posizione contro le candidature a cariche esecutive, abbiamo osservato che stavamo riconoscendo e codificando una sorta di corollario a Stato e rivoluzione (1917) e La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky di Lenin, i veri documenti fondativi dell’Internazionale comunista. Così facendo, continuiamo il lavoro teorico e programmatico dei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista.
Nella nostra lotta per riforgiare la Quarta internazionale di Trotsky, rivendichiamo quei congressi. Ma dobbiamo considerare criticamente le decisioni dell’Ic delle origini, alla luce delle successive esperienze. Fin dai primi anni, la nostra tendenza ha espresso riserve nei confronti delle risoluzioni sul “fronte unico antimperialista” e sul “governo operaio” approvate al Quarto congresso (1922). In effetti, la nostra nuova linea sulle cariche esecutive è un’estensione della nostra precedente critica alla risoluzione del Quarto congresso sui “governi operai” che era viziata e confusionista, confondendo la rivendicazione di un governo dei lavoratori, che per i rivoluzionari non è altro che una definizione popolare della dittatura del proletariato, con ogni sorta di governi socialdemocratici che amministrano l’apparato statale borghese.
Ciò lasciava aperta la possibilità della partecipazione dei comunisti ad un governo di coalizione con i socialdemocratici, come in effetti avvenne nell’ottobre del 1923, quando il Partito comunista tedesco (Kpd) entrò nei governi regionali “di sinistra” della Sassonia e della Turingia, guidati dalla Spd. Trotsky lottò per una prospettiva rivoluzionaria in Germania nel 1923, spingendo il Kpd a preparare concretamente l’insurrezione e a stabilire una data, ma sbagliò nell’appoggiare l’ingresso del Kpd nei governi di Sassonia e Turingia, sostenendo che sarebbero diventati una “piazza d’armi” per la rivoluzione (“Rearming Bolshevism: A Trotskyist Critique of Germany 1923 and the Comintern”, Spartacist [edizione inglese] n. 56, primavera 2001). Alla fine, il Kpd e la direzione del Comintern, con a capo Grigorij Zinoviev, si lasciarono sfuggire un’occasione rivoluzionaria. La conseguente demoralizzazione del proletariato sovietico fu un fattore decisivo che consentì alla burocrazia conservatrice e nazionalista sotto Stalin di usurpare il potere politico nel 1923-24.
Un elemento necessario a mantenere la nostra continuità rivoluzionaria è l’assimilazione critica delle lezioni delle precedenti lotte del movimento operaio internazionale. Al contrario, i nostri avversari politici liquidano o rifiutano i principi della Rivoluzione d’Ottobre e i fondamenti programmatici dell’Internazionale comunista di Lenin e di Trotsky e selezionano le “tradizioni” che conferiscono un’aura di autorità storica ai loro fini opportunisti. Oggi, intere aree della sinistra pseudo-trotskista sollevano la parola d’ordine dell’assemblea costituente in quasi tutte le circostanze. Per questi riformisti, ancor più apertamente da quando appoggiarono la controrivoluzione “democratica” sostenuta dagli imperialisti, che distrusse l’Unione Sovietica nel 1991-92, la democrazia (borghese) è diventata l’apice della politica.
In America Latina, lo slogan dell’assemblea costituente è onnipresente, in particolare tra i molti rami della tendenza fondata dall’avventuriero argentino Nahuel Moreno, che ha sfacciatamente propugnato la “rivoluzione democratica”. La tendenza francese associata a Pierre Lambert rivendica assemblee costituenti, non solo nei paesi semicoloniali, ma anche in Francia, dove si batte per sostituire la Costituzione semi-bonapartista della Quinta repubblica fondata da Charles de Gaulle nel 1958. La linea di un’altra sedicente “Quarta internazionale”, il Segretariato unificato (Su) del defunto Ernest Mandel, è sostanzialmente identica. Una recente dichiarazione della sua sezione belga ha chiesto la “costruzione democratica di un’Europa di solidarietà e cooperazione (attraverso ad esempio un’assemblea costituente)” (International Viewpoint online, 10 giugno 2012).
Questi ed altri gruppi, hanno fatto dell’assemblea costituente il centro delle loro rivendicazioni durante le sollevazioni popolari iniziate nei primi mesi del 2011 in Nordafrica (la “primavera araba”). Secondo il Segretariato unificato, era una parte essenziale del “programma di un governo democratico che sarebbe al servizio dei lavoratori e della popolazione” (“In Tunisia and Egypt the Revolutions are Underway”, International Viewpoint online, gennaio 2011). Ma l’esperienza di più di un secolo e mezzo di lotta di classe dimostra che la lotta per un “governo democratico” borghese-parlamentare è una trappola per il proletariato. La borghesia usa sempre e dovunque la “fase democratica” della rivoluzione, sfruttando le aspirazioni delle masse in lotta per consolidare il suo potere e schiacciare le lotte della classe operaia.
Dalla Rivoluzione francese del 1789 alla Comune di Parigi del 1871
L’archetipo dell’“assemblea costituente rivoluzionaria” risale alla rivoluzione borghese francese. Istituita nel 1789, l’assemblea costituente segnò l’ascesa della borghesia contro la monarchia. Tre anni più tardi, fu eletta (a suffragio universale maschile) una Convenzione nazionale dominata dai moderati girondini. Nel 1793 presero il potere i giacobini radicali, con un’insurrezione delle masse plebee di Parigi che rovesciò i girondini e li escluse dalla Convenzione. Tra il 1789 e la caduta del regime giacobino nel 1794, la rivoluzione fu caratterizzata da un dualismo di potere che vedeva le varie assemblee contrapposte alle classi inferiori di Parigi, che ad ogni passo spinsero la borghesia ad imporre misure più radicali. Le assemblee furono in grado di svolgere un ruolo rivoluzionario, perché all’epoca la borghesia era una classe rivoluzionaria schierata contro l’ordine feudale, da tempo subordinato alla monarchia assoluta.
Il parlamentarismo non fu affatto una caratteristica intrinseca alle rivoluzioni borghesi classiche. Durante la Rivoluzione inglese degli anni 1640 e 1650, la fonte del potere rivoluzionario non fu il parlamento, ma il New Model Army [Esercito di nuovo modello] di Oliver Cromwell. Come Trotsky spiegò:
“Il rivoluzionario realista Cromwell costruiva una nuova società. Il parlamento non è un fine in sé, la legge non è un fine in sé, e se Cromwell stesso e i suoi ‘santi’ consideravano che la realizzazione dei divini insegnamenti era un fine in sé, in realtà questi ammaestramenti erano solo uno strumento ideologico per la costruzione della società borghese. Sciogliendo un parlamento dopo l’altro, Cromwell dava prova di scarsissimo rispetto per il feticcio della rappresentanza ‘nazionale’, come con l’esecuzione di Carlo I aveva dimostrato scarsa considerazione per la monarchia di diritto divino” (“Dove va la Gran Bretagna?” (1925), in I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali 1924-1940)
La grande Rivoluzione francese rappresentò un punto di riferimento fondamentale per Marx e il suo collaboratore Friedrich Engels, durante la loro evoluzione da democratici radicali a dirigenti comunisti, negli anni successivi al 1840. Nel Manifesto del partito comunista, scritto tra la fine del 1847 e l’inizio del 1848, postularono la necessità di un’alleanza con la borghesia in Germania “contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e contro la piccola borghesia reazionaria”. Questa concezione venne poi abbandonata, alla luce delle rivoluzioni del 1848-49, che mostrarono come la borghesia si sarebbe alleata con la reazione aristocratica di fronte ad una classe operaia che agisse come forza indipendente.
Lo si vide molto chiaramente in Francia. Dopo l’insurrezione popolare del febbraio del 1848, il nuovo Governo provvisorio fece inizialmente delle concessioni alla classe operaia. Ma ad aprile i democratici borghesi radicali si rivoltarono contro i lavoratori e le elezioni per un assemblea costituente videro la vittoria schiacciante della destra del Partito dell’ordine. Nel mese di giugno, il nuovo governo soppresse un’insurrezione semi-spontanea del proletariato parigino, spezzando la schiena della classe operaia francese per una generazione.
Fu il primo esempio di “controrivoluzione democratica” della storia moderna. Di fronte al profondo malcontento della classe operaia, la borghesia sfruttò l’assemblea costituente elettiva, in cui predominavano i voti dei contadini e degli altri strati piccolo-borghesi, per sopprimere le agitazioni e consolidare il potere. Il risultato fu una guerra civile brutale e unilaterale che vide massacri e deportazioni di massa di operai e socialisti.
La soppressione degli operai parigini da parte della borghesia repubblicana nel giugno 1848 e il sostegno dato dalla borghesia tedesca alla reazione monarchica, portarono a una radicalizzazione del pensiero di Marx ed Engels. Puntando il dito contro il tradimento della piccola borghesia democratica, affermarono che il compito doveva essere quello di “render permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato” e fino alla diffusione internazionale della rivoluzione (“Indirizzo del Comitato centrale alla Lega”, marzo 1850).
In quel periodo il proletariato era ancora molto piccolo rispetto ai contadini e agli altri strati piccolo-borghesi, troppo debole per prendere il potere in nome proprio. Tuttavia, come Marx scrisse due anni più tardi, lo sviluppo storico stava dimostrando come “L’interesse dei contadini non è quindi più, come ai tempi di Napoleone, in accordo, ma in contrasto con gli interessi della borghesia, col capitale. Essi trovano quindi il loro naturale alleato e dirigente nel proletariato urbano, il cui compito è il rovesciamento dell’ordine borghese” (Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, 1852). Successivamente Marx elaborò: “Tutta la faccenda in Germania dipenderà dalla possibilità di appoggiare la rivoluzione proletaria con una specie di seconda edizione della guerra dei contadini [del sedicesimo secolo]. Allora la cosa riuscirà ottimamente” (Marx a Engels, 16 aprile 1856). Lenin in seguito indicò questa affermazione come una notevole anticipazione della Rivoluzione bolscevica.
La Comune di Parigi del marzo-maggio 1871, fu il primo esempio di dittatura proletaria della storia. Lungi dall’essere basata su di un organismo parlamentare, nacque sotto l’egida della guardia nazionale, una forza militare basata sulla classe operaia armata e guidata da un comitato centrale elettivo. Quest’organo insurrezionale si trovò in contrapposizione con l’Assemblea nazionale borghese, che era stata eletta sulla base dei voti degli strati reazionari delle campagne.
Marx era in piena solidarietà con la Comune, nonostante le critiche alla sua direzione, dominata dai seguaci del giacobino insurrezionalista Auguste Blanqui e dall’ala piccolo-borghese della Prima internazionale raccolta attorno a Pierre-Joseph Proudhon. Invece di prendere le misure necessarie a schiacciare immediatamente le forze della reazione radunate a Versailles, il Comitato centrale decise di indire elezioni comunali anticipate. Marx sosteneva che poiché la borghesia era appena scappata dalla città, era disorganizzata e priva di truppe, il Comitato centrale avrebbe dovuto “marciare subito su Versailles”, ma “per scrupoli di coscienza si è lasciato passare il momento opportuno” (Marx a Kugelman, 12 aprile 1871). Alla fine, le forze della reazione borghese, approfittando di queste debolezze, schiacciarono brutalmente la Comune.
Fu un chiaro esempio della contrapposizione tra la rivoluzione operaia e il feticismo democratico parlamentare. Paul Lafargue, il genero di Marx e dirigente fondatore del Parti Ouvrier (Partito operaio) francese, scrisse più tardi della Comune: “Nel 1871, il potere cadde nelle mani del popolo, che non era pronto a riceverlo. Prendere il potere in un periodo rivoluzionario è relativamente semplice, ma mantenerlo e soprattutto usarlo è molto più difficile” (“All’indomani della rivoluzione”, Le Socialiste, 31 dicembre 1887). Polemizzando implicitamente con la guardia nazionale e la sua ansia di indire nuove elezioni, Lafargue sostenne:
“Il potere rivoluzionario si instaura solo prendendolo. Solo nel momento in cui avranno la situazione sotto controllo, i socialisti penseranno a far ratificare le loro azioni dal cosiddetto suffragio universale. I borghesi hanno tenuto le classi non possidenti lontano dai seggi elettorali per così tanti anni che non dovrebbero sorprendersi troppo se noi priveremo del diritto di voto tutti gli ex capitalisti fino a quando non avremo vinto la partita rivoluzionaria”.
La Comune di Parigi fu l’embrione di uno Stato operaio. Soppresse l’esercito e armò gli operai. Per usare le parole di Marx, essa fu “non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo” (La guerra civile in Francia, 1871). Cinquant’anni dopo, polemizzando col socialdemocratico tedesco Karl Kautsky, Trotsky scrisse:
“La Comune fu la negazione vivente della democrazia formale, poiché sviluppandosi, essa rappresentò la dittatura della Parigi operaia sul paese contadino (...) Il problema della Comune era di sciogliere l’Assemblea nazionale. Purtroppo non ci riuscì.” (“La Comune di Parigi e la Russia sovietica”, 1920, in Leon Trotsky on the Paris Commune, New York, Pathfinder Press, 1970)
La Spd e la Seconda internazionale
La soppressione della Comune portò ad un lungo periodo di reazione borghese. Marx ed Engels, che avevano saputo trarre le lezioni della sconfitta, dovettero affrontare una forte opposizione in seno alla Prima internazionale, che a tutti gli effetti crollò nel 1873. Engels espresse la speranza che “la prossima Internazionale, dopo che i libri di Marx avranno esercitata la loro influenza per alcuni anni, sarà puramente comunista e propagherà direttamente i nostri principi” (Lettera di Engels a Sorge del 12-17 settembre 1874). Ma la Seconda internazionale, fondata ufficialmente nel 1889 e centrata sulla socialdemocrazia tedesca, ebbe un carattere molto diverso. Pur svolgendo un ruolo importante nella costruzione di partiti di massa dei lavoratori e nella propaganda di vari aspetti delle idee di Marx e di Engels, si adattò progressivamente al riformismo parlamentare, che ne divenne il tratto distintivo.
Il programma della Spd e degli altri partiti della Seconda internazionale, si divideva in un programma “massimo” e un programma “minimo”. Con gli anni, fu sempre più chiaro che il programma massimo non era che una facciata per tener buona l’ala sinistra, mentre il programma minimo rifletteva la pratica riformista della maggior parte dei dirigenti. Marx ed Engels accettavano l’idea di un programma minimo e massimo, ma per loro le rivendicazioni del programma minimo dovevano contribuire a spianare la strada alla rivoluzione socialista. Al contrario, come notò Lenin, “Gli opportunisti dell’odierna socialdemocrazia hanno accettato le forme politiche borghesi dello Stato democratico parlamentare come un limite al di là del quale è impossibile andare” (Stato e rivoluzione).
Marx ed Engels vissero prima dell’epoca imperialista e molte caratteristiche della socialdemocrazia non erano ancora del tutto evidenti. Ma condussero molte battaglie contro il gradualismo parlamentare, e fin dalla nascita della Spd dalla fusione con i sostenitori di Ferdinand Lassalle nel 1875, ne criticarono fortemente la direzione. Nella Critica al programma di Gotha (1875), Marx accusò i suoi seguaci tedeschi di capitolare ai lassalliani, obiettando in particolare contro la concezione di questi ultimi di uno “Stato popolare libero”. Nel 1863-64, Lassalle aveva cercato di stipulare un accordo segreto con il governo prussiano del conte Otto von Bismarck contro la borghesia liberale, nel tentativo di ottenere il suffragio universale maschile. Il programma di fondazione della Spd era pieno di illusioni nello Stato tedesco bismarckiano.
Engels contestò a Bebel di minimizzare la perniciosa influenza dell’ideologia democratico radicale in Germania e sottolineò il ruolo che le forze democratico-borghesi avrebbero giocato come centro di mobilitazione della controrivoluzione. Riferendosi alle lezioni del 1848, Engels sottolineò che “il giorno cruciale e anche il giorno dopo, il nostro unico avversario sarà la reazione collettiva centrata attorno la democrazia pura” (Engels a August Bebel, 12 dicembre 1884, [nostra traduzione]). In un articolo scritto nel primo anniversario della morte di Marx, Engels scrisse che nel 1848 la borghesia tedesca era ancora debole e il proletariato “altrettanto poco sviluppato” e “con un’idea ancora vaga del profondo conflitto di interessi tra esso e la borghesia. Pertanto, anche se di fatto era il nemico mortale di quest’ultima, è rimasto, invece, sua appendice politica” (“Marx e la Neue Rheinische Zeitung”, marzo 1884, [nostra traduzione]). L’articolo spiega come Marx ed Engels giunsero a rivedere il rapporto tra proletariato e democrazia borghese:
“Infine, abbiamo smascherato il cretinismo parlamentare (come lo chiamava Marx) delle varie cosiddette assemblee nazionali (...) A Berlino, come a Francoforte, accanto a governi reazionari recentemente rafforzati, sorgevano assemblee senza potere, che tuttavia immaginavano che le proprie impotenti risoluzioni avrebbero scosso il mondo dalle fondamenta. Questo autoinganno cretino prevalse fino all’estrema sinistra. Abbiamo chiaramente detto loro che la loro vittoria parlamentare sarebbe coincisa con la loro reale sconfitta”.
Engels ebbe una migliore considerazione del progetto di programma di Erfurt della Spd del 1891, ma rimase molto critico nei confronti dell’opportunismo del partito. In una lettera che i dirigenti del partito soppressero per più di dieci anni, Engels attaccò l’idea mortale secondo cui l’ordine giuridico esistente in Germania era “adeguato a realizzare le rivendicazioni di partito con mezzi pacifici” (“Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico”, giugno 1891). Nello stesso anno, Engels pubblicò per la prima volta la Critica al programma di Gotha di Marx, nonostante l’opposizione della direzione della Spd. Nello stesso anno fece anche ristampare La guerra civile in Francia di Marx, con un’introduzione che sosteneva la dittatura del proletariato in contrapposizione diretta con le opinioni di quelli che chiamava “i filistei socialdemocratici” (i dirigenti della Spd insistettero affinché Engels cambiasse l’espressione con “filistei tedeschi” prima della pubblicazione!)
I frequenti tentativi di nascondere o censurare le critiche scritte da Marx ed Engels fanno risaltare la crescente distanza che separava la Spd dal marxismo autentico. Nella sua critica al progetto di programma di Erfurt, dopo aver fatto notare che “manca proprio ciò che invece doveva essere detto”, come ad esempio l’abolizione della monarchia e la creazione di una nuova costituzione repubblicana, Engels scrisse: “Se vi è qualcosa di certo, è proprio il fatto che il nostro partito e la classe operaia possono giungere al potere soltanto sotto la forma della repubblica democratica. Anzi, questa è la forma specifica per la dittatura del proletariato, come già ha dimostrato la grande Rivoluzione francese” (ibid.) E aggiunse: “Ma il fatto che in Germania non si possa neppure esporre un programma di partito apertamente repubblicano, dimostra quanto sia enorme l’illusione di poter erigere qui la repubblica per una via comodamente pacifica, e non la repubblica soltanto ma la società comunista.” (ibid.)
In seguito Lenin attaccò con durezza l’uso aberrante che gli opportunisti facevano della lettera di Engels:
“Engels ripete qui, mettendola particolarmente in rilievo, l’idea fondamentale che attraversa, come un filo ininterrotto, tutte le opere di Marx: la repubblica democratica è la via più breve che conduce alla dittatura del proletariato. Questa repubblica, infatti, benché non sopprima affatto il dominio del capitale, e quindi l’oppressione delle masse e la lotta di classe, porta inevitabilmente questa lotta a un’estensione, a uno sviluppo, a uno slancio e ad un’ampiezza tale che, una volta apparsa la possibilità di soddisfare gli interessi essenziali delle masse oppresse, questa possibilità si realizza necessariamente e unicamente con la dittatura del proletariato, con la direzione di queste masse da parte del proletariato”. (Lenin, Stato e rivoluzione)
I guesdisti e il parlamentarismo in Francia
Una degenerazione politica parallela ebbe luogo tra i socialdemocratici francesi. Le forze marxiste guidate da Jules Guesde e Paul Lafargue si erano scisse dai proudhoniani nel 1880. Due anni dopo, formarono il Parti Ouvrier dopo essersi separati dai possibilisti, che erano apertamente riformisti. Marx fu direttamente coinvolto nella stesura del programma dei guesdisti, che all’inizio cercarono di seguire un corso rivoluzionario, per poi fare una brusca svolta a destra verso il parlamentarismo nel periodo 1890-92. Uno storico del socialismo francese ha fatto notare che “era ormai chiaro che la situazione rivoluzionaria tanto attesa dai guesdisti appariva ancor più remota che nel 1880, quando le istituzioni repubblicane non erano affatto stabili e sicure” (Aaron Noland, The Founding of the French Socialist Party [1893-1905], Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press, 1956). Noland ha poi aggiunto:
“La direzione guesdista era giunta alla conclusione che, in attesa che si creasse una situazione rivoluzionaria, bisognava sfruttare più di quanto si era fatto le istituzioni politiche democratiche, come il suffragio universale e le elezioni degli organi comunali e nazionali, per promuovere i loro interessi. Perciò il partito guesdista decise di emulare il successo elettorale dei possibilisti, adottando programmi elettorali simili: attraenti, moderati, fatti per prendere i voti di vari gruppi di elettori, sia proletari che non”.
I guesdisti fecero la pace con la Terza repubblica francese, che era stata eretta sul cadavere della Comune di Parigi, a partire dalle istituzioni comunali. Sempre più convinti che sarebbero arrivati al potere attraverso il parlamento esistente, non avevano bisogno di invocare un’assemblea costituente. Nelle elezioni del 1892 presero il controllo di varie municipalità e ottennero buoni risultati alle elezioni parlamentari del 1893, tanto da far dire a Guesde che si trattava dì “una vera e propria rivoluzione” (ibid.) Engels rimase allibito e scrisse che sperava che la stampa di partito non avrebbe pubblicato la dichiarazione di Guesde, che “all’estero suonerebbe semplicemente grottesca” (Engels a Laura Lafargue, 31 agosto 1893).
La ricerca del successo elettorale portò i guesdisti a formare dei blocchi politici con vari radicali borghesi pseudo socialisti. Finirono per lasciare la guida della frazione parlamentare al riformista Jean Jaurès, che col congresso del 1905 prese il controllo del Partito socialista unificato. Per Jaurès “socialismo” in fondo significava solo realizzare gli ideali della Rivoluzione francese del 1789. Così nel novembre del 1895, poco dopo la morte di Engels, sia lui che i guesdisti appoggiarono il primo governo del Partito radicale borghese. Quattro anni dopo, Alexandre Millerand, amico di Jaurès, fece parte di un governo borghese simile, suscitando le proteste tempestose della sinistra della Seconda internazionale. Anche se la loro evoluzione fu diversa, i socialdemocratici francesi alla fine non furono da meno della Spd quanto a servilismo riformista parlamentare.
Il marxismo russo e l’Assemblea costituente
La vita politica di Marx ed Engels attraversò due periodi di enormi rivolgimenti sociali: le rivoluzioni del 1848 e la Comune di Parigi ventitre anni dopo. Ma la continuità marxista fu fatta a pezzi nel periodo reazionario successivo, quando prese forma il mondo imperialista e l’opportunismo dilagò sempre più nella Seconda internazionale. I partiti socialdemocratici divennero parlamentaristi, parteciparono a governi borghesi e gestirono consigli comunali. Nel primo decennio del Ventesimo secolo, la Seconda internazionale si spinse fino a discutere se il colonialismo fosse progressista e una significativa minoranza appoggiò la tesi sciovinista del “colonialismo socialista”. Ciò prefigurò il collasso dell’Internazionale nel 1914, quando i suoi principali partiti (ad eccezione, tra gli altri, dei bolscevichi e dei socialisti “stretti” bulgari) sostennero i piani di guerra dei propri governi borghesi nella Prima guerra mondiale. Tra le forze della sinistra della Seconda internazionale, fu soprattutto Lenin, la cui attività aveva attraversato le rivoluzioni russe del 1905 e 1917, a riprendere gli insegnamenti di Marx ed Engels applicandoli ai compiti del proletariato nell’epoca della decadenza del capitalismo.
In Russia, la genealogia della rivendicazione di una costituzione democratica e di un’assemblea costituente, risaliva chiaramente alla Seconda internazionale. Ma fin dalla nascita del gruppo dell’Emancipazione del lavoro di Georgij Plekhanov nel 1883, una differenza importante aveva separato il marxismo russo dai principali partiti socialdemocratici occidentali e dell’Europa centrale. La Russia era economicamente e politicamente arretrata, soggetta a una monarchia assoluta, con enormi masse contadine e solo un embrione di classe operaia industriale. Come ha osservato lo storico G.D.H. Cole:
“Nei paesi più avanzati, specie dove esistevano esperienze e tradizioni di democrazia borghese e di governo costituzionale, ‘la rivoluzione’ non doveva essere necessariamente sanguinosa. La si poteva pensare come una cosa incruenta, senza quasi spargimento di sangue (...) In Russia, nessuno poteva pensarlo. Per i russi la rivoluzione non era l’ultima tappa di un processo preceduto da una serie di fasi costituzionali, ma il primo passo per mettere in moto tutto il processo. Per i russi il primo passo, o almeno così pensavano, doveva essere la conquista di una Costituzione, e sapevano di non poterla ottenere se non con mezzi rivoluzionari”. (Cole, The Second International 1889-1914, parte 2, London: Macmillan & Co., 1960)
A differenza dei dirigenti della Spd, che avevano abbracciato la via parlamentare al socialismo, i marxisti russi sapevano che anche la costituzione democratica poteva essere conquistata solo con un’insurrezione rivoluzionaria, forse simile alla Convenzione sotto i giacobini.
La richiesta di una costituzione apparve nella prima bozza di programma del gruppo della Emancipazione del lavoro, scritta da Plekhanov nel 1884. Pur non chiedendo esplicitamente un’assemblea costituente, sia questo progetto che un secondo scritto tre anni dopo, affermavano che bisognava conquistare delle “istituzioni politiche libere” tramite “l’agitazione per una costituzione democratica” (Plekhanov, Selected Philosophical Works, vol. 1, Moscow: Progress Publishers, 1974).
Nei primi mesi del 1902, Lenin prese spunto dalle bozze di Plekhanov per scrivere il programma del Partito operaio socialdemocratico russo. Questo affermava che l’“obiettivo politico immediato” è “il rovesciamento dell’autocrazia zarista e la sua sostituzione con una repubblica basata su una Costituzione democratica”, e concludeva che “l’attuazione completa, conseguente e duratura delle trasformazioni politiche e sociali suddette può essere raggiunta soltanto mediante il rovesciamento dell’autocrazia e la convocazione di un’assemblea costituente eletta liberamente da tutto il popolo”. (“Progetto di programma del Partito operaio socialdemocratico russo”, gennaio-febbraio 1902)
Per Lenin, la questione decisiva per l’avanzamento della rivoluzione era la necessità di conquistare le vaste masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione. L’appello di Lenin a un’assemblea costituente era integralmente legato al suo quadro concettuale di allora: la dittatura democratica del proletariato e dei contadini e la richiesta di un governo rivoluzionario provvisorio che la convocasse. In molti articoli scritti nella prima metà del 1905, sottolineò soprattutto l’obiettivo di un governo rivoluzionario provvisorio e dell’assemblea costituente. Nella seconda metà dell’anno, rivolse la sua attenzione alla polemica con i liberali e con gli opportunisti sui mezzi con cui realizzare tale obiettivo. Sostenne continuamente la necessità che il proletariato agisse in modo indipendente dalla borghesia liberale anche attraverso scioperi politici, sollevazioni armate, ecc.
Così all’inizio del 1905 Lenin si congratulò con Alexander Parvus per aver rotto con i menscevichi della “nuova Iskra”, ma lo criticò per aver detto che “il governo rivoluzionario provvisorio in Russia sarà il governo della democrazia operaia” (“La socialdemocrazia e il governo rivoluzionario provvisorio”, marzo-aprile 1905). Sette mesi più tardi, dopo la nascita del Soviet di San Pietroburgo, scrisse:
“Il soviet deve proclamarsi governo rivoluzionario provvisorio, o costituire un tale governo, mobilitando necessariamente nuovi deputati, eletti non solo dagli operai, ma, anzitutto, dai marinai e dai soldati, che si sono battuti dappertutto per la libertà, e poi dai contadini rivoluzionari, infine dagli intellettuali borghesi rivoluzionari.” (“I nostri compiti e il soviet dei deputati operai”, novembre 1905)
Approfondendo la questione un paio di mesi dopo, Lenin osservò che i soviet erano “indispensabili per raggruppare saldamente le masse, per unirle nella lotta, (...) per interessare, risvegliare, attrarre le masse”. Aggiunse anche che servivano delle milizie armate di lavoratori (e villaggi) per “organizzare l’insurrezione nel più stretto significato del termine”. (“Lo scioglimento della duma e i compiti del proletariato”, luglio 1906)
Pur riconoscendo nei soviet la forma o l’embrione di un nuovo governo rivoluzionario e pur comprendendo la necessità che il proletariato si armasse per attuare un’insurrezione, per Lenin la chiave di volta rimaneva l’assemblea costituente. Nello stesso articolo del luglio 1906 scrisse: “Questa insurrezione abbatterà l’autocrazia e creerà una rappresentanza popolare che eserciterà effettivamente il potere, cioè l’Assemblea costituente.” Restava intrappolato all’interno del costrutto teorico del programma minimo, ma a differenza dei menscevichi che si accodavano alla borghesia liberale, Lenin si batteva per instillare nel proletariato la sfiducia verso la borghesia e per spingerlo ad una lotta sempre più audace e indipendente.
Fu in questo periodo che Trotsky cominciò ad elaborare la teoria della rivoluzione permanente, inizialmente in collaborazione con Parvus. In un articolo intitolato “Prima del nove gennaio”, scritto in gran parte verso la fine del 1904, appena prima che scoppiasse la Rivoluzione del 1905, in cui dedicò diverse pagine alla questione dell’assemblea costituente, giunse alla conclusione che “i democratici onesti e coerenti” devono “fare appello instancabilmente e senza sosta alla potente volontà del popolo, espressa in una Assemblea costituente eletta mediante voto universale, diretto e segreto, in cui tutti hanno gli stessi diritti” (pubblicato da Richard Day e Daniel Gaido editori, Witnesses to Permanent Revolution, Chicago: Haymarket Books, 2011).
Ma alla fine di quell’anno, Trotsky aveva ormai abbandonato ogni riferimento all’assemblea costituente. La sua prefazione del dicembre 1905 ad un’edizione russa de La Comune di Parigi di Marx, in pratica uno schema di Bilanci e prospettive (1906), denunciava le illusioni in una repubblica democratica e citava la prefazione scritta nel 1891 da Engels per La guerra civile in Francia: “Però lo Stato non è in realtà che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, nella repubblica democratica non meno che nella monarchia”. Trotsky continuò:
“La borghesia è incapace di guidare il popolo nell’ottenere un ordine parlamentare attraverso il rovesciamento dell’assolutismo (...) Il proletariato è la sola forza guida della rivoluzione e il principale suo combattente. Il proletariato si impadronisce dell’intero campo e non è mai soddisfatto, né potrà mai essere soddisfatto, da nessuna concessione, attraverso ogni tregua o ritirata temporanea, porterà alla vittoria la rivoluzione che lo condurrà al potere.” (“Prefazione a Karl Marx, Parizhskaya Kommuna”, dicembre 1905, Witnesses to Permanent Revolution)
In modo implicito in questo articolo, ed esplicitamente in Bilanci e prospettive, Trotsky demolì la separazione tra programma minimo e programma massimo. Sottolineò l’importanza dei soviet, la cui attività “mostra chiaramente che la politica del proletariato russo al potere sarà un nuovo e colossale passo in avanti rispetto alla Comune del 1871” ([nostra traduzione]).
L’edizione originale del 1906 di Bilanci e prospettive non menzionava l’assemblea costituente, sebbene Trotsky affrontasse la questione in un’appendice pubblicata nell’ottobre del 1915. Attaccando il quadro politico democratico-borghese in cui operavano i menscevichi, scrisse: “La parola d’ordine dell’assemblea costituente presuppone una situazione rivoluzionaria. Ve ne è una? Sì, ma non si esprime affatto nella presunta nascita, finalmente, di una democrazia borghese, che si presume pronta e in grado di regolare i conti con lo zarismo”. Pur affermando che la rivendicazione di un’assemblea costituente “giocherebbe un ruolo enorme nell’agitazione dei socialdemocratici”, mise in guardia: “La richiesta di un’assemblea costituente e della confisca delle terre, perde nelle attuali condizioni ogni significato rivoluzionario diretto, se il proletariato non è pronto a lottare per la conquista del potere”.
Quasi contemporaneamente, Lenin scrisse: “La parola d’ordine ‘Assemblea costituente’, come parola d’ordine indipendente è errata, perché tutto il problema consiste ora nel sapere chi è che la convoca. I liberali accettarono nel 1905 questa parola d’ordine perché era possibile interpretarla nel senso che la Costituente dovesse essere convocata dallo zar e che la medesima avrebbe patteggiato con quest’ultimo” (“Alcune Tesi”, ottobre 1915). Pur continuando a fare appello ad un governo provvisorio rivoluzionario, Lenin sostenne che le parole d’ordine principali dovevano essere la lotta per una repubblica democratica, per la confisca delle proprietà fondiarie e per una giornata lavorativa di otto ore, insieme alla “solidarietà internazionale dei lavoratori nella lotta per il socialismo e per l’abbattimento rivoluzionario dei governi belligeranti” (ibid.)
L’Assemblea costituente nella Rivoluzione russa
I temi della rivoluzione permanente e dell’assemblea costituente sono strettamente legati, perché la questione centrale è quale forma di Stato sarà in grado di svolgere i compiti democratici della rivoluzione: la dittatura della borghesia o la dittatura del proletariato? Questi temi furono dibattuti per oltre un decennio, segnando l’evoluzione verso destra di Plekhanov e dei menscevichi, e la decisiva rottura da parte di Trotsky e della maggior parte dei bolscevichi di Lenin con la concezione della rivoluzione in “due tappe”. Come la storia avrebbe dimostrato, la concezione “in due tappe” della rivoluzione consiste in una prima fase in cui gli opportunisti contribuiscono a portare un’ala della borghesia al potere e una seconda fase in cui la borghesia annega comunisti e operai nel sangue.
Anche dopo che i concetti essenziali della prospettiva della rivoluzione permanente furono accettati, da Trotsky nel 1905 e da Lenin nei primi mesi del 1917, il rapporto tra soviet e assemblea costituente dovette ancora essere messo alla prova nella realtà. Fu l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre a spingere Lenin e Trotsky a sostenere lo scioglimento dell’Assemblea costituente, nonostante il loro precedente sostegno agli appelli per convocarla.
Nei primi mesi del 1917, come delineato nelle famose Tesi di aprile, Lenin ruppe decisamente con la dottrina del sostegno ad una “dittatura democratica”, ad un governo rivoluzionario provvisorio. Opponendosi ai bolscevichi di destra come Lev Kamenev e Stalin, che facevano appello al sostegno condizionato al governo provvisorio borghese, creato dopo il rovesciamento dello zar, Lenin sostenne che i soviet erano “l’unica forma possibile di governo rivoluzionario” (“Sui compiti del proletariato nella rvoluzione attuale”, aprile 1917).
A differenza del 1905, quando Lenin sosteneva che l’obiettivo dell’insurrezione doveva essere la creazione di un’assemblea costituente, ora utilizzava la rivendicazione dell’assemblea costituente come una tattica di smascheramento per aiutare le masse ad opporsi al Governo provvisorio e a lottare per il potere sovietico:
“Ho attaccato il governo provvisorio perché non ha fissato un termine, né vicino né lontano, per la convocazione dell’Assemblea costituente e per essersi limitato a fare promesse. Ho dimostrato che, senza i Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, la convocazione dell’Assemblea costituente non è garantita e il suo successo è impossibile” (ibid. [nostra traduzione]).
I menscevichi e gli altri partiti conciliatori continuavano a rinviare la convocazione dell’Assemblea costituente. Questo ritardo dava loro un pretesto per continuare la guerra e non dare la terra ai contadini. Nel frattempo, contrapponevano la richiesta di un’Assemblea costituente alle crescenti richieste di un governo dei soviet. Una risoluzione adottata dai menscevichi nel luglio del 1917 condannava lo slogan bolscevico “Tutto il potere ai Soviet!” come “pericoloso” perché i soviet erano “sostenuti da una minoranza della popolazione”, e concludeva: “Solo allora, nell’Assemblea costituente che deciderà il destino della Russia per molti anni a venire, risuonerà la voce della classe operaia” (citato in Robert H. McNeal ed., Resolutions and Decisions of the Communist Party of the Soviet Union, vol.1, Toronto: University of Toronto Press, 1974).
Lenin dovette lottare contro le “illusioni costituzionali” anche all’interno del suo partito. Queste raggiunsero il culmine in ottobre, quando Kamenev e Zinoviev contrapposero il sostegno all’Assemblea costituente all’appello all’insurrezione. Propugnando un tipo di Stato “combinato”, Kamenev e Zinoviev sostennero che, invece di prendere il potere, “I soviet devono essere una pistola puntata alla tempia del governo per forzarlo a convocare l’Assemblea costituente” (citato da Lenin in “Lettera ai compagni”, 17 ottobre 1917). Lenin rispose bruscamente: “Rinunciare all’insurrezione significa rinunciare a trasferire il potere ai soviet, significa ‘trasferire’ tutte le speranze e tutte le aspirazioni alla buona borghesia, che ha ‘promesso’ di convocare l’Assemblea costituente”. (ibid.)
Dopo aver conquistato il potere sovietico, i bolscevichi organizzarono delle rapide elezioni per l’Assemblea costituente. Ne venne fuori un organismo controrivoluzionario. Quando si rifiutò di riconoscere il potere sovietico, l’Assemblea costituente fu sciolta.
Riassumendo il dibattito sull’Assemblea costituente nella Storia della rivoluzione russa (1930-1932), Trotsky sottolineò “la bancarotta della democrazia formale in una profonda crisi storica”, e aggiunse: “La forza della tradizione era dimostrata dal fatto che alla vigilia dell’ultima battaglia nessun campo aveva ancora rinunciato al nome dell’Assemblea costituente”. La sua analisi prosegue spiegando:
“Ma in modo quasi impercettibile nel corso degli eventi della rivoluzione, questo slogan democratico principe, che per un decennio e mezzo ha tinto con il suo colore l’eroica lotta delle masse, era diventato pallido e sbiadito, in qualche modo era diventato terra tra le macine, un guscio vuoto, una forma priva di contenuti, una tradizione e non una prospettiva. Non c’era nulla di misterioso in questo processo. Lo sviluppo della rivoluzione aveva raggiunto il punto di una lotta diretta per il potere tra le due classi fondamentali della società, la borghesia e il proletariato. Una Assemblea costituente non poteva dare nulla né all’una né all’altro.” ([nostra traduzione])
Germania 1918-19
L’esperienza del 1917 e lo scioglimento dell’Assemblea costituente nel gennaio del 1918 ebbero un impatto decisivo. Più tardi nello stesso anno, quando la rivoluzione iniziò a svilupparsi anche in Germania, all’interno dell’ala rivoluzionaria nessuno appoggiava la rivendicazione di un’assemblea costituente. La richiesta di un’assemblea nazionale fu lanciata solo dalla Spd riformista, a scopi apertamente controrivoluzionari, e dalla direzione centrista della Uspd, un raggruppamento di elementi eterogenei espulsi dalla Spd nel 1917, di cui facevano parte opportunisti di lungo corso come Kautsky, Rudolf Hilferding e Eduard Bernstein. Come avevano fatto nell’Ottobre 1917 Zinoviev e Kamenev, la direzione centrale della Uspd spingeva per uno Stato “combinato” che unisse i consigli operai ad un’assemblea nazionale, col predominio incontrastato di quest’ultima.
La situazione rivoluzionaria scoppiò all’inizio di novembre del 1918, in seguito ad un ammutinamento dei marinai di Kiel, che innescò vasti scioperi e la formazione di consigli di operai e soldati in molte città tedesche. Lo Spartakusbund di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, che allora costituiva l’ala sinistra della Uspd, lanciò la parola d’ordine: “Eliminare il Reichstag e tutti i parlamenti assieme al governo imperiale. I consigli di operai e soldati di Berlino devono assumere il potere governativo e istituire un consiglio nazionale di operai e soldati” (Die Rote Fahne, 10 novembre 1918, Riddell, op. cit). Il giorno successivo, un messaggio del governo bolscevico al proletariato tedesco proclamava: “E’ essenziale che vi impadroniate effettivamente del potere ovunque, armi alla mano, formando un governo di operai, soldati e marinai capeggiato da Liebknecht. Non lasciatevi imporre un’assemblea nazionale” (ibid.)
Visto quello che era successo in Russia, la Spd mise la rivendicazione di un’assemblea nazionale al centro dei suoi tentativi di restaurazione del dominio della borghesia. Quando enormi manifestazioni proletarie si impadronirono delle vie di Berlino, il cancelliere, principe Max von Baden, si convinse che solo l’abdicazione di Guglielmo II e la formazione di un governo guidato dalla Spd avrebbe potuto salvare la situazione per conto del capitale tedesco. Chiese a Friedrich Ebert, il leader della Spd: “Se riesco a convincere il kaiser, sarete dalla mia parte nella lotta contro la rivoluzione sociale?” (ibid.) Ebert rispose: “Se il kaiser non abdica, la rivoluzione sociale è inevitabile. Ma io non la voglio; no, la odio come il peccato”.
Il principe e la Spd sua alleata riuscirono a contenere la marea rivoluzionaria: quando il kaiser obiettò a farsi da parte, von Baden rinunciò a tentare di fargli capire la situazione e non fece che annunciarne l’abdicazione. Il cosegretario della Spd, Philipp Scheidemann, fece la sua parte proclamando la repubblica: con gran dispiacere di Ebert, che avrebbe preferito mantenere la monarchia in quanto cardine della legge e dell’ordine, come nel sistema imperiale giapponese.
Anche l’idea di convocare rapidamente un’assemblea nazionale ebbe origine da von Baden. Il suo annuncio dell’abdicazione del kaiser si chiudeva con la proposta di nominare Ebert cancelliere e di presentare un decreto per delle “elezioni immediate per un’assemblea nazionale tedesca” (ibid.) Nel suo autorevole libro sui consigli operai tedeschi del 1918-19, Eberhard Kolb commentò:
“Una grande importanza per il successivo svolgersi degli eventi, la ebbe il fatto che l’otto novembre, il principe Max von Baden avanzasse l’idea di un’assemblea nazionale, che meditava da giorni, in modo da spiazzare il movimento rivoluzionario con una contromossa democratica. In una telefonata col kaiser, si raccomandò che non trasmettesse la reggenza al nipote, ma
convocasse un’assemblea nazionale: in questo modo l’umore delle masse, che spingeva alla lotta, sarebbe stato incanalato da un alveo illegale in uno legale, dalle strade alle urne” (Kolb, Die Arbeiterräte in der deutschen Innenpolitik: 1918-1919 [I Consigli operai nella politica interna tedesca, 1918-1919] Frankfurt Ullstein, 1978).
Per ingannare la classe operaia la Spd doveva mostrare una facciata di “unità socialista”, pertanto Ebert invitò la Uspd ad entrare nel suo governo, ribattezzato Consiglio dei deputati del popolo, un’allusione deliberatamente fuorviante al Consiglio dei commissari del popolo, bolscevico e rivoluzionario. Nonostante l’opposizione di Luxemburg, Liebknecht e dei loro sostenitori, la Uspd diligentemente acconsentì ed entrò nel nuovo governo il 10 di novembre. La Spd legò i suoi appelli democratici alla pretesa secondo cui l’assemblea nazionale avrebbe rappresentato la sovranità di tutto il popolo. Nello stesso annuncio con cui indiceva le elezioni per l’assemblea, il governo istituì il suffragio universale per tutti i cittadini a partire dai vent’anni, eliminando l’odiato sistema elettorale prussiano, basato su tre classi. Annunciò anche altre riforme, tra cui la giornata lavorativa di otto ore, in modo da cooptare gli operai riluttanti e far loro accettare il ristabilimento dell’ordinamento capitalista. Si trattava, a tutti gli effetti, del “programma minimo”.
Un acceso dibattito sull’assemblea nazionale ebbe luogo il 15 dicembre, in occasione di una conferenza speciale della Uspd della regione berlinese. Luxemburg presentò una mozione per conto dello Spartakusbund, i cui passaggi chiave stabilivano che la conferenza:
“1. Chiede il ritiro immediato dei rappresentanti della Uspd dal governo Ebert-Scheidemann.
2. Respinge la convocazione di un’assemblea nazionale, che può solo rafforzare la controrivoluzione e defraudare la rivoluzione dei suoi obiettivi socialisti.
3. Chiede che i consigli di operai e soldati assumano immediatamente tutto il potere politico”.
(Die Freiheit, 16 dicembre 1918, in Riddell, op. cit.)
Ad essa si contrappose una mozione di Hilferding che affermava: “Il compito politico più importante della Uspd in questo momento è di prepararsi per le elezioni dell’assemblea nazionale. Si tratta di mobilitare tutte le forze del proletariato per garantire la vittoria del socialismo sulla borghesia” (ibid.) Alla fine la mozione di Hilferding ricevette una netta maggioranza, che rifletteva la relativa debolezza delle forze degli spartachisti.
I consigli di operai e soldati, che erano in gran maggioranza controllati dalla Spd o dalla Uspd, finirono con l’abdicare a vantaggio dell’assemblea nazionale. Se già i consigli si vedevano in genere come delle effimere “organizzazioni di appoggio” del Consiglio dei deputati del popolo, questa falsa coscienza fu ulteriormente rafforzata dall’idea di immediate elezioni di un organismo parlamentare che avrebbe dovuto teoricamente risolvere le questioni controverse a vantaggio degli operai. La richiesta di un’assemblea costituente fu un elemento cruciale della tattica dilatoria del governo ed ebbe il compito di rimandare le decisioni importanti a dopo che la borghesia avesse potuto riprendere le forze e la smobilitazione di massa avesse indebolito in modo decisivo i consigli dei soldati. La smobilitazione dell’esercito, ormai scompaginato, fu effettuata nel modo più veloce possibile, lasciando ai soldati esausti giusto il tempo di tornare a casa e garantendo loro il rientro al posto di lavoro. Il primo congresso nazionale dei consigli di operai e soldati, tenuto tra il 16 e il 21 dicembre, votò l’appoggio all’assemblea nazionale e le elezioni si tennero un mese dopo, a sole dieci settimane dallo scoppio della rivoluzione.
La vasta maggioranza degli operai tedeschi desiderava una qualche forma di socialismo. Un partito autorevole come quello bolscevico, con dei quadri politicamente temprati e radicati nelle fabbriche, avrebbe potuto indirizzare la situazione verso la rivoluzione operaia. Ma l’errore commesso da Luxemburg e Liebknecht, che non ruppero con la socialdemocrazia neppure dopo il tradimento storico da essa commesso con l’appoggio ai crediti di guerra nel 1914, fece sì che lo Spartakusbund rimanesse un piccolo gruppo di individui isolati immersi in un mare di socialdemocratici. Il rifiuto dei più autorevoli tra i marxisti rivoluzionari tedeschi ad organizzare una scissione dalla Spd (e la loro successiva decisione di rimanere con i chiacchieroni pacifisti borghesi della Uspd), consentì ai capi della Spd e della Uspd di nascondere le questioni politiche decisive e di rendere ancor più efficace la cinica retorica unitaria della Spd.
Il Kpd (formato col contributo dello Spartakusbund negli ultimi giorni del 1918) riuscì a portare centinaia di migliaia di operai nelle strade di Berlino per protestare contro gli affronti del governo di Ebert. Ma avendo solo poche centinaia di membri in città, il nuovo partito non era in condizione di guidare una lotta immediata per il potere operaio. All’inizio di gennaio del 1919, quando dei militanti operai occuparono la tipografia che stampava il giornale della Spd, Liebknecht si fece trascinare dall’impazienza rivoluzionaria e seguì gli operai in una lotta prematura per il potere, nonostante l’opposizione della Luxemburg. Poi, invece di entrare in clandestinità, Luxemburg e Liebknecht restarono a Berlino, dove vennero braccati dagli sbirri della Spd e uccisi dai Freikorps di destra.
Il ruolo controrivoluzionario dell’assemblea nazionale si rivelò ancor più chiaramente in Germania nel 1918-19 di quanto non fosse avvenuto in Russia l’anno prima. La richiesta di quest’assemblea fu al centro delle manovre con cui la borghesia accorciò il periodo in cui lo Spartakusbund e il Kpd avrebbero potuto organizzare la classe operaia attorno ad un programma rivoluzionario. Quello che la Spd e i suoi tirapiedi nella destra della Uspd stavano realmente facendo iniziò ad essere compreso solo dopo la sanguinosa repressione di metà gennaio. Dopo che il potere della borghesia fu temporaneamente riconsolidato, Ebert e soci poterono mobilitare i Freikorps per sopprimere le sacche di resistenza operaia in tutta la Germania.
L’Internazionale comunista trae le lezioni
Al Primo congresso dell’Internazionale comunista (Ic), Lenin dichiarò: “Nella nostra rivoluzione non siamo andati avanti sul piano teorico ma sul terreno della pratica. Per esempio, noi non avevamo posto prima teoricamente il problema dell’assemblea costituente e non avevamo dichiarato che non avremmo riconosciuto tale assemblea. Solo più tardi, quando le organizzazioni sovietiche si sono diffuse in tutto il paese e hanno conquistato il potere politico, abbiamo deciso di sciogliere l’Assemblea costituente” (“Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato”, 4 marzo 1919).
Questo passaggio dall’approccio pratico a quello teorico nel considerare l’assemblea costituente può essere ripercorso negli scritti e nelle dichiarazioni dello stesso Lenin. Stato e rivoluzione, scritto pochi mesi prima della rivoluzione d’Ottobre, fu una lunga polemica contro le illusioni parlamentariste. Pur non affrontando direttamente la rivendicazione dell’assemblea costituente, sottolineò ripetutamente il fatto che la strada per il socialismo passa dalla dittatura proletaria e non dalla democrazia borghese. Dopo la realizzazione del potere sovietico, Lenin sostenne che bisognava rimandare le elezioni per l’assemblea costituente. Nel 1924 Trotsky rivelò che su questa questione “Lenin si era ritrovato solo” nella direzione del partito, e citò le parole del capo bolscevico: “Per il governo provvisorio l’Assemblea costituente rappresentava o poteva rappresentare un passo avanti, per il potere sovietico, soprattutto con le liste attuali, sarebbe inevitabilmente un passo indietro.” (Trotsky, Lenin). Lenin sosteneva che la decisione di continuare con le elezioni era “un errore, è chiaramente un errore che ci può costare molto caro! Speriamo che la rivoluzione non debba rimanerne travolta
” (ibid.)
Dopo l’elezione di una maggioranza controrivoluzionaria all’assemblea, Lenin scrisse le “Tesi sull’Assemblea costituente” (dicembre 1917), come parte della sua lotta contro il Bureau dei delegati bolscevichi all’Assemblea costituente (di cui facevano parte anche Kamenev e Stalin), che stava capitolando alla democrazia borghese. Le Tesi affermavano che: “Ogni tentativo, diretto o indiretto, di considerare la questione dell’Assemblea costituente dal lato formale, giuridico, nel quadro della comune democrazia borghese senza tener conto della lotta di classe e della guerra civile, significa tradire la causa del proletariato, passare alle posizioni della borghesia (
) Ogni tentativo di legare le mani al potere sovietico in questa lotta sarebbe un aiuto alla controrivoluzione”.
Lenin affrontò la questione da un punto di vista storico più ampio in La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, che terminò appena prima dello scoppio della rivoluzione tedesca alla fine del 1918. Nel suo rapporto al Primo congresso dell’Ic, che si riunì meno di due mesi prima dell’assassinio di Luxemburg e Liebknecht, disse: “Qui si manifesta ancora una volta che il corso generale della rivoluzione proletaria è identico in tutto il mondo. Si ha all’inizio la costituzione spontanea dei soviet, viene poi la loro estensione e il loro sviluppo, si pone quindi nella pratica il problema: soviet o Assemblea nazionale, soviet o Assemblea costituente, soviet o parlamentarismo borghese; allo smarrimento completo dei leaders segue, infine, la rivoluzione proletaria.” (“Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato”)
Nel maggio del 1920, Lenin scrisse L’estremismo, malattia infantile del comunismo, affinché fosse distribuito ai delegati al Secondo congresso dell’Ic. Il suo obiettivo era quello di combattere le tendenze di ultra sinistra nei giovani e inesperti partiti comunisti. Incitandoli ad assorbire le lezioni della storia bolscevica, Lenin spiegò che la partecipazione alle elezioni borghesi e l’uso della tribuna parlamentare per conquistare gli operai, erano tattiche di grande valore potenziale per i comunisti. Vi osservò che “i bolscevichi non hanno boicottato l’Assemblea costituente, ma hanno partecipato alle elezioni prima e anche dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato”. Ma in nessun passaggio di questo manuale di tattiche comuniste, e in nessun altro al Secondo congresso, neppure nelle “Tesi sui partiti comunisti e il parlamentarismo”, fece alcun tentativo di resuscitare la rivendicazione dell’assemblea costituente, che era stata parte centrale dell’agitazione dei “vecchi bolscevichi” per 15 anni.
Nel 1921, in occasione del Terzo congresso, di nuovo dedicato per buona parte ad impartire le lezioni del bolscevismo, Lenin menzionò una volta sola l’assemblea costituente, per notare che era ormai diventata “una parolaccia, non solo per i comunisti evoluti, ma anche per i contadini” (“Rapporto sulla tattica del P.C.R. [Partito comunista russo]”, 5 luglio 1921). Aggiunse anche che “Essi sanno per esperienza che Assemblea costituente e guardie bianche significano la stessa cosa, che dopo la prima immancabilmente vengono le seconde”.
Prima del 1917, una ragione importante per cui i bolscevichi rivendicavano l’assemblea costituente era stata la necessità di conquistare le masse contadine. Ma l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre dimostrò che non era stata l’agitazione per un parlamento democratico, ma la realizzazione del potere statale proletario, a porre le basi affinché i contadini (specialmente i contadini poveri) si schierassero con gli operai. Come Lenin ebbe a notare retrospettivamente: “alcune ore dopo la vittoria sulla borghesia a Pietrogrado, il proletariato vittorioso promulgò il ‘decreto sulla terra’, soddisfece interamente e di colpo, con rapidità, energia e devozione rivoluzionaria, tutti i bisogni economici essenziali della maggioranza dei contadini, procedette all’espropriazione completa e senza indennizzo dei proprietari fondiari” (“Le elezioni all’Assemblea costituente e la dittatura del proletariato,” dicembre 1919). Continuò scrivendo:
“Ecco appunto la dialettica che i traditori, gli imbecilli e i pedanti della II Internazionale non hanno mai saputo comprendere: il proletariato non può vincere senza conquistare la maggioranza della popolazione. Ma limitare o condizionare questa conquista al raggiungimento della maggioranza dei voti nelle elezioni, sotto il dominio della borghesia, significa dar prova di incurabile ristrettezza mentale o semplicemente ingannare gli operai”.
L’esperienza storica non lascia dubbi. Quelli che citano l’atteggiamento di Lenin e dei bolscevichi prima dell’Ottobre del 1917 per giustificare la richiesta di assemblee costituenti, devono ignorare tutto quello che Lenin scrisse e disse dal 1918 in poi, quando non fece altro che condannare questa rivendicazione. Nel suo periodo rivoluzionario, l’Ic trattò l’assemblea costituente al più come uno slogan superato, un relitto del diciannovesimo secolo e del programma minimo/massimo della socialdemocrazia. Soprattutto alla luce delle esperienze della Russia e della Germania, il movimento comunista sotto Lenin e Trotsky riconobbe che, almeno nei paesi imperialisti, lo slogan poteva solo essere usato per fini controrivoluzionari nell’epoca del declino del capitalismo.
La Cina e la rivoluzione permanente
Solo dopo un decennio, dopo la sconfitta della Seconda rivoluzione cinese del 1925-27, Trotsky riprese la rivendicazione dell’assemblea costituente. In effetti, gran parte delle sue argomentazioni a favore di questa rivendicazione furono sviluppate in articoli e lettere scritti tra la fine del 1928 e l’inizio del 1932, molti dei quali sono pubblicati nella raccolta I problemi della rivoluzione cinese ed altri scritti su questioni internazionali 1924-1940, (Einaudi, 1970). Ma si tratta di articoli a volte confusi e contraddittori. Invece di apportare chiarezza ai trotskisti cinesi, suscitarono continue discussioni, differenze e persino paralisi politica.
L’Ic delle origini non affrontò la questione della validità dello slogan per le colonie e le semicolonie, dove il proletariato era molto più debole che non in Europa e dove gli imperialisti governavano con la repressione più brutale, senza nemmeno la parvenza di una democrazia borghese. Le “Tesi sulla questione nazionale e coloniale”, scritte da Lenin e adottate dal Secondo congresso dell’Ic, insistevano sulla necessità per i comunisti dei paesi imperialisti di appoggiare attivamente la lotta per la liberazione delle colonie. A quell’epoca esistevano a malapena dei movimenti politici proletari nelle colonie e nelle semicolonie, anche se le devastazioni economiche indotte dalla guerra avevano creato delle importanti concentrazioni operaie in paesi come la Cina e l’India. Pur invocando delle “alleanze temporanee” con le forze democratico-borghesi, le Tesi di Lenin affermavano che anche i nuclei comunisti più embrionali dovevano mantenere l’indipendenza di classe dalla borghesia nazionale.
Questa concezione cominciò ad essere sovvertita nel 1922, quando il Quarto congresso dell’Ic rivendicò un “fronte unico antimperialista”, accettando tacitamente la formazione di un blocco politico permanente con il nazionalismo borghese. Ma quali che fossero le debolezze delle decisioni del Quarto congresso, l’approccio dell’Ic peggiorò in maniera qualitativa con la degenerazione stalinista. Alla fine del 1924, Stalin cominciò a diffondere il dogma antirivoluzionario del “socialismo in un solo paese”. Morto Lenin ed emarginato Trotsky, la direzione dell’Ic, prima sotto l’ondivago Zinoviev e poi sotto Nicolai Bucharin, traversò una serie di svolte e controsvolte che la portarono verso una prospettiva sempre più esplicita di collaborazione di classe, che comprendeva anche l’effettiva liquidazione in seno ai partiti nazionalisti borghesi.
Il giovane Partito comunista cinese (Pcc) era stato spinto dagli inviati dell’Ic ad aderire al Kuomintang (Kmt) nazionalista borghese, già nell’agosto del 1922 (si veda “Le origini del trotskismo cinese”, supplemento a Spartaco n. 51, ottobre 1997). Inizialmente tutta la direzione del Pcc si era opposta, così come si era opposto Trotsky quando la questione venne sollevata al Politburo sovietico all’inizio del 1923. Stalin e Bukharin sostenevano che il Kmt rappresentasse un “blocco di quattro classi” e che meritasse il pieno appoggio dei comunisti. Seguendo le istruzioni dell’Ic, il Pcc restò lealmente all’interno del Kuomintang anche quando il leader del Kmt, Chiang Kai-shek organizzò un golpe nell’aprile del 1927, disarmando e massacrando decine di migliaia di operai guidati dai comunisti a Shanghai.
Trotsky combatté tenacemente per tutto il 1927 contro questa politica disastrosa. In quel momento, lui e i suoi sostenitori facevano parte dell’Opposizione unificata, una frazione in comune con Zinoviev e Kamenev dopo la loro rottura con Stalin avvenuta alla fine del 1925. L’Opposizione unificata si opponeva a qualsiasi appoggio politico ai nazionalisti borghesi e affermava, nelle parole di una mozione presentata al plenum del Comitato esecutivo dell’Ic nel maggio del 1927, che “la linea generale deve orientarsi verso l’instaurazione di una dittatura rivoluzionaria attraverso i Soviet di deputati operai e contadini” (“E’ tempo di capire, tempo di riflettere, tempo di cambiare”, maggio 1927, in Trotsky, Vujovic, Zinoviev: Scritti e discorsi sulla rivoluzione in Cina, Iskra, 1977). Ma delle importanti differenze dividevano Trotsky dal resto dell’Opposizione unificata. In particolare, egli si trovava in minoranza nel rivendicare l’uscita immediata del Pcc dal Kuomintang. L’Opposizione unificata crollò quando Zinoviev, Kamenev e i loro seguaci abiurarono alle proprie convinzioni, implorando di essere riammessi al partito, dopo che gli stalinisti avevano deciso di espellere in massa l’Opposizione alla fine del 1927.
La disfatta cinese confermò che non poteva esistere alcuna “tappa” democratica nel mondo coloniale. Alla fine del 1927, Trotsky trasse la conclusione che la prospettiva della rivoluzione permanente era l’unica via per la liberazione nazionale e sociale della Cina e degli altri paesi a sviluppo capitalista ritardato. Espose quest’idea nella sua critica della bozza di programma dell’Ic, terminata nel giugno del 1928 e pubblicata più tardi col titolo di La Terza internazionale dopo Lenin. La generalizzazione da parte di Trotsky della teoria della rivoluzione permanente a tutto il mondo coloniale e semicoloniale fu decisiva per conquistare nuovi aderenti all’Opposizione di sinistra, a partire dalla Cina stessa.
La critica della bozza di programma dell’Ic fu scritta sulla scia della catastrofica insurrezione di Canton (Guangzhou), ordinata da Stalin nel dicembre del 1927, che fu l’ultimo demoralizzante capitolo della sconfitta degli operai cinesi. Questo evento segnalò anche l’imminente passaggio di Stalin al “Terzo periodo”, in cui il sostegno al “socialismo in un solo paese” si combinava con un’altisonante fraseologia di sinistra, con l’avventurismo più idiota e con l’astensionismo settario. Anche dopo che tutte le organizzazioni della classe operaia cinese erano state decapitate, la direzione dell’Ic continuò cinicamente a negare la sconfitta e prese a rivendicare la formazione di soviet.
Gli argomenti di Trotsky
Pur condannando l’insurrezione di Canton come un putsch avventurista, Trotsky fece notare che nelle sue forme e nelle sue azioni (ad esempio, con la messa fuorilegge di tutte le ali del Kuomintang borghese, l’insurrezione aveva dimostrato come la formula di Stalin e Bukharin di una rivoluzione democratico-borghese, non fosse che una vuota finzione (“Tre lettere a Preobrazhensky”, marzo-aprile 1928). Allo stesso tempo tuttavia Trotsky cercava un modo in cui il Pcc potesse riemergere e risvegliare le masse. Aveva già approvato l’appello del Pcc ad un’assemblea costituente in un documento scritto poco dopo il sanguinoso colpo di stato del Kmt, insistendo sul fatto che questo slogan “diventa una vuota astrazione, spesso pura ciarlataneria, se non si precisa chi la convocherà e con quale programma” (“La rivoluzione cinese e le tesi del compagno Stalin”, maggio 1927, in I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali 1924-1940, op. cit.) Si deve notare che nel momento in cui scrisse queste parole, Trotsky accettava anche la rivendicazione dell’Opposizione unificata di una dittatura democratica del proletariato e dei contadini.
Trotsky riprese lo slogan dell’assemblea costituente nel settembre del 1928 in una serie di lettere a militanti dell’Opposizione di sinistra, scritte dopo che gli stalinisti avevano dichiarato che qualsiasi appello ad un’assemblea del genere sarebbe stato opportunista. In una lettera scritta il 24 settembre a Ivar Smilga, affermò:
“Sono necessarie rivendicazioni transitorie. In primo luogo, l’assemblea costituente. Questo slogan può creare una divisione fra i vertici borghesi e anche fra le masse urbane piccolo-borghesi. Può, ovviamente non subito, consentire al Partito comunista di uscire dalla clandestinità e iniziare una nuova campagna per mobilitare le masse lavoratrici.” (Yuri Felshtinsky, ed., Trotsky L.D. Pis’ma iz ccylki, 1928 [L.D. Trotsky, lettere dall’esilio, 1928], Mosca, Gumanitarnaya Literatura, 1995)
Trotsky sviluppò questo tema in un articolo più esteso:
“L’idea della rappresentanza di tutto il popolo, quale è emersa dalla esperienza di tutte le rivoluzioni borghesi e specialmente da quelle che hanno liberato le nazionalità, è la più elementare, la più semplice e la più suscettibile di effettiva diffusione in vasti strati popolari. Quanto più la borghesia dominante si oppone a questa rivendicazione di ‘tutto il popolo’, tanto più l’avanguardia proletaria si riunisce attorno alla nostra bandiera, tanto più maturano le condizioni per riportare una effettiva vittoria contro lo Stato borghese, poco importa che si tratti del regime militare del Kuomintang o di un regime parlamentare.” (“La questione cinese dopo il sesto congresso”, ottobre 1928, in I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali 1924-1940)
Quest’affermazione ignorava l’esperienza tratta dalla rivoluzione bolscevica: come aveva spiegato chiaramente Lenin nella lettera del 1919 che abbiamo citato in precedenza, le masse contadine non erano state conquistate tanto dall’agitazione a favore della democrazia, quanto dal fatto che il proletariato vittorioso aveva soddisfatto la fame di terra dei contadini. Inoltre Trotsky cercò di avvalorare la sua tesi mescolando la partecipazione al parlamento borghese con la sua rivendicazione, menzionando l’opposizione di Lenin al boicottaggio della Duma zarista nel 1907:
“Ma il fatto che gli opportunisti avanzino la parola d’ordine dell’assemblea nazionale non è per nulla un argomento a favore di un formale atteggiamento negativo verso il parlamentarismo da parte nostra. In Russia, dopo il colpo di Stato del 3 giugno 1907, la maggioranza dei dirigenti del partito bolscevico era favorevole al boicottaggio di una Duma mutilata e truccata. Ciò non impediva a Lenin di pronunciarsi a favore dell’utilizzazione anche del ‘parlamentarismo’ del 3 giugno alla conferenza del partito che in quel periodo vedeva ancora unite le due frazioni.” (ibid.)
Trotsky aveva ragione ad opporsi alle idiozie estremiste e avventuriste del Terzo periodo e a sostenere che la rivendicazione dei soviet non era più all’ordine del giorno nell’immediato futuro. Ma c’è una bella differenza tra lanciare delle rivendicazioni transitorie e democratiche che sono veramente a vantaggio degli sfruttati e chiedere la formazione di nuove istituzioni governative borghesi. Nel periodo di reazione successivo al 1927, i compiti dei marxisti cinesi erano necessariamente centrati sulla propaganda: spiegare che la lotta indipendente della classe operaia alla testa dei contadini poveri era l’unica via per la liberazione dall’imperialismo e dagli oppressori locali. Come si possono conquistare la liberazione nazionale, la rivoluzione agraria e i diritti delle donne? Solo quando i lavoratori gestiranno la società. Motivare invece (o parallelamente) la lotta per creare un parlamento borghese significa proporre implicitamente un prospettiva in due tappe: oggi la lotta per la democrazia borghese, che in futuro in qualche modo si trasformerà in una lotta per il socialismo.
I contrasti nell’Opposizione di sinistra sovietica
Sono gli stessi scritti di Trotsky ad indicare che la riscoperta della rivendicazione dell’assemblea costituente incontrò una forte resistenza sia in seno all’Opposizione sovietica che tra i cinesi da poco conquistati al trotskismo. In una circolare inviata agli altri dirigenti dell’Opposizione di sinistra, Trotsky disse di aver “già ricevuto numerosi telegrammi che sollevano obiezioni a questa rivendicazione” (“Gli slogan democratici per la Cina”, ottobre 1928 [nostra traduzione]). Commentò che alcuni “mi sembravano alquanto incredibili. Ad esempio, due compagni dicono che la richiesta di un’assemblea costituente ‘non è una rivendicazione di classe’, e pertanto dev’essere rigettata. (...) Qualche telegramma avanza la richiesta di soviet invece di un’assemblea costituente”. (ibid.)
Anche se servirebbero ricerche più approfondite, è chiaro che l’opposizione all’uso fatto da Trotsky della rivendicazione proveniva da due ali distinte dell’Opposizione di sinistra sovietica. Una si raccoglieva attorno ad uno strato di oppositori di spicco, tra i quali vi erano Smilga, Karl Radek ed Evgeny Preobrazhensky. L’anno precedente, questi avevano fatto blocco con Zinoviev e con altri elementi conciliatori dell’Opposizione unificata per quanto riguardava le prospettive in Cina. Adesso erano contrari non solo alla resurrezione della rivendicazione dell’assemblea costituente da parte di Trotsky, ma anche (fatto decisivo) alla generalizzazione della teoria della rivoluzione permanente ad includere anche la Cina. Lasciandosi trascinare dalla retorica del Terzo periodo, accolsero l’apparente svolta a sinistra di Stalin come una svolta in direzione del marxismo autentico.
Perciò questo aspetto dei primi dibattiti sullo slogan dell’assemblea costituente in seno all’Opposizione di sinistra sovietica fu completamente intrecciato con la più larga battaglia tra la rivoluzione permanente in contrapposizione alla “teoria delle tappe” e al “socialismo in un paese solo”. Trotsky fece a pezzi le tesi di Radek su queste questioni nel suo libro La rivoluzione permanente, scritto in gran parte nello stesso mese, l’ottobre del 1928. Radek, Preobrazhensky e soci avevano già percorso molto del cammino che li avrebbe portati alla capitolazione allo stalinismo nell’estate del 1929.
Delle importanti argomentazioni contro la ripresa dello slogan da parte di Trotsky vennero sviluppate anche da almeno un importante oppositore dei capitolardi, Fyodor Dingelstedt. Bolscevico dal 1910, organizzatore a Pietrogrado e nella flotta del Baltico nel 1917, Dingelstedt fece parte dell’Opposizione di sinistra sin dal 1923. Negli archivi di Trotsky presso la biblioteca Houghton dell’Università di Harvard, Cambridge, Massachusetts, esistono due lettere manoscritte di Dingelstedt in cui viene criticata la rivendicazione dell’assemblea costituente. Dingelstedt era stato arrestato dalla burocrazia e deportato in Siberia. Rimase attivo nell’Opposizione di sinistra fino alla sua esecuzione, avvenuta nel campo di prigionia di Vorkuta alla fine degli anni Trenta.
La prima lettera, datata 25 settembre 1928, approvava la strategia e le tattiche proposte da Trotsky per la Cina nella Critica della bozza di programma dell’Ic. Dingelstedt vi citò la tesi di Trotsky secondo cui il tentativo di “tenere a freno la borghesia cinese per mezzo di manovre organizzative e personali (...) non è una manovra ma spregevole autoinganno” e proseguiva ricordando a Trotsky che proprio questa sua concezione “mina il significato tattico dello slogan di un’assemblea costituente in Cina” (Biblioteca Houghton, MS Russ 13 [T2659]). In una seconda lettera, datata 11 ottobre 1928, Dingelstedt sosteneva che lo slogan per un’assemblea costituente in Cina “non vale nulla e ha persino un valore negativo” (si veda “Lettera di Fyodor Dingelstedt”, Spartacist n. 63, inverno 2012-13).
Trotsky fece allusione alla prima lettera di Dingelstedt in una circolare del 1928. Si trattava di una difesa generalmente corretta della necessità di lanciare parole d’ordine democratiche. Ma all’inizio della lettera, Trotsky affermava che “Con mia grande sorpresa, un compagno, nel criticare lo slogan dell’assemblea costituente, ha seriamente sostenuto di vedere in ciò una mia presunta manovra volta ad ‘ingannare’ la borghesia cinese.” (“La Cina e l’assemblea costituente”, dicembre 1928, [nostra traduzione]) Trotsky sostenne trattarsi di un “malinteso” e rimandò alle argomentazioni da lui sviluppate nel suo scritto “La questione cinese dopo il Sesto congresso”, ma non rispose alla sostanza delle critiche di Dingelstedt. Non sembra che Trotsky abbia mai risposto alla seconda lettera di Dingelstedt.
Differenze nell’Opposizione cinese
La rivendicazione dell’assemblea costituente fu controversa anche tra le centinaia di studenti cinesi conquistati all’Opposizione di sinistra mentre studiavano a Mosca. Nel suo libro Chinese Revolutionary: Memoirs 1919-1949 (Oxford: Oxford University Press, 1980), Wang Fanxi racconta come varie ondate successive di studenti cinesi che si sforzarono di trarre le lezioni della sconfitta della rivoluzione finirono col sostenere il programma della rivoluzione permanente. Nell’inverno del 1928-29, quasi 150 studenti cinesi dei quattrocento presenti all’Università Sun Yat-sen di Mosca, erano membri o simpatizzanti dell’Opposizione.
Sul finire del 1929, la Gpu di Stalin perquisì i dormitori dell’università, arrestando più di 200 trotskisti cinesi. Wang racconta che, anche se alcuni abiurarono alle loro idee e due riuscirono infine a sfuggire all’esilio siberiano e a rientrare in Cina, “non si sa cosa sia successo agli altri, ma non vi è dubbio che molti morirono nelle prigioni di Stalin o davanti a un plotone d’esecuzione della Gpu”. (ibid.)
Wang, che successivamente finì con l’appoggiare la rivendicazione dell’assemblea costituente, descrive l’impatto che ebbe lo scritto di Trotsky “La questione cinese dopo il Sesto congresso”: “Fino ad allora avevamo pensato che le posizioni di Trotsky fossero coerentemente ‘di sinistra’, ma leggendo il suo articolo e soprattutto la parte sullo slogan dell’assemblea costituente, a noi giovani fanatici sembrò che fosse improvvisamente saltato a destra di Stalin”. Anche Liu Renjing (Niel Sih), un altro Oppositore cinese a Mosca, che fu uno dei primi a sostenere lo slogan dell’assemblea costituente, fornisce un resoconto simile. In un lungo documento scritto nel 1934 e intitolato “Cinque anni dell’Opposizione di sinistra in Cina. Un tentativo di spiegare la sua incapacità di progredire”, Liu affermó:
“L’articolo del compagno Trotsky, ‘La questione cinese dopo il Sesto congresso’, venne diffuso tra i compagni, ma prima che il sottoscritto tornasse in Cina, la rivendicazione dell’assemblea nazionale non venne mai divulgata negli organi dell’Opposizione. Due furono le ragioni della passività riguardo allo slogan dell’assemblea nazionale. Primo, dato che la borghesia non aveva assolto uno solo dei compiti che avevano suscitato la seconda rivoluzione cinese, era opinione diffusa che vi sarebbe presto stata una nuova ascesa rivoluzionaria. Secondo, esistevano forti pregiudizi contro questo slogan in sé, pregiudizi che esistono ancora oggi”.
Non siamo al corrente dell’esistenza di alcuna documentazione dei dibattiti del 1928-29 tra gli Oppositori cinesi, considerando anche che dovevano agire nella clandestinità. Ma le differenze riguardo a questa parola d’ordine continuarono a manifestarsi nell’Opposizione cinese, che prima della conferenza di unificazione del maggio 1931 era divisa in quattro organizzazioni. Di questi dibattiti successivi esiste una documentazione parziale e frammentaria, ma è chiaro che vi regnava una grande confusione. Il termine stesso di “assemblea costituente” (lixian huiyi) era ferocemente contestato: la parola cinese lixian era generalmente vista come reazionaria, grazie ai ripetuti tentativi della morente dinastia Qing e dei signori della guerra, di scrivere una costituzione e riunire un’assemblea costituente. Alla fine Trotsky accettò un compromesso sulla terminologia parlando in genere di “assemblea nazionale” (guomin huiyi), per quanto ciò non cambiasse in nulla la sostanza delle sue tesi.
Trotsky sostenne in “Per una strategia d’azione e non speculazione” (3 ottobre 1932): non state a preoccuparvi di chi e come riunirà un’assemblea costituente, ma usate questa rivendicazione per mobilitare gli operai. Eppure, fu Trotsky stesso a lanciarsi in speculazioni in molti dei suoi scritti. Ad esempio, nell’aprile del 1930, in una risposta ad un gruppo dell’Opposizione cinese cercò di giustificare la rivendicazione speculando su possibili esiti alternativi della Rivoluzione russa:
“Se l’Assemblea costituente fosse stata convocata, diciamo, nell’aprile del 1917, si sarebbe confrontata con tutte le questioni sociali. Le classi possidenti sarebbero state costrette a mostrare le proprie carte: il ruolo traditore dei conciliatori sarebbe diventato evidente. La frazione bolscevica nella costituente avrebbe conquistato la più grande popolarità e ciò avrebbe contribuito a eleggere una maggioranza bolscevica nei soviet. In queste circostanze l’Assemblea costituente sarebbe durata non un giorno, ma forse alcuni mesi. Ciò avrebbe arricchito l’esperienza politica delle masse operaie e, piuttosto che ritardare la rivoluzione proletaria, l’avrebbe accelerata.” (“Lo slogan di un’Assemblea nazionale”, aprile 1930, [nostra traduzione])
Lo scenario ipotizzato da Trotsky ignora i molti casi storici in cui la borghesia e i suoi agenti riformisti utilizzarono un’assemblea elettiva come arma contro il proletariato insorto. Non dice nulla dell’esperienza della Germania nel 1918-19, in cui l’Assemblea nazionale fu convocata molto rapidamente proprio per prevenire una rivoluzione operaia. L’idea che una rapida convocazione dell’assemblea costituente in Russia non avrebbe avuto un impatto negativo sulla lotta per il potere sovietico, è smentita da tutta l’esperienza storica, oltre che dalle molte analisi scritte da Lenin, dall’Ic delle origini e dallo stesso Trotsky.
In una lettera scritta all’inizio del 1931, Trotsky citò il seguente argomento di un gruppo di Oppositori cinesi: “Crediamo che con ogni probabilità l’assemblea nazionale non sarà realizzata. Ma anche se si realizzasse, non potrebbe essere trasformata in un ‘governo provvisorio’, perché tutte le forze materiali sono nelle mani dei militaristi del Kuomintang. Per quanto riguarda il governo che sarà organizzato dopo l’insurrezione, esso sarà senza dubbio il governo della dittatura proletaria e in tal caso non convocherà un’assemblea nazionale.” (“All’Opposizione di sinistra cinese”, gennaio 1931, [nostra traduzione])
Definendo questa argomentazione “incompleta e unilaterale”, Trotsky rispose: “Se il proletariato raggruppasse i contadini poveri dietro le parole d’ordine della democrazia (terra, assemblea nazionale, ecc.) e in un attacco unito rovesciasse la dittatura militare della borghesia, allora, arrivato al potere, il proletariato dovrà convocare un’assemblea nazionale al fine di non suscitare la diffidenza dei contadini e non porgere il fianco alla demagogia borghese.” (ibid.)
L’idea che il proletariato al potere “dovrà convocare un’assemblea nazionale” per consolidare il sostegno tra i contadini, è anch’essa estranea alle conclusioni raggiunte da Lenin e dall’Ic delle origini. Colpisce che dagli scritti di Trotsky di questo periodo sull’assemblea costituente, manchi qualsiasi riferimento a La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky o agli altri scritti principali di Lenin del periodo tra il 1918 e il 1921, in cui furono tratte le lezioni definitive della contrapposizione tra potere sovietico e parlamentarismo borghese.
Confusione tra i trotskisti cinesi
Trotsky attribuì giustamente una grande importanza all’adesione all’Opposizione di Chen Duxiu, il fondatore del marxismo cinese e il principale dirigente del Pcc fino alla metà del 1927. Sollecitò i trotskisti più giovani, che attaccavano Chen come opportunista, avendo egli messo in pratica le politiche di Stalin mentre era alla testa del Pcc, a riconoscere il valore della sua esperienza e unire le forze. L’adesione al trotskismo di Chen e di altri veterani del Pcc, conferì all’Opposizione di sinistra un’enorme autorità nella sinistra e nel movimento operaio cinesi.
I trotskisti cinesi lottarono eroicamente contro enormi difficoltà per una prospettiva proletaria. Le loro possibilità immediate furono notevolmente ristrette dalla sconfitta del 1927, dalla pervasiva repressione e dall’ulteriore decimazione del proletariato che fece seguito alla crisi economica del 1929. La maggioranza dei leader dell’Opposizione furono imprigionati dal Kuomintang poco dopo la conferenza del 1931, e la sezione fu costretta ad una clandestinità ancora più profonda. Ciononostante conobbe una forte crescita dopo l’incursione giapponese a Shanghai all’inizio del 1932. Nell’autunno di quello stesso anno, molte delle cellule industriali del Pcc rimanenti nella città erano passate all’Opposizione. Tuttavia, Chen e gli altri dirigenti principali furono arrestati poco dopo e non vennero rilasciati che nel 1937.
Le memorie di Zheng Chaolin (un trotskista cinese che trascorse quasi trent’anni nelle prigioni di Mao, prima di essere rilasciato nel 1979) raccontano che Chen inizialmente esitava ad appoggiare la rivendicazione della dittatura del proletariato quando iniziò a spostarsi verso l’Opposizione nel 1929. Fu l’ultimo dei quadri conquistati al trotskismo a convincersi della applicabilità della rivoluzione permanente (si veda An Oppositionist for Life: Memoirs of the Chinese Revolutionary Zheng Chaolin [Atlantic Highlands, NJ: Humanities Press, 1997]). Per tutto il breve periodo in cui diresse l’Opposizione cinese, Chen appoggiò la rivendicazione dell’assemblea nazionale. E non fu certo l’unico.
L’editoriale introduttivo dell’ International Bulletin (n. 8, maggio-giugno 1931) dell’Opposizione di sinistra, in un resoconto della conferenza di unificazione del 1931, affermava: “Alcuni compagni hanno esitato prima di adottare gli slogan democratici e in particolare la parola d’ordine dell’assemblea costituente nel momento attuale, per paura di essere accusati di opportunismo dall’Ic. Altri ritenevano lo slogan dell’assemblea costituente una ‘espressione popolare per la dittatura del proletariato’”. Quest’ultima posizione era legata a Liu Renjing, che in un documento del 1934 pretendeva di riassumere vari anni di discussione. Per quanto le posizioni di destra di Liu e l’animosità frazionista contro tutto e tutti rende il suo documento inaffidabile, ha però il merito di includere delle lunghe citazioni tratte dalla stampa e dai bollettini interni dei trotskisti. Liu sostiene che l’assemblea nazionale fu “la questione più dibattuta nelle fila dell’Opposizione di sinistra cinese” e aggiunge:
“Ognuno ha la sua idea o la sua interpretazione dello slogan, ma tutte contrastanti e reciprocamente paralizzanti. La confusione è tale che l’organizzazione non sarà in grado di andare avanti se il Segretariato internazionale non ci aiuterà a chiarire la questione”. (“Cinque anni dell’Opposizione di sinistra in Cina”)
Sembra che alcuni militanti dell’Opposizione, in particolare Zheng Chaolin e Wang Fanxi, si attenessero alle argomentazioni sostenute con insistenza da Trotsky. Altri discutevano su chi dovesse convocare l’assemblea. Bisognava spingere Chiang Kai-shek a farlo? O un’altra ala del Kuomintang? Doveva essere convocata dagli operai insorti? E bisognava farlo prima o dopo la presa del potere?
Una lettera scritta nel gennaio del 1932 (ma a quanto pare non inviata) da Chen al Segretariato internazionale (Si) dell’Opposizione, dà il senso della confusione. Scrivendo dopo l’invasione giapponese della Manciuria, affermò:
“Il nostro compito più difficile in campo propagandistico è legato allo slogan dell’assemblea nazionale. Molti membri del partito, insoddisfatti del regime della burocrazia stalinista, sostengono di essere d’accordo con l’Opposizione di sinistra, ma siccome non capiscono lo slogan dell’assemblea nazionale, rifiutano di aderire alla nostra organizzazione (
) Molti compagni dell’Opposizione di sinistra sono in disaccordo con l’interpretazione rivoluzionaria dello slogan dell’assemblea nazionale. Considerano l’assemblea nazionale esclusivamente come una forma del potere della borghesia, mentre l’obiettivo dell’Opposizione di sinistra è la dittatura del proletariato nella forma dei soviet. Quest’obiettivo però appartiene al futuro, all’alta marea della rivoluzione e se nel frattempo interpretiamo lo slogan dell’assemblea nazionale in modo rivoluzionario, legandolo allo slogan ‘Abbasso il Kuomintang!’ e alla questione del potere, ci accusano di avventurismo! Dunque non siamo d’accordo tra di noi. Sta qui la nostra difficoltà. Ci servono urgentemente vostre direttive a riguardo”. (ibid.)
Le memorie di Zheng Chaolin fanno capire anche l’effetto negativo della rivendicazione sul lavoro dei trotskisti cinesi. Racconta che intorno al 1931, un ex dirigente della sinistra del Kuomintang sfidò un militante dell’opposizione di sinistra: “Voi trotskisti sostenete che la rivoluzione in Cina è proletaria, ma rivendicate un’assemblea nazionale. Gli stalinisti dicono che è borghese, ma rivendicano i soviet. Non vi sembra che entrambe le posizioni siano contraddittorie?” (Zheng Chaolin, op. cit.) Buona domanda. I trotskisti continuarono a lanciare la rivendicazione dell’assemblea nazionale: una risoluzione del Comitato esecutivo centrale del 1937 si concludeva con gli slogan: “Abbasso il Kuomintang! Viva l’assemblea nazionale con pieni poteri, eletta a suffragio democratico!” (“La situazione attuale e i nostri compiti”, febbraio 1937). Lungi dall’essere un ponte verso il potere proletario, l’agitazione dei trotskisti a favore dell’assemblea nazionale in Cina fu un ostacolo alla chiarezza politica, sia pubblica che interna.
La rivendicazione di un’assemblea costituente in Spagna
Se in Cina Trotsky aveva lanciato la parola d’ordine dell’assemblea costituente in un periodo di sconfitta e di ritirata del proletariato, in Spagna la lanciò, seppure per breve tempo, all’inizio di un periodo di sommovimenti sociali. All’inizio degli anni Trenta, la caduta della dittatura di Primo de Rivera sfociò in un’ascesa impetuosa dell’agitazione rivoluzionaria, che conobbe il suo culmine con la Guerra civile spagnola, scoppiata nel luglio del 1936 (vedi “Trotskismo contro frontepopulismo nella Guerra civile spagnola”, Spartaco n. 73, ottobre 2010). Il successore di Primo de Rivera, Dámaso Berenguer Fusté, propose di istituire le Cortes, un nuovo parlamento che avrebbe dovuto legittimare la monarchia, ma che venne invece accolto da diffusi appelli al boicottaggio. Di conseguenza, Berenguer si dimise e il re Alfonso XIII ripiegò su delle elezioni municipali, che si tennero il 12 aprile 1931 e nei centri urbani portarono alla travolgente vittoria dei socialisti e dei repubblicani borghesi. Alfonso fuggì, fu proclamata la repubblica e vennero annunciate elezioni per nuove Cortes costituenti.
Sia prima che dopo questo periodo, Trotsky insistette giustamente sull’importanza delle rivendicazioni democratiche nella Rivoluzione spagnola (si veda Trotsky, Scritti 1929-1936). Ma solo in poche lettere e articoli scritti nel gennaio-febbraio del 1931 usò la parola d’ordine di un’assembla costituente, o Cortes costituenti. Invece, nel momento in cui i socialisti e i repubblicani annunciarono le loro Cortes costituenti, Trotsky sostenne che “La parola d’ordine principale del proletariato è quella dei soviet operai” (“I dieci comandamenti del comunista spagnolo”, 15 aprile 1931).
Gli scritti di Trotsky sulla Spagna incentrati sull’opposizione a qualsiasi forma di coalizione di collaborazione di classe (battezzate “fronti popolari” dagli stalinisti a metà degli anni Trenta) e sulla necessità di cristallizzare un autentico partito leninista d’avanguardia, sono tra i più poderosi nella loro opposizione ad ogni forma di collaborazione di classe. Ma come era già successo per la Cina, le sue argomentazioni per l’assemblea costituente erano confuse e contraddittorie. Trotsky impiegò per la prima volta questa parola d’ordine in una lettera del 12 gennaio del 1931, in cui appoggiò il boicottaggio delle Cortes di Berenguer, sostenendo che:
“Se le Cortes devono essere boicottate, in nome di che cosa? In nome dei soviet? A mio parere, sarebbe sbagliato porre la questione in questi termini. Le masse delle città e delle campagne possono essere unite in questo momento solo attorno a parole d’ordine democratiche. Queste includono l’elezione di Cortes costituenti basate sul suffragio universale, eguale, diretto e segreto. Non credo che nella situazione attuale si possa evitare lo slogan. I soviet non esistono ancora. Gli operai spagnoli, per non parlare dei contadini, non sanno cosa sono i soviet, in ogni caso, non possono basarsi sulla propria esperienza. Tuttavia, la lotta attorno alle Cortes rappresenterà l’intera vita politica del paese nel prossimo periodo. Contrapporre lo slogan dei soviet allo slogan delle Cortes in queste circostanze sarebbe sbagliato”. (“I soviet e le Cortes costituenti”, 12 gennaio 1931 [nostra traduzione])
Due settimane dopo, in una presentazione peraltro molto efficace della prospettiva della rivoluzione permanente, Trotsky scrisse:
“Pur boicottando le Cortes di Berenguer, gli operai avanzati dovrebbero contrapporre ad esse lo slogan delle Cortes rivoluzionarie costituenti. Dobbiamo inesorabilmente smascherare la falsità dello slogan delle Cortes costituenti in bocca alla borghesia ‘di sinistra’, che, in realtà, vuole Cortes conciliatrici per grazia del re e di Berenguer, allo scopo di mercanteggiare con le vecchie cricche dirigenti e privilegiate. Un’assemblea costituente genuina può essere convocata solo da un governo rivoluzionario, a seguito di un’insurrezione vittoriosa di operai, soldati e contadini”. (“La rivoluzione in Spagna”, 24 gennaio 1931, [nostra traduzione])
Quando si sviluppa una situazione rivoluzionaria, in cui la borghesia cerca disperatamente di mantenere il potere di fronte alla sollevazione popolare, la rivendicazione di una forma “rivoluzionaria” di dominio borghese, lungi dal mettere a nudo le pretese democratiche della classe dominante borghese, non fa che rafforzare le illusioni. Gli avvenimenti di Spagna ne sono un classico esempio: Berenguer non era l’unica alternativa cui potevano affidarsi i governanti spagnoli. Il nuovo governo repubblicano, di cui faceva parte il leader socialista Francisco Largo Caballero, si adoperò immediatamente per fermare l’ascesa rivoluzionaria indicendo elezioni per nuove Cortes costituenti. Queste divennero il punto d’appoggio di un governo di coalizione che cercò di prevenire la rivoluzione sociale.
Ancora una volta Trotsky motiva la sua parola d’ordine in base all’esigenza di conquistare i contadini. In un breve scritto intitolato “La repubblica degli operai e le Cortes costituenti” (13 febbraio 1931), pur notando che “noi non facciamo un feticcio di questa parola d’ordine”, Trotsky sostenne che “E’ vero che in Spagna si sono esplorate tutte le possibilità. Rimane tuttavia ancora la possibilità di una democrazia ‘completa’ e ‘coerente’ ottenuta con mezzi rivoluzionari. Questo è ciò che rappresentano le Cortes costituenti”. Ma la storia, analizzata in modo eccellente negli scritti di Trotsky sulla rivoluzione permanente, aveva già dimostrato che questa possibilità non esisteva! Ipotizzare la possibilità di una versione idealizzata di democrazia borghese può essere solo fuorviante. La logica è quella di tornare ad una variante del programma di Lenin prima dell’aprile del 1917, ad una dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini.
Trotsky smise di usare la parola d’ordine dell’assemblea costituente quando divenne chiaro che essa era di fatto contrapposta alla lotta per il potere proletario. Ma non trasse dall’esperienza spagnola alcuna conclusione teorica su questa rivendicazione.
Trotsky sull’Italia
Nel gennaio del 1931, sostenendo che solo un governo rivoluzionario avrebbe potuto convocare una “autentica assemblea costituente”, Trotsky sembrò implicare un qualche tipo di regime rivoluzionario combinato in cui i soviet coesistessero con un organismo di tipo parlamentare. Lui stesso aveva polemizzato più volte contro concezioni di questo tipo. Per esempio, in una lettera scritta nel 1930 alla Nuova opposizione italiana (Noi), spiegò perché aveva criticato con forza una proposta avanzata negli anni Venti dal Partito comunista d’Italia per una “Assemblea repubblicana sulla base di comitati operai e contadini”:
“L’‘assemblea repubblicana’ costituisce innegabilmente un organismo di Stato borghese. Che cosa sono invece i ‘Comitati operai e contadini’? E’ evidente che, in qualche modo sono un equivalente dei Soviet operai e contadini. Allora bisogna dirlo. In quanto organismi di classe delle masse povere operaie e contadine sia che voi li chiamate Soviet o Comitati costituiscono sempre delle organizzazioni di lotta contro lo Stato borghese per diventare poi organismi insurrezionali e trasformarli, infine, dopo la vittoria, in organismi di dittatura proletaria. Come è possibile in queste condizioni, che un’assemblea repubblicana organo supremo dello Stato borghese abbia come base degli organismi di Stato proletario?” (“Lettera di Trotsky ai ‘tre’”, 14 maggio 1930, in Scritti sull’Italia)
Trotsky citò come esempi gli errori di Zinoviev e Kamenev nel 1917 e gli appelli dei dirigenti centristi della Uspd ad uno “Stato combinato”, che avevano contribuito a far deragliare la Rivoluzione tedesca del 1918-19.
In varie polemiche con il gruppo italiano di Prometeo, che propugnava le idee di ultrasinistra di Amadeo Bordiga e che in quel momento apparteneva ancora all’Opposizione di sinistra, Trotsky insistette giustamente sulla necessità di rivendicazioni democratiche. Tuttavia, la sua lettera alla Noi del maggio del 1930, includeva un passaggio ambiguo che è stato utilizzato in seguito per giustificare la rivendicazione dell’assemblea costituente nel periodo di transizione tra il regime fascista e la dittatura proletaria: “E qui non escludo neanche l’eventualità di una Assemblea Costituente che in certe circostanze potrebbe essere imposta dagli avvenimenti o, più precisamente, dal processo di risveglio rivoluzionario delle masse oppresse.” (ibid.)
In effetti, in una risoluzione del 1932, la Noi fece appello all’assemblea costituente. A questa rivendicazione si opposero altri trotskisti italiani, in particolare Pietro Tresso, che all’inizio del 1933 fu membro del Segretariato internazionale e fu un dirigente dell’Opposizione e poi della Quarta internazionale. Fu assassinato dagli stalinisti nel 1943. Un altro dirigente della sinistra della Noi, Mario Bavassano (che si dimise nel 1933 in opposizione all’appello ad una nuova Internazionale), nel corso della discussione sulla risoluzione del 1932, spiegò la differenza fondamentale tra le rivendicazioni democratiche e lo slogan dell’assemblea costituente:
“Tutte le parole d’ordine a carattere democratico parziali contenute nel documento sono attualmente adatte a mettere in movimento le masse. Tra di noi c’è invece disaccordo sul fatto che gli obiettivi democratici parziali non devono culminare in parole d’ordine di carattere generale come quelle delle elezioni amministrative e della Costituente: devono invece concludersi nella costituzione di organismi quali, ad esempio, i Comitati operai e contadini, che danno alla lotta un carattere classista e indicano alle masse un obiettivo rivoluzionario, vale a dire la necessità del rovesciamento del regime borghese e l’istaurazione [sic] del potere proletario”. (Silverio Corvisieri, Trotskij e il comunismo italiano, Samonà e Savelli, 1969)
Goldman-Morrow e la questione dell’assemblea costituente in Europa
Trotsky disse chiaramente di non essere in condizione di seguire gli sviluppi politici in Italia e in effetti in questo caso non utilizzò mai la rivendicazione dell’assemblea costituente. E neppure la considerò una rivendicazione valida per la Germania dopo l’ascesa al potere di Hitler. Nel “Programma di transizione” del 1938 (Spartaco n. 13/14, 1984), la rivendicazione venne utilizzata solo in relazione ai paesi coloniali e semicoloniali. La parte che si occupa dei paesi capitalisti avanzati sottoposti al dominio fascista mette piuttosto in guardia sul fatto che “le formule della democrazia (libertà di stampa, diritti sindacali, ecc.) sono per noi soltanto delle parole d’ordine incidentali o episodiche del movimento indipendente del proletariato, e non un giogo democratico posto sul collo del proletariato”.
Contrariamente a quest’affermazione inequivocabile, nel 1941 il gruppo trotskista tedesco in esilio pubblicò le “Tre tesi”, in cui sosteneva che “la transizione dal fascismo al socialismo rimane un’utopia senza uno stadio intermedio, che equivale fondamentalmente ad una rivoluzione democratica” (Fourth International [Fi], dicembre 1942). Sebbene questo flagrante revisionismo fosse stato respinto all’epoca, vari elementi della Quarta internazionale sia in Europa che negli Usa iniziarono ad argomentare a favore dell’utilizzo dello slogan dell’assemblea costituente in vari paesi imperialisti europei. Quando in Italia scoppiarono delle agitazioni prerivoluzionarie alla metà del 1943, con la caduta di Mussolini e lo scoppio di un’ondata di scioperi che portarono alla creazione di comitati di fabbrica, il Segretariato europeo provvisorio, che si era appena costituito ed aveva sede a Parigi, pubblicò un “Manifesto” agli operai, contadini e soldati italiani, scritto da Marcel Hic. Questo includeva la richiesta di un’assemblea costituente (“Convention Nationale”). Ma il Segretariato ritirò il manifesto pochi giorni dopo, dichiarando che la rivendicazione era “inappropriata”. Un testo alternativo, da cui era stata tolta la rivendicazione, venne pubblicato nel primo numero di Quatrième Internationale (agosto 1943).
Abbiamo esaminato solo parte della documentazione, ma è chiaro che la questione venne periodicamente discussa per tre anni. La discussione si estese ad altri paesi man mano che questi emergevano dall’occupazione nazista, mettendo in evidenza un grave disorientamento e importanti divergenze. Alla fine del 1944, nonostante una forte opposizione, il Parti Communiste Internationaliste adottò lo slogan per la Francia e lo utilizzò in un opuscolo che ebbe larga diffusione nel dicembre del 1944. Anche la sezione belga, in una risoluzione del 1945, fece appello ad un’assemblea costituente, confutando esplicitamente l’idea per cui lo slogan non fosse applicabile ai paesi capitalisti avanzati (“L’importanza e lo scopo delle rivendicazioni democratiche”, New International, maggio 1946).
L’espressione più cruda di una prospettiva democratica per l’Europa fu sviluppata negli Usa da diversi quadri di lunga esperienza del Socialist Workers Party (Swp) e del Segretariato internazionale (Si), quest’ultimo trasferito a New York all’inizio della guerra, ed in particolare da Felix Morrow e dal segretario del Si, Jean van Heijenoort. Verso la fine del 1943, Morrow propugnò la “convocazione immediata dell’Assemblea costituente” in Italia, sostenendo che questa avrebbe svolto “un ruolo importante in una o più rivoluzioni in Europa” (“La prima fase della prossima rivoluzione europea”, Fi, dicembre 1944). Pur senza menzionare specificamente lo slogan dell’assemblea costituente, una risoluzione del Comitato centrale del Swp si oppose alla prospettiva complessiva di Morrow, avvertendo che: “Quando tutte le altre difese saranno crollate, le forze del capitalismo si sforzeranno di preservare la loro dittatura dietro la facciata di forme democratiche, e perfino di una repubblica democratica” (“Prospettive e compiti della prossima rivoluzione europea”, Fi, dicembre 1943). La risoluzione affermò che “le rivendicazioni democratiche (libertà di stampa, diritti sindacali, ecc.) si intrecceranno a quelle transitorie e tutte insieme saranno legate ai nostri slogan fondamentali: Per gli Stati uniti socialisti d’Europa e Tutto il potere ai consigli operai”.
Nel 1945, Morrow era ormai completamente assorbito dalla lotta per la “democrazia”. La sua “Lettera al Segretariato europeo della Quarta internazionale”, scritta nel luglio del 1945, proponeva la liquidazione in seno alla socialdemocrazia e esortava i trotskisti francesi: “Durante la lotta per la legalità, non abbiate paura di fare apparire La Vérité come un organo che si batte per nient’altro che la vera democrazia. Nella situazione attuale, ciò significa battersi per un grande obiettivo!” ( Fi, marzo 1946).
Tra le risposte della maggioranza del Si, una delle più azzeccate fu quella di William Simmons (Arne Swabeck). Attaccando l’ossessione di Goldman per la democrazia, Swabeck vi sostenne che era impossibile effettuare una differenziazione tra trotskisti, stalinisti e socialdemocratici su questo terreno:
“In Francia e non solo, questi partiti hanno rivendicato l’assemblea costituente, avendo sempre cura, è ovvio, di rimandarne per quanto possibile l’effettiva convocazione (
) Ma il semplice fatto di avanzare rivendicazioni democratiche non potrà di per sé distinguere i quartinternazionalisti dalla posizione di questi partiti. Perciò è importante riconoscere il fatto che per noi le rivendicazioni democratiche sono solo incidentali ed episodiche nel movimento indipendente del proletariato e che lo sono ancor di più oggi, di fronte al collasso evidente del capitalismo”. (“I compiti dei trotskisti in Europa”, Fi, luglio 1945)
Morrow, cui si era unito un altro vecchio quadro del Swp, il sempre più stalinofobo Albert Goldman, spingeva anche per la riunificazione con il Workers Party (Wp) di Max Shachtman, che si era scisso dal Swp nel 1940, ripudiando la posizione trotskista della difesa militare incondizionata dell’Unione Sovietica. La lotta contro la minoranza capeggiata da Goldman e Morrow si sviluppò in una lotta di frazione complessiva nel Swp nel 1945-46.
Il Swp uscì dalla Seconda guerra mondiale con una visione esageratamente ottimistica delle prospettive immediate della rivoluzione proletaria, specialmente negli Usa, come testimonia ad esempio il documento dell’ottobre del 1946, “Tesi sulla rivoluzione Americana” (James P. Cannon, The Struggle for Socialism in the “American Century” [New York: Pathfinder Press, 1977]). Questa visione, molto diffusa anche nel movimento trotskista in Europa, non prendeva in considerazione una serie di fattori che differenziavano il periodo post bellico da quello che aveva seguito la fine della Prima guerra mondiale. Tra questi vi era il fatto che nel 1944-45, gli Usa, con l’aiuto della Gran Bretagna, avevano occupato militarmente buona parte dell’Europa occidentale, modificando profondamente la possibilità di una rivoluzione proletaria (per approfondimento, si legga “Trotskyist Policies on the Second Imperialist War—Then and in Hindsight”, l’introduzione a “Documents on the ‘Proletarian Military Policy’” [Prometheus Research Series n. 2, febbraio 1989]). Ad esempio, nel caso dell’Italia, le armate alleate avevano fornito la forza militare indispensabile al riparo della quale la borghesia italiana, con l’aiuto del Partito comunista, fu in grado di disarmare il proletariato insorto. Inoltre, mentre alla fine della Prima guerra mondiale, i socialsciovinisti erano ampiamente discreditati, alla fine della Seconda guerra mondiale i riformisti, in primo luogo gli stalinisti, erano emersi con un’autorità fortemente accresciuta dal loro ruolo dirigente nei fronti popolari della “resistenza antifascista”.
Pur riconoscendo il fatto che l’ordinamento capitalista veniva ristabilizzato in Europa su basi borghesi-democratiche, Goldman-Morrow ne approfittavano per adattarsi ad esso. Il corso liquidazionista perseguito da Goldman-Morrow fu il segnale del loro prossimo abbandono della politica marxista. Goldman uscì dal Swp nel maggio del 1946 portando con sé un piccolo numero di seguaci nel Wp di Shachtman, per aderire due anni dopo al Partito socialista, esplicitamente riformista. Morrow venne espulso dal Swp nel novembre dello stesso anno e abbandonò presto ogni attività di sinistra. Alla fine del 1945, van Heijenoort prese a definire l’Unione Sovietica “imperialista burocratica” e nel giro di due anni annunciò il suo abbandono del marxismo.
Una debolezza della posizione del Swp era la sua insistenza che i regimi borghesi democratici nell’Europa post bellica “devono, per loro stessa natura, rivelarsi instabili e di breve durata”, spianando la strada o alla rivoluzione proletaria o ad una dittatura reazionaria (“Perspectives and Tasks of the Coming European Revolution”). Ma la maggioranza del Swp, cui si unì l’emergente direzione in Europa sotto Michel Pablo ed E. Germain (Ernest Mandel), mantenne una prospettiva rivoluzionaria contro il revisionismo “democratico” di Morrow.
La sconfitta della frazione di Goldman-Morrow non fece però chiarezza sulla questione dell’assemblea costituente, che non venne ripudiata per principio. Al contrario, Mandel, un dirigente della sezione belga, era stato uno dei primi a proporre questa rivendicazione. Nel marzo del 1946, la prima riunione della Quarta internazionale dopo la guerra, con l’appoggio del Swp, approvò una risoluzione che includeva la rivendicazione di un’assemblea costituente per diversi paesi europei (“La nuova pace imperialista e la costruzione dei partiti della Quarta internazionale”, Fi, giugno 1946). In Francia, un’assemblea costituente era già stata eletta nell’ottobre del 1945. In Italia venne eletta il giugno successivo. Lungi dallo spingere le masse alla lotta, l’assemblea costituente venne utilizzata dalla borghesia, con l’abile aiuto degli stalinisti e dei socialdemocratici, per contribuire al ristabilimento dell’ordinamento imperialista nel dopoguerra.
India: lotta di frazione sull’assemblea costituente
L’unica sezione della Quarta internazionale in cui sappiamo ebbe luogo una chiara lotta di frazione sulla questione dell’assemblea costituente fu il Partito bolscevico-leninista d’India (Blpi). Pur non escludendo questa rivendicazione in linea di principio, un importante strato dell’organizzazione si oppose sistematicamente al suo utilizzo nel quadro delle lotte che sconvolsero il subcontinente indiano durante la Seconda guerra mondiale e subito dopo la sua fine.
La bozza di programma del Blpi del 1942 caratterizzò giustamente lo slogan come “illusorio e ingannevole” e “destinato in seguito, nelle fasi più acute della rivoluzione, ad essere utilizzato dalla borghesia e dai suoi agenti in opposizione e per sabotare l’istituzione della dittatura proletaria nella forma sovietica”. Nel paragrafo successivo, tuttavia, consentiva un “appoggio critico” alla stessa rivendicazione, “nelle fasi iniziali della lotta rivoluzionaria” (ristampato in Charles Wesley Ervin, Tomorrow Is Ours: The Trotskyist Movement in India and Ceylon 1935-48 [Colombo: Social Scientists’ Association, 2006]).
Queste posizioni apparentemente contraddittorie potrebbero essere il riflesso delle profonde divisioni all’interno del Blpi. In quel momento, l’ala sinistra, raccolta attorno a Doric de Souza predominava rispetto alla minoranza di destra di Philip Gunawardena, col segretario generale del partito, Leslie Goonewardene, a svolgere un ruolo di mediatore. La bozza di programma fu scritta da de Souza e Leslie Goonewardene mentre Philip Gunawardena era incarcerato dagli inglesi a Ceylon. (Per approfondire la storia del Blpi si veda “The Fight for Trotskyism in South Asia”, Spartacist edizione inglese n. 62, primavera 2011)
La bozza di programma del Blpi era assolutamente superiore ad un manifesto pubblicato il 26 settembre 1942 in nome del Comitato esecutivo internazionale della Qi. Sotto il titolo “Agli operai e contadini dell’India”, il manifesto, scritto in gran parte da Felix Morrow, faceva dell’assemblea costituente la sua rivendicazione principale. Sostenendo che i capitalisti inglesi e locali “muoveranno cielo e terra pur di impedirne la convocazione”, continuava sostenendo che: “Solo la rivoluzione vittoriosa dei comitati operai, contadini e soldati contro il Raj britannico e i suoi alleati locali, può garantire la convocazione di un’assemblea costituente” (Fi, ottobre 1942).
I nodi vennero al pettine dopo la guerra. Nell’inverno del 1945-46 a Calcutta scoppiarono vaste proteste in difesa dei prigionieri politici. A Bombay, nel febbraio del 1946 si ammutinarono i marinai di leva, innescando uno sciopero generale in città e rivolte in altre località, che unirono gli operai hindu e musulmani, prima che gli inglesi soffocassero le proteste. Il giorno successivo all’ammutinamento, il governo del Partito laburista a Londra annunciò l’invio di una delegazione ministeriale in India. Parte del suo incarico consisteva nel convocare un’assemblea costituente che ponesse le basi per l’eventuale indipendenza sotto l’ombrello del Commonwealth britannico.
Il Blpi lanciò la parola d’ordine: “Abbasso la missione ministeriale! Abbasso i partiti collaborazionisti! Abbasso la falsa Assemblea costituente dell’imperialismo! Avanti nella lotta per l’indipendenza dell’India!” (Tomorrow Is Ours, op. cit.) Ma dopo la decisione del Congresso nazionale indiano (un partito borghese), alla fine del 1946, di partecipare alla nuova assemblea costituente, il Blpi si divise in tre sull’atteggiamento da prendere.
La destra era a favore di una “assemblea costituente rivoluzionaria” elettiva, da contrapporre all’assemblea orchestrata dagli inglesi, che era basata su delegazioni elette dai parlamenti provinciali, ed insisteva che questa avrebbe dovuto essere una parola d’ordine chiave del Blpi. La direzione raccolta attorno a Leslie Goonewardene non ne escludeva l’utilizzo, ma era contraria a farne l’asse principale dell’agitazione del Blpi. Un’opposizione di sinistra con base a Calcutta e con l’appoggio di de Souza, condannava entrambe le posizioni, sostenendo che l’assemblea costituente “era assolutamente irreale per il popolo indiano” e che il Blpi doveva “condannarla così come abbiamo fatto in passato” (“Una critica della bozza di risoluzione presentata dal Cc”, BLPI Internal Bulletin [IB], 1 aprile 1947).
I delegati alla conferenza del Blpi del maggio del 1947 decisero, con una maggioranza risicata (7 voti a favore e 6 contrari), di fare dell’assemblea costituente “la parola d’ordine centrale del Programma di transizione, vale a dire lo slogan attorno cui ruotano tutti gli altri slogan transizionali” (“Rapporto sulla prima convenzione del partito, tenutasi il 21-24 maggio 1947”, BLPI IB vol. 2, n. 1 [senza data]). Hector Abhayavardhana (Vardhan), che a partire dal 1942 era stato uno dei sostenitori più in vista della frazione di destra di Philip Gunawardena, prese il posto di segretario del partito e il Blpi fece disciplinatamente dell’assemblea costituente il centro delle sue attività. Ma il dibattito continuò.
Quattro mesi dopo, il comitato del distretto di Calcutta adottò una risoluzione che affermava che “la posizione presa dalla maggioranza all’ultima convenzione del partito era revisionista, era un tentativo di ritornare a posizioni mensceviche abbandonando completamente il trotskismo e la teoria della rivoluzione permanente” (“Risoluzione del Comitato del distretto di Calcutta, adottata all’unanimità il 29-9-47”, BLPI IB vol. 3, n. 1, 1 marzo 1948). La risoluzione affermava che la parola d’ordine dell’assemblea costituente “non può diventare in nessun caso una rivendicazione del nostro Programma di transizione, e tanto meno una rivendicazione centrale”. Pur ammettendo che la rivendicazione poteva in alcune situazioni diventare “uno slogan di agitazione o di mobilitazione” capace di guidare le masse “un passo avanti verso la conquista del potere”, la risoluzione di Calcutta aggiungeva immediatamente dopo che la “mancanza di tradizioni” riguardo le assemblee costituenti in Asia rendeva “questa possibilità piuttosto remota”. Anche senza escludere in linea di principio questa parola d’ordine, lo spirito di tutta la risoluzione si opponeva al suo utilizzo vedendovi una trappola menscevica.
Come spiegò uno dei compagni di Calcutta, Arun Bose, in un precedente documento, intitolato “Programma e realtà”: “La parola d’ordine della assemblea costituente rimane un ostacolo sul cammino ininterrotto della rivoluzione, un tentativo di fermarla a metà strada sulla base del ‘completamento’ della rivoluzione democratica. Come tale, la parola d’ordine dell’assemblea costituente è calcolata per fuorviare le masse, per suscitare in loro illusioni democratiche e per spianare la strada alla controrivoluzione” (BLPI IB vol. 2, n. 3, 25 settembre 1947). Un altro militante di Calcutta, P.K. Roy, aggiunse in un documento stampato nello stesso bollettino:
“In altri termini, la parola d’ordine dell’assemblea costituente, che è l’organismo supremo di una repubblica borghese, potrebbe coronare le nostre rivendicazioni transitorie solo qualora la repubblica democratica, e non la repubblica sovietica, coronasse il programma del Blpi (
) In parole povere, il successo della rivoluzione indiana può essere concepito solo sotto forma di una dittatura rivoluzionaria del proletariato in alleanza con i contadini poveri”. (“L’opportunismo sulla questione dell’Assemblea costituente”)
Per sconfiggere l’opposizione di sinistra, i nuovi dirigenti del Blpi poterono basarsi sull’autorità di Trotsky. Inanellando citazioni dai suoi scritti sulla Cina, ridicolizzarono gli argomenti dei compagni di Calcutta: “Eccoci qui davanti allo spettacolo di Trotsky che non è un trotskista” (Raj Narain, “La parola d’ordine della A.C.R. Perché dovremmo mantenerla?” BLPI IB vol. 3, n. 1). Probabilmente furono incoraggiati anche dall’appoggio alla parola d’ordine dell’assemblea costituente in Europa. E’ importante notare che i sostenitori indiani della parola d’ordine erano apertamente appoggiati dai trotskisti britannici del Revolutionary Communist Party (Rcp). Un articolo di Tony Cliff sulla stampa del Rcp affermava che: “La lotta contro l’imperialismo britannico e i suoi agenti (principi, feudatari e capitalisti) deve concentrarsi attorno alla parola d’ordine per una vera assemblea costituente, eletta in modo diretto da tutto il popolo”. Offuscando la distinzione tra un’istituzione borghese e gli organismi del potere operaio, Cliff aggiunse che una “vera” assemblea costituente deve “basarsi sulle masse organizzate nei soviet e armate nelle loro milizie” (Workers’ International News, gennaio-febbraio 1947). Alla fine, un’ulteriore conferenza del Blpi nel 1948 ribadì la linea conciliazionista sull’assemblea costituente con una maggioranza ancora più forte.
Le linee di divisione su questa questione furono quasi identiche a quelle sulla proposta liquidazionista di entrismo del Blpi nel Partito socialista, che fu discussa nello stesso periodo. Così, quando la divisione tra destra e sinistra nella sezione indiana, iniziata nel 1940-42 giunse al culmine dopo la Seconda guerra mondiale, il risultato fu negativo su tutta la linea: il partito finì con l’adottare la parola d’ordine dell’assemblea costituente, che in precedenza aveva rifiutato, per poi collassare nella socialdemocrazia. Sembra che la sinistra con base a Calcutta sia stata logorata al punto da opporre ben poca resistenza a queste scelte disastrose che portarono alla scomparsa del Blpi.
L’assemblea costituente indiana finì col dare una legittimità “democratica” alla sanguinosa spartizione del subcontinente. In seguito produsse i primi parlamenti dell’India e del Pakistan capitalisti indipendenti. L’uso che gli inglesi fecero dell’assemblea costituente in India divenne un modello per gli sviluppi successivi in altri paesi coloniali. Per gran parte del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, le potenze imperialiste di solito si sono affidate non al potere coloniale diretto, ma a un dominio neocoloniale mascherato dietro all’indipendenza formale. Lungi dal “muovere cielo e terra” per impedire la creazione di parlamenti democratici, hanno spesso preferito fare ricorso a questi ultimi piuttosto che alla dittatura aperta, per meglio ingannare le masse. Questi sviluppi sono a dimostrazione della bancarotta della parola d’ordine dell’assemblea costituente nei paesi il cui sviluppo sociale ed economico è stato impedito dall’estensione globale dell’imperialismo. Gli argomenti sostenuti con forza dal trotskista di Calcutta P.K. Roy hanno resistito alla prova del tempo:
“Fedeli agli insegnamenti del marxismo e basandosi sulle ricche lezioni dei movimenti rivoluzionari del passato, i bolscevico-leninisti hanno evidenziato la natura illusoria e ingannevole della parola d’ordine dell’assemblea costituente, a coronamento di una repubblica borghese che come tale, presuppone l’esistenza di una separazione temporale ben definita tra la rivoluzione democratica e la rivoluzione socialista, periodo nel quale il potere sarebbe nelle mani di un parlamento democraticamente eletto, vale a dire, di un organo rappresentativo borghese. I movimenti proletari in vari paesi hanno dimostrato oltre ogni dubbio che nelle fasi successive della rivoluzione, quando il potere di milioni di sfruttati trova espressione più o meno cristallizzata nei soviet formatisi nel corso della rivoluzione, la parola d’ordine dell’assemblea costituente è destinata ad essere usata dalla borghesia e dai suoi agenti piccolo-borghesi come slogan per la controrivoluzione, cioè come una parola d’ordine direttamente contrapposta e volta a sabotare l’instaurazione della dittatura del proletariato in forma sovietica. E dopo l’instaurazione della dittatura del proletariato, la parola d’ordine dell’assemblea costituente può solo servire da base di preparazione per il rovesciamento del giovane potere”. (“L’opportunismo sulla questione dell’Assemblea costituente”)
Retrospettiva e prospettiva
Nei decenni successivi, sono state convocate assemblee costituenti in numerosi paesi, dall’Islanda al Nepal. L’esempio forse più chiaro del ruolo controrivoluzionario dell’assemblea costituente nella seconda metà del ventesimo secolo si è visto nella Rivoluzione portoghese del 1974-75, l’ultima e la più prolungata della serie di agitazioni potenzialmente rivoluzionarie che conobbe l’Europa in quel periodo. L’insurrezione portoghese ebbe inizio nell’aprile del 1974, col crollo della dittatura di Caetano e la creazione di un regime guidato da ufficiali militari “progressisti”. L’assemblea costituente eletta un anno dopo divenne il punto di raccolta delle forze reazionarie che cercavano di porre fine alle agitazioni da cui stavano sorgendo organismi di dualismo di potere. La Cia finanziò il Partito socialista di Mário Soares, che dominava l’assemblea e forniva un alibi agli attacchi delle squadracce di destra contro le sedi del Partito comunista. Milioni di dollari ogni mese vennero incanalati tramite la Spd e altri partiti socialdemocratici europei.
I nostri articoli dell’epoca misero in guardia dalle illusioni negli ufficiali “progressisti” e si battevano per una prospettiva di costruzione e centralizzazione di organismi di tipo sovietico, sempre sostenendo che la chiave per la vittoria consisteva nel forgiare un autentico partito leninista-trotskista. Durante il primo anno delle agitazioni, anche noi facemmo appello ad una “assemblea costituente rivoluzionaria”. Con l’elezione di un’assemblea costituente di cui era evidente il ruolo controrivoluzionario, smettemmo di lanciare questa parola d’ordine. Al contrario, il Swp americano, che dalla metà degli anni Sessanta era degenerato nel riformismo, fece appelli sfacciati alla “difesa dell’assemblea costituente”, esaltando i socialisti finanziati dalla Cia proprio mentre questi erano la punta di lancia delle mobilitazioni di destra (Militant, 8 agosto 1975). Da parte loro, i lambertisti agitavano per un “governo Soares” (Informations Ouvrières, 23 luglio-6 agosto 1975).
Condannando la linea anti rivoluzionaria dei lambertisti e del Swp, facemmo appello alla difesa delle organizzazioni di sinistra e operaie portoghesi contro le squadracce della destra. Alla fine, la borghesia e i suoi agenti socialdemocratici riuscirono ad usare l’assemblea costituente per porre fine alle agitazioni rivoluzionarie e ristabilire l’ordinamento capitalista.
Appena ne divenne evidente il contenuto controrivoluzionario, noi abbandonammo l’appello ad un’assemblea costituente, ma all’epoca non giungemmo a conclusioni più generali sulla sua validità storica. Al contrario, continuammo ad utilizzare questa parola d’ordine in molti altri contesti, dalla Spagna del periodo successivo alla caduta della dittatura di Franco, al Cile di Pinochet, all’Indonesia e altrove. In difesa dell’utilizzo di questa parola d’ordine in determinate situazioni, scrivemmo:
“Il nostro appello ad un’assemblea costituente fa parte di una serie di rivendicazioni democratiche rivoluzionarie, lanciate nel contesto di un programma per la rivoluzione proletaria, che potrà essere realizzato solo dopo, o simultaneamente al rovesciamento di dittature bonapartiste. Una ‘assemblea costituente’ sotto l’egida di una giunta militare o di un caudillo autocratico è una contraddizione in sé stessa. Quando vengono presentati schemi di questo tipo, i leninisti devono spiegare chiaramente che loro fanno appello ad un’assemblea costituente rivoluzionaria, che dovrà essere convocata da un governo rivoluzionario provvisorio, sorto da un’insurrezione popolare vittoriosa”. (“Perché un’assemblea costituente rivoluzionaria?” Workers Vanguard n. 221, 15 dicembre 1978).
Pur riconoscendo i molti esempi storici dell’utilizzo dell’assemblea costituente per scopi controrivoluzionari a partire dal 1848, abbiamo comunque insistito che “Dall’epoca delle classiche rivoluzioni borghesi democratiche in poi, la rivendicazione di un’assemblea costituente ha sempre avuto un contenuto popolare democratico-rivoluzionario, direttamente contrapposto a tutti i tentativi di temporeggiare o di riformare il vecchio regime”.
Dal diciannovesimo secolo ad oggi, tutti i tentativi di incanalare le lotte delle masse scontente verso assemblee costituenti o altri organi parlamentari borghesi si sono rivelati delle trappole mortali. La storia ha dimostrato in modo definitivo che un’assemblea costituente non può instaurare né la democrazia, né la liberazione sociale o nazionale, ma che può solo continuare la subordinazione alla borghesia. Non può essere un ponte verso il potere statale proletario, ma solo verso il disastro e la sconfitta.
La mania per l’assemblea costituente che caratterizza l’odierna sinistra riformista è in sintonia con il programma di Kautsky e della Seconda internazionale, non con quello della Quarta. Nonostante le nostre critiche nei confronti della ripresa da parte di Trotsky di questa parola d’ordine per la Cina e il suo episodico utilizzo in altri paesi dalla fine degli anni Venti, egli si oppose con forza al tipo di posizioni apertamente filocapitaliste che questi gruppi propugnano oggigiorno. Fino alla fine dei suoi giorni, Trotsky lottò contro le illusioni nella democrazia borghese che venivano alimentate dagli stalinisti e dalla falsa sinistra, sia nel mondo imperialista che nei paesi sottosviluppati.
La nostra analisi della questione dell’assemblea costituente nel movimento marxista fa parte del nostro sforzo di riforgiare una Quarta internazionale autenticamente trotskista. Come i bolscevichi, ma diversamente dai nostri oppositori riformisti, il nostro obiettivo non è quello di abbellire e promuovere la democrazia capitalista, un sistema necessariamente fondato sull’oppressione brutale e sullo sfruttamento, ma di realizzare la rivoluzione socialista, l’unica via verso una società senza classi, in cui l’oppressione, in ogni sua forma, sarà un ricordo del passato.
[Tradotto da Spartacist n.63, edizione inglese, inverno 2012-13]
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