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Spartaco n. 71

Aprile 2009

Abbasso le cariche esecutive dello Stato capitalista!

Principi marxisti e tattiche elettorali

La Quinta conferenza della Lega comunista internazionale del 2007 ha adottato la posizione, considerandola una questione di principio, che i marxisti non devono candidarsi a cariche esecutive nello Stato capitalista, come: presidente, sindaco, governatore dello Stato o della regione. Questa posizione deriva dalla nostra comprensione che lo Stato capitalista è il comitato esecutivo della classe dominante. Il nucleo di questo Stato è costituito da corpi di uomini armati: l’esercito, la polizia, i tribunali e le carceri, che hanno la funzione di proteggere il dominio di classe della borghesia e il suo sistema di produzione.

Deputati comunisti possono, in quanto oppositori, essere membri del Congresso degli Stati Uniti, dei parlamenti e di altri organi legislativi, dove svolgono il ruolo di tribuni rivoluzionari della classe operaia. Ma assumere un incarico esecutivo oppure ottenere il controllo di una legislatura borghese o di un consiglio comunale, da soli o in coalizione, implica l’assunzione di una responsabilità nell’amministrazione della macchina dello Stato capitalista. La Lci ha sostenuto in passato che i comunisti potevano candidarsi a cariche esecutive, purché avessero dichiarato in anticipo che non intendevano assumere questi incarichi. Riesaminando questa questione, abbiamo concluso che candidarsi a elezioni per cariche esecutive implica che si è pronti ad accettare tali responsabilità, non importa quale promessa di non farlo si fa in anticipo. Per coloro che si proclamano marxisti, impegnarsi in tale attività può prestarsi solo a legittimare le prevalenti concezioni riformiste sullo Stato.

Come abbiamo affermato nel nostro documento della conferenza del 2007:

“Adottando la posizione contro la candidatura a cariche esecutive, riconosciamo e codifichiamo quello che si dovrebbe considerare un corollario degli scritti di Lenin, Stato e rivoluzione e La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, i veri documenti di fondazione della Terza internazionale [Internazionale comunista, Ic o Comintern]. Queste concezioni si attenuarono all’epoca del Secondo congresso dell’Ic, che non fece distinzione, nell’attività elettorale, tra cariche esecutive e parlamentari. Perciò stiamo continuando a completare il lavoro teorico e programmatico dei primi quattro congressi dell’Ic. E’ facile promettere che non si accetteranno cariche esecutive quando la possibilità di vincere è remota. Il punto è: cosa succede se si vince? (…)

La nostra pratica precedente si rifaceva a quella del Comintern e della Quarta internazionale. Ciò non significa che nel passato abbiamo agito in violazione dei principi: il principio non era mai stato riconosciuto come tale né dai nostri predecessori né da noi stessi. I programmi si evolvono, nuove questioni si pongono e noi sottoponiamo a scrutinio critico il lavoro dei nostri predecessori rivoluzionari.” (“Abbasso le cariche esecutive”, Spartaco n. 69, gennaio 2008)

Dietro la questione della candidatura a cariche esecutive sta la contrapposizione fondamentale tra riformismo e marxismo: può il proletariato utilizzare la democrazia borghese e lo Stato borghese per ottenere una transizione pacifica al socialismo? O al contrario il proletariato deve distruggere il vecchio apparato statale, e al suo posto creare un nuovo Stato per imporre il proprio dominio di classe, la dittatura del proletariato, per reprimere ed espropriare gli sfruttatori capitalisti?

Sin dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, socialdemocratici e riformisti di vario tipo, a cominciare dai menscevichi russi, hanno denunciato la Rivoluzione d’Ottobre, sostenendo che i bolscevichi non avrebbero dovuto portare il proletariato alla conquista del potere, l’esempio più rappresentativo all’epoca fu fornito dal socialdemocratico tedesco ed ex marxista Karl Kautsky. I riformisti sostenevano che il proletariato russo avrebbe dovuto aprire la strada alla borghesia liberale e sostenerla, il tutto in nome della difesa della “democrazia”.

Stato e rivoluzione, scritto alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre, e il suo complemento, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, scritto un anno dopo, rappresentano insieme una decisa smentita di queste posizioni. In queste opere Lenin riscatta Marx ed Engels dalle distorsioni e dalle apologie degli opportunisti che citavano selettivamente, erroneamente, e a volte anche sopprimevano le posizioni di Marx e di Engels, al fine di giustificare il loro corso anti-rivoluzionario.

I revisionisti e i riformisti non sono meno attivi oggi. La loro politica consiste in un’attività completamente definita dal quadro della società borghese. Tale politica fu fortemente caratterizzata da Trotsky come “un’educazione delle masse mirante a riconoscere che lo Stato borghese è incrollabile” (Le lezioni dell’Ottobre, 1924 – Roma, Editori Riuniti, 1963). Tale adattamento al dominio di classe capitalista da parte di organizzazioni che pretendono di aderire al marxismo è, semmai, più pronunciato oggi in un mondo definito dal rovesciamento finale della Rivoluzione d’Ottobre e dalla diffusa accettazione della “morte del comunismo”.

Dopo aver fatto causa comune con l’imperialismo “democratico” contro lo Stato operaio degenerato sovietico e gli Stati operai burocraticamente deformati dell’Europa dell’Est, queste organizzazioni sono ora ancora più sfacciate nell’abbracciare la democrazia borghese, in linea di massima senza neanche preoccuparsi di rendere omaggio formale alla rivoluzione proletaria. In Francia, gli pseudo trotskisti di Lutte Ouvrière (Lo), del gruppo lambertista (che ora si chiama Partito operaio indipendente) e della Lega comunista rivoluzionaria (Lcr), sezione guida del Segretariato unificato (Su), si candidano regolarmente alla presidenza della repubblica semi-bonapartista. Il candidato lambertista alle elezioni presidenziali del 2007 era un sindaco che si presentò come “candidato dei sindaci”, mentre Lo e la Lcr finanziano in parte la loro attività elettorale con le significative sovvenzioni dirette che ricevono dallo Stato capitalista francese. In Brasile, un leader del gruppo del Su, Miguel Rossetto, è stato ministro nel governo borghese di fronte popolare guidato dal socialdemocratico Lula. La Lcr francese si è ora trasformata in un “Nuovo partito anticapitalista” che nega ogni riferimento al comunismo o alla rivoluzione. In Gran Bretagna, il Partito socialista di Peter Taaffe (il nucleo centrale del Committee for a Workers’ International [Comitato per un’internazionale operaia]), che in una precedente fase politica trascorse decenni a tentare di riformare il vecchio Partito laburista dall’interno, ora chiede un “partito operaio di massa” definito dal riformismo del “vecchio labour” come alternativa al New Labour Party di Blair/Brown.

Tra i pochi gruppi che pretendono di richiamarsi al marxismo e che talvolta parlano la lingua della Rivoluzione d’Ottobre, vi sono la Bolshevik Tendency [Tendenza bolscevica] (Bt) e l’Internationalist Group [Gruppo internazionalista] (Ig). La Bt è formata da un pugno di individui che lasciò la nostra organizzazione nei primi anni Ottanta, in risposta all’apertura della Seconda guerra fredda ed è guidata da un sociopatico di nome Bill Logan, che noi abbiamo espulso nel 1979 per reati contro la morale comunista e l’elementare decenza umana. I quadri fondatori dell’Ig abbandonarono il nostro partito nel 1996, a seguito della controrivoluzione capitalista in Europa dell’Est e in Unione Sovietica, perseguendo un orientamento opportunista verso vari ambienti “radicali” piccolo-borghesi. Queste appendici politiche della guerra fredda si sono unite nel criticare la nostra linea contraria alla candidatura a cariche esecutive.

L’Ig ha denunciato la nostra posizione come una rottura nella “continuità del trotskismo genuino” (“France Turns Hard to the Right”, Internationalist, luglio 2007) alludendo alla nostra campagna elettorale del 1985 in cui presentammo Marjorie Stamberg, ora sostenitrice dell’Ig, candidata a sindaco di New York. Seguendo la pratica dei nostri predecessori rivoluzionari, la nostra posizione precedente non era soggettivamente contraria ai nostri principi. Ma continuare nella difesa di tali campagne da parte dell’Ig lo è. L’Ig afferma che i comunisti possono candidarsi “a qualsiasi posto”, compreso quello di comandante in capo dell’imperialismo, e argomentano: “Nei casi insoliti in cui un candidato rivoluzionario avesse abbastanza sostegno da essere eletto, il partito avrebbe già iniziato la costruzione di consigli operai e altri organi di carattere sovietico. E il partito insisterebbe sul fatto che, se eletti, i propri candidati si baserebbero su tali organi di potere dei lavoratori e non sulle istituzioni dello Stato borghese”. La Bt ha citato favorevolmente questo passaggio e la descrizione dell’Ig della nostra posizione come una “novità”, ha anche aggiunto il proprio tocco parlamentarista: “Forse i compagni della Lci concluderanno alla fine che l’uso del parlamento è anch’esso ‘un ostacolo’ poiché il partito che vince finisce con l’esercitare il potere esecutivo” (“ICL Rejects ‘Executive Offices’: Of Presidents & Principles”, 1917, 2008).

Accettando che i comunisti possano candidarsi a cariche esecutive, l’Ig lascia aperta, e certamente non sconfessa, la possibilità di prendere questo tipo d’incarico “se eletti”, almeno in una situazione rivoluzionaria. Da parte sua, la Bt oscura ogni distinzione tra ministerialismo, vale a dire occupare la carica di ministro in un governo borghese, e il candidarsi a essere un deputato rivoluzionario dei lavoratori in un parlamento borghese. Dietro i guaiti della Bt si cela il presupposto implicito (profondamente falso e che esprime un pregiudizio piccolo-borghese), che i parlamenti borghesi sono organi sovrani che esprimono la “volontà del popolo”. Chiaramente ciò che la Bt ha in mente è il parlamento di Sua Maestà reale, la madre dei parlamenti. La Bt intona: “Certo, l’unico modo per ‘abolire’ le istituzioni dello Stato borghese è attraverso la rivoluzione socialista.” (ibid.) Ma questo è solo un sermone domenicale per gli ingenui.

L’Ig e la Bt invocano una “situazione rivoluzionaria” come deus ex machina, una copertura per la loro posizione opportunista. Se i bolscevichi, emulando i menscevichi, fossero entrati nel governo provvisorio borghese nel 1917 nel bel mezzo di quella situazione rivoluzionaria, ciò avrebbe reso vuoto il loro appello “tutto il potere ai soviet” e li avrebbe trasformati nell’ala sinistra della democrazia borghese. Al contrario di ciò che sostengono Ig e Bt, la storia è piena di “casi insoliti”, in cui presunti socialisti e comunisti hanno fatto appello a circostanze eccezionali per mettere le mani sulle leve del potere statale borghese. Inoltre l’Ig e la Bt ignorano coscientemente il fatto che storicamente è molto comune per i partiti operai riformisti farsi le ossa nell’amministrazione dello Stato borghese conquistando elettoralmente il controllo dei consigli comunali, spesso in assenza di un qualsiasi accenno di situazione rivoluzionaria. Tale municipalismo o “socialismo municipale” non è servito a far progredire la rivoluzione proletaria, ma a farla deragliare.

In un senso molto concreto, la questione della candidatura a cariche esecutive, risale a una lotta non completata contro il ministerialismo avviata dagli elementi di sinistra della Seconda internazionale, come Rosa Luxemburg, all’alba del ventesimo secolo. Gli argomenti sollevati dall’Ig e dalla Bt in difesa della loro linea sulle cariche esecutive li collocano a destra dell’ala sinistra della socialdemocrazia che precedette la Prima guerra mondiale.

In questo periodo post-sovietico il proletariato si trova in una profonda crisi. In queste circostanze, è ancora più importante che i rivoluzionari difendano le conquiste programmatiche fondamentali del passato e, attraverso lo studio critico, il dibattito e l’applicazione, approfondiscano e amplino la comprensione del programma marxista. Nel far ciò, è necessario guardare alle più alte espressioni della lotta e della coscienza proletaria, come le lezioni delle rivoluzioni del 1848 e della Comune di Parigi del 1871 e della più grande conquista ottenuta sinora dal proletariato, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, che ha dimostrato in maniera conclusiva che prendere un incarico esecutivo in un governo capitalista si contrappone alla lotta per il potere statale proletario.

Marx ed Engels sullo Stato

Nel Manifesto comunista, redatto poco prima degli sconvolgimenti rivoluzionari del 1848, Marx ed Engels chiarirono che il proletariato avrebbe dovuto erigere il proprio Stato come “il primo passo nella rivoluzione operaia” (Manifesto del partito comunista, dicembre 1847 – gennaio 1848) e continuarono “Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive.” Come osserva Lenin in Stato e rivoluzione, la questione di come sostituire lo Stato borghese con lo Stato proletario non fu affrontata nel Manifesto, né, di conseguenza, la questione di una via parlamentare al socialismo, il suffragio universale a malapena esisteva.

All’inizio del 1852, Marx era giunto alla comprensione che “La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla” (Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, 1852). Ma fu soprattutto l’esperienza della Comune di Parigi del 1871 che portò Marx ed Engels alla conclusione che “la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini” (La guerra civile in Francia, 1871). Marx osservò in quell’opera che “il potere dello Stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe.” Il primo decreto della Comune, pertanto, fu la soppressione dell’esercito permanente, e la sua sostituzione con l’armamento del popolo. La Comune, che sostituì il potere statale borghese, “doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo.”

Molte volte, presunti sostenitori di Marx ed Engels nel Partito socialdemocratico di Germania (Spd) hanno cercato di rendere inoffensiva o distorcere la loro prospettiva rivoluzionaria internazionalista, centralmente sulla questione dello Stato. Marx è molto duro nel modo in cui tratta la rivendicazione di uno “Stato libero” avanzata nel 1875 dal programma di fondazione della Spd unificata. Catturando di passaggio l’essenza della Germania del Kaiser del diciannovesimo secolo, Marx critica violentemente il Programma di Gotha per il suo ricorso al sotterfugio

“di richiedere cose, che hanno senso solo in una repubblica democratica, a uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare guarnito di forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, già influenzato dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, tutelato da una polizia; e per giunta assicurare a questo Stato che ci si immagina di potergli imporre cose del genere con ‘mezzi legali’. La stessa democrazia volgare, che vede nella repubblica democratica il millennio e non si immagina nemmeno che proprio in questa ultima forma statale della società borghese si deve definitivamente decidere combattendo la lotta di classe, la stessa democrazia volgare sta ancora infinitamente al di sopra di questa specie di democratismo entro i confini di ciò che è permesso dalla polizia e non è permesso dalla logica.” (Critica al Programma di Gotha, 1875)

Engels fu costretto a tornare su questo tema, denunciando allo stesso tempo il ministerialismo, nella sua critica del 1891 al programma di Erfurt:

“Se vi è qualcosa di certo, è proprio il fatto che il nostro partito e la classe operaia possono giungere al potere soltanto sotto la forma della repubblica democratica. Anzi, questa è la forma specifica per la dittatura del proletariato, come già ha dimostrato la grande Rivoluzione francese. E’ impensabile, invero, che i nostri uomini migliori debbano divenire ministri agli ordini di un imperatore, come Miquel. Ebbene, sembra legalmente incompatibile porre direttamente nel programma la rivendicazione della repubblica, sebbene ciò fosse ammissibile perfino sotto Luigi Filippo, in Francia, così come lo è oggi in Italia. Ma il fatto che in Germania non si possa neppure esporre un programma di partito apertamente repubblicano, dimostra quanto sia enorme l’illusione di poter erigere qui la repubblica per una via comodamente pacifica, e non la repubblica soltanto ma la società comunista.” (Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico, giugno 1891)

Johannes Miquel fu un membro della Lega comunista fino al 1852, dopo di che passò dalla parte della borghesia tedesca, diventando leader del Partito nazionale liberale e ministro del governo per alcuni anni.

La Spd tedesca crebbe enormemente in dimensioni e influenza negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, nonostante la legge antisocialista emanata da Bismarck nel 1878 e ancor più dopo la sua abrogazione nel 1890. Una serie di successi elettorali portarono alla nascita di una grande componente parlamentare e municipale nel partito. Considerevoli risorse del partito, finanziarie e non, oltre ad un poderoso apparato di partito e sindacale esercitarono una combinata influenza conservatrice e fornirono la base materiale per una forte e sempre più marcata tendenza opportunista. Nell’introduzione del 1891 al principale lavoro di Marx sulla Comune di Parigi, Engels scrisse:

“Il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso ancora una volta da salutare terrore sentendo l’espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere com’è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa fu la dittatura del proletariato.” (Introduzione a La guerra civile in Francia, marzo 1891)

Quando il libro fu pubblicato, i redattori della Spd sostituirono “filisteo socialdemocratico” con “filisteo tedesco”!

Negli anni che seguirono la morte di Engels nel 1895, il dirigente della Spd Eduard Bernstein, diede forma teorica alla crescente tendenza opportunista rinunciando apertamente al marxismo rivoluzionario a favore di un “socialismo evolutivo” che si basava sulla graduale riforma della società borghese. Bernstein sostenne che per lui il “movimento” era tutto, l’obiettivo finale del socialismo nulla. Già nel 1895, gli impulsi riformisti nella socialdemocrazia ufficiale tedesca erano diventati così forti che quando Engels presentò la sua introduzione a Le lotte di classe in Francia, dal 1848 al 1850 di Marx, l’esecutivo della Spd obiettò che il lavoro era troppo rivoluzionario, e chiese a Engels di abbassare i toni. Lui a malincuore si sforzò di farlo.

L’esecutivo della Spd non stampò interamente il progetto come riscritto, ma, all’insaputa di Engels, omise alcuni passaggi per far credere che avesse abbandonato il suo punto di vista rivoluzionario. Divenne famosa l’inclusione della sua affermazione che “La ribellione di vecchio stile, la lotta di strada con le barricate, che sino al 1848 erano state l’elemento decisivo in ultima istanza, erano conside-revolmente invecchiate.” (Introduzione a Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, 6 marzo 1895) Ma tolsero la sua affermazione categorica, “Vuol dire ciò che nell’avvenire la lotta di strada non avrà più nessuna funzione? Assolutamente no. Vuol dire soltanto che dal 1848 le condizioni sono diventate molto più sfavorevoli ai combattenti civili, e molto più favorevoli all’esercito. Una futura lotta di strada potrà dunque essere vittoriosa soltanto se questa situazione sfavorevole verrà compensata da altri fattori.” (ibid.) Tra questi fattori, spiegava Engels in una parte precedente dell’introduzione, vi era la necessità per gli insorti di “paralizzare le truppe con influenze morali (...) Se la cosa riesce, la truppa rifiuta di marciare, oppure il comando perde la testa, e l’insurrezione è vittoriosa.” (ibid.)

Chiaramente, il punto di Engels non era, come i riformisti sosterranno in seguito, che la rivoluzione era obsoleta ma che le forze proletarie avrebbero dovuto scindere l’esercito borghese. Già nel 1856, ben consapevole del ruolo fondamentale svolto nell’esercito prussiano dall’imponente base contadina, Marx aveva osservato: “Tutta la faccenda in Germania dipenderà dalla possibilità di appoggiare la rivoluzione proletaria con una specie di seconda edizione della guerra dei contadini. Allora la cosa riuscirà ottimamente.” (“Marx a Engels”, 16 aprile 1856)

Marx sulla questione di una via “pacifica” al socialismo

I riformisti socialdemocratici hanno anche utilizzato dichiarazioni isolate di Marx ed Engels che lasciavano aperta la possibilità di una transizione pacifica al socialismo in alcuni paesi. In un discorso tenuto ad Amsterdam, riportato nel giornale La Liberté, Marx disse:

“Noi crediamo che si debbano prendere in considerazione le istituzioni, i costumi e le tradizioni dei diversi paesi, e non neghiamo che vi sono paesi come l’America, l’Inghilterra e, se conoscessi meglio le vostre istituzioni, aggiungerei forse anche l’Olanda, dove i lavoratori possono giungere per via pacifica alla loro meta. Se questo è vero, dobbiamo anche riconoscere che nella maggior parte dei paesi del continente, la leva della nostra rivoluzione deve essere la forza, cui ci si deve richiamare ogni giorno per costruire il dominio del lavoro.” (Sur le Congrès de la Haye [Sul congresso dell’Aia], 8 settembre 1872 – La Liberté, 15 settembre 1872 [nostra traduzione])

Marx basava la sua argomentazione sulla comprensione che questi Stati mancavano di cricche militariste o di rilevanti apparati burocratici. Ma la sua speculazione era sbagliata. Gran Bretagna e Olanda avevano entrambi vasti imperi coloniali che richiedevano grandi apparati burocratici e forze militari per tenere sottomesse le masse. Durante il regno della regina Vittoria (1837-1901) la Gran Bretagna combatté, oltre alla guerra di Crimea del 1853-56, una serie interminabile di azioni militari e guerre minori e non così minori, fino alla seconda guerra Boera, per estendere e mantenere il suo impero.

Gli Stati Uniti erano allora nel mezzo del loro periodo più democratico, l’era della Ricostruzione. Ma la guerra civile diede un enorme impulso al capitale del Nord, in modo che all’arrivo dell’amministrazione Grant tutti i pezzi erano al loro posto per far nascere un imperialismo pieno nel corso dei decenni successivi. Fu in questo periodo che il capitale americano cominciò seriamente la sottomissione economica del Messico (già notevolmente ridotto nel territorio a seguito della guerra messicano-americana del 1846-48), appropriandosi dei migliori territori agricoli, delle ferrovie e delle concessioni minerarie. La sconfitta del Grande sciopero delle ferrovie del 1877 e, in quello stesso anno, lo smantellamento della Ricostruzione sono stati l’inconfondibile indicazione di questo processo.

Al momento della Rivoluzione del 1848, Marx aveva un diverso apprezzamento della possibilità per l’Inghilterra di attuare una transizione pacifica al socialismo. Scrivendo sulla sconfitta della classe operaia francese ad opera della borghesia in quell’anno, Marx rilevò la necessità di un sollevamento vittorioso contro la borghesia inglese:

“La liberazione dell’Europa, sia la conquista dell’indipendenza delle nazionalità oppresse, sia la caduta dell’assolutismo feudale, dipendono quindi dall’insurrezione vittoriosa della classe operaia francese. Ma ogni rivolgimento sociale in Francia naufraga necessariamente di fronte alla borghesia inglese, di fronte al dominio industriale e commerciale della Gran Bretagna sul mondo. Ogni parziale riforma sociale in Francia, e sul continente europeo in generale, è e rimane, quanto alla sua possibilità di essere definitiva, un pio e vuoto desiderio. E la vecchia Inghilterra non sarà rovesciata che da una guerra mondiale che sola può fornire al partito cartista, al partito operaio inglese organizzato, le condizioni di una rivolta vittoriosa contro i suoi giganteschi oppressori.” (“Il movimento rivoluzionario”, 31 dicembre 1848)

Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848, il capitalismo del continente si sviluppò enormemente. Ma mentre i rapporti di potere economico si spostarono leggermente, le osservazioni di Marx sulla Gran Bretagna mantennero essenzialmente la loro validità, sicuramente fino al tempo della Comune e dopo.

Qualunque cosa Marx abbia speculato nel 1872, ora siamo in un periodo fondamentalmente diverso della storia del mondo: l’epoca imperialista caratterizzata dal dominio dei monopoli del capitale finanziario, nel quale un pugno di grandi potenze capitalistiche sono in competizione tra di loro per la supremazia nel mondo. In tali circostanze, l’idea di transizione pacifica, parlamentare al socialismo è peggio di una chimera: si tratta di un programma riformista che lega il proletariato ai suoi nemici di classe.

Come a voler dimostrare questo punto, la cosiddetta Tendenza bolscevica, volendo polemizzare contro la nostra opposizione alle candidature a cariche esecutive, cita una lettera di Engels del 1893. Engels rispondeva a un socialista emigrato (F. Wiesen di Baird, Texas), che sosteneva che la pratica di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti rappresentava una negazione del principio rivoluzionario. Engels respinse, considerandola “accademica”, la richiesta di Wiesen di prendere una posizione di principio, osservando che l’obiettivo della rivoluzione operaia negli Stati Uniti era ancora “molto, molto lontano” e che era prematuro tracciare una linea di principio contro la candidatura per il senato o per la presidenza. Engels affermava:

“Non vedo quale violazione dei principi socialdemocratici vi sia necessariamente nel fatto di presentare dei candidati per una qualsiasi carica politica da occupare in seguito a elezione, o di votare per questi candidati, anche se si mira ad eliminare questa stessa carica.

Si può essere dell’opinione che la strada migliore per la soppressione della carica presidenziale e del senato in America consista nell’eleggere a queste cariche uomini che siano obbligati a compiere questa soppressione; logicamente, poi si agirà anche in maniera conseguente a tale proposito. Altri possono essere del parere che questa strada sia inadeguata allo scopo; ciò può essere oggetto di discussione. Possono esserci circostanze nelle quali tale modo d’agire implicherebbe anche un rinnegamento del principio rivoluzionario; ciò che non mi è chiaro è perché dovrebbe essere questo il caso sempre e ovunque.” (“Engels a F. Wiesen”, 14 marzo 1893)

La preoccupazione centrale di Engels era quella di spingere il Socialist Labor Party (Slp) dominato da emigrati, ad aiutare il lancio di un movimento politico della classe operaia. A tal fine, alcuni anni prima, nel 1886, aveva sottolineato l’importanza della candidatura di Henry George dell’United Labour Party a sindaco di New York, vedendo questo come un passo verso un partito indipendente dei lavoratori sul modello dei partiti socialdemocratici in Europa. Nel 1893 Engels non sapeva dove le linee di principio sarebbero state tracciate nell’arena parlamentare, all’arrivo dell’ora della battaglia. Come avrebbe potuto Engels, a quel punto, dipanare questioni come il tipo di partito necessario agli operai per prendere il potere, i principi del parlamentarismo bolscevico, la dinamica del sostegno critico ai dirigenti traditori riformisti? Ma anche così, sapeva abbastanza per indicare la strada verso la guerra civile.

Non è questo il caso per la Bt, che cita Engels per dare un sostegno camuffato al ministerialismo. Come scrisse Trotsky nel polemizzare contro Kautsky nel 1920:

“Lo Stato democratico della borghesia da un lato crea condizioni più favorevoli all’educazione politica dei lavoratori che non l’assolutismo, ma dall’altro pone anche dei limiti a questo sviluppo con la legalità borghese, che accumula e inculca abilmente negli strati superiori del proletariato delle abitudini borghesi e dei pregiudizi legalitari. La scuola della democrazia si dimostrò assolutamente insufficiente a spingere il proletariato tedesco sulla via della rivoluzione quando esso si trovò di fronte alla catastrofe dalla guerra. Per questo occorsero la barbara scuola della guerra, le ambizioni social-imperialiste, le colossali vittorie militari, e le paurose disfatte. Dopo questi avvenimenti che hanno portato qualche differenza nel mondo e anche nel programma di Erfurt, tirar fuori i luoghi comuni dell’importanza del parlamentarismo democratico per l’educazione del proletariato, significa ricadere nell’infanzia politica.” (Terrorismo e comunismo, 1920 – Milano, SugarCo, 1964)

Forse la Bt ora cambierà il nome del suo giornale da 1917 (il riferimento è a febbraio?) a 1893!

La lotta contro il millerandismo, 1900

La questione della natura delle cariche esecutive nello Stato borghese fu posta in modo ineludibile nel giugno 1899, quando Alexandre Millerand divenne il primo leader socialista ad accettare un portafoglio ministeriale in un governo borghese. In una lettera del 1894 non citata nel testo della Bt, Engels aveva espressamente messo in guardia contro tale possibilità nel caso in cui i repubblicani italiani fossero giunti al potere alla testa di un movimento rivoluzionario sostenuto dai socialisti. Scrivendo al dirigente socialista italiano Filippo Turati, Engels sosteneva:

“Dopo la vittoria comune, potrebbe esserci offerto qualche seggio nel nuovo governo, ma sempre nella minoranza. Questo è il pericolo più grande. Dopo febbraio 1848 i democratici socialisti francesi (della Réforme, Ledru-Rollin, Louis Blanc, Flocon, ecc.) commisero l’errore di accettare cosiffatte cariche. Minoranza nel governo, essi condivisero volontariamente la responsabilità di tutte le infamie e i tradimenti, di fronte alla classe operaia, commessi dalla maggioranza di repubblicani puri; mentre la presenza loro nel governo paralizzava completamente l’azione rivoluzionaria della classe lavoratrice che essi pretendevano rappresentare.” (“Engels a Filippo Turati”, 26 gennaio 1894 – Critica sociale, 1 febbraio 1894)

Cinque anni più tardi, Millerand giustificò il suo incarico di ministro del commercio sotto il primo ministro Renè Waldeck-Rousseau, sostenendo che la Repubblica francese avrebbe altrimenti rischiato di essere rovesciata da una alleanza di reazionari monarchici e aristocratici in combutta con il corpo degli ufficiali e la Chiesa cattolica. A fianco di Millerand in questo governo di “difesa repubblicana” sedeva il generale Galliffet, che aveva represso nel sangue la Comune di Parigi.

Lo sfondo di tutto questo era l’affare Dreyfus, uno scandalo politico che aveva gettato la Francia in una profonda crisi politica. Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo nello Stato maggiore, fu condannato dalla corte marziale segreta nel 1894 al carcere a vita con l’accusa di aver venduto segreti militari ad una potenza straniera. Subito dopo fu rivelato che Dreyfus era stato vittima di una montatura organizzata dai vertici dell’esercito per nascondere la colpevolezza di un altro ufficiale, membro della nobiltà. Dopo anni di prigionia nell’Isola del diavolo, nella Guyana francese, Dreyfus fu nuovamente processato e nuovamente condannato nel settembre 1899; poco dopo ricevette il perdono presidenziale. Millerand fu integrato nel governo per disinnescare la perdurante crisi.

Il movimento socialista francese, già polarizzato sulla vicenda Dreyfus, si scisse sul comportamento di Millerand. Un’ala sostenne Millerand, soprattutto Jean Jaurès, che nel 1898 divenne uno dei difensori più ardenti ed eloquenti di Dreyfus, anche se rigorosamente entro i limiti del liberalismo borghese. L’altra ala, il Partito operaio francese (Pof), guidato da Jules Guesde e Paul Lafargue, aveva rifiutato di difendere Dreyfus ed era contrario all’ingresso di Millerand al governo.

Al dibattito sul millerandismo partecipò Rosa Luxemburg, fondatrice della socialdemocrazia del Regno di Polonia e Lituania, che da allora divenne prominente nell’ala sinistra della Spd, in particolare attraverso la lotta contro Bernstein. Nella sua eloquente confutazione del riformismo di Bernstein, Luxemburg osservava:

“Perciò, chi si pronuncia favorevole alla via della riforma legislativa invece e in contrapposto alla conquista del potere politico e alla rivoluzione sociale, sceglie in pratica non una via più tranquilla, più sicura, più lenta, verso la stessa meta, quanto piuttosto un’altra meta, cioè, in luogo dell’instaurazione di un nuovo ordinamento sociale, soltanto dei mutamenti, e non sostanziali, dell’antico.” (Riforma o rivoluzione, 1898-99 – Roma, Editori Riuniti, 1973)

Rosa Luxemburg argomentava giustamente che i socialisti avrebbero dovuto difendere Dreyfus, utilizzando il caso per accusare il capitalismo e il militarismo francese e per portare avanti la lotta di classe. Ma si oppose all’ingresso di Millerand nel governo e spiegò:

“La natura di un governo borghese non è determinata dal carattere personale dei suoi membri, ma dalla sua funzione organica nella società borghese. Il governo dello Stato moderno è essenzialmente un’organizzazione di dominio di classe, il cui regolare funzionamento è una condizione di esistenza dello Stato classista. Con l’entrata di un socialista nel governo, mentre il dominio di classe persiste, non è il governo borghese a trasformarsi in un governo socialista, ma il socialista a trasformarsi in un ministro borghese.” (“Affaire Dreyfus et cas Millerand” [L’affare Dreyfus e il caso Millerand], 1899, Rosa Luxemburg, Le Socialisme en France (1898-1912) – Parigi, Pierre Belfond, 1971 [nostra traduzione])

Una volta al governo la logica del millerandismo venne allo scoperto: la preservazione a tutti i costi del governo Waldeck-Rousseau. Come Rosa Luxemburg commentò ironica, “Ieri il governo doveva prendere misure difensive per salvare la repubblica. Oggi la difesa della repubblica deve essere abbandonata per salvare il governo.” (“Die sozialistische Krise in Frankreich” [La crisi socialista in Francia], 1900-01 [nostra traduzione]). Dopo le dimissioni di Waldeck-Rousseau, il gruppo di Jaurès sostenne il governo radicale di Emile Combes e votò per il budget dei ministeri, inclusi i fondi all’esercito e alla marina. Lenin notò il legame evidente tra il revisionismo di Bernstein e il millerandismo:

“Millerand ha dato un esempio brillante di questo bernsteinismo pratico. E non per nulla Bernstein e Vollmar si sono affrettati a difenderlo e a lodarlo con tanto zelo! Infatti se la socialdemocrazia in sostanza non è che il partito delle riforme – e deve avere il coraggio di riconoscerlo francamente –, un socialista non soltanto ha il diritto di entrare in un ministero borghese, ma deve sempre sforzarsi di entrarvi. Se democrazia significa essenzialmente soppressione del dominio di classe, perché un ministro socialista non dovrebbe affascinare tutto il mondo borghese con discorsi sulla collaborazione di classe? Perché non dovrebbe restare nel ministero anche quando gli eccidi di operai compiuti dai gendarmi hanno dimostrato, per la centesima e per l’ennesima volta, il vero carattere della collaborazione democratica delle classi?” (Che fare, 1902)

La discussione sul ministerialismo dominò il Congresso della Seconda internazionale del 1900 a Parigi, nel quale la Luxemburg, il pioniere marxista russo Georgi Plekhanov, il dirigente del Slp americano Daniel De Leon e altri della sinistra si opposero alla destra, rappresentata da Bernstein e Georg von Vollmar della Spd, che sosteneva Jaurès e Millerand. Politicamente al centro, come succedeva sempre più spesso nel partito tedesco, era Karl Kautsky il teorico della Spd, che era ancora ampiamente considerato come “il papa del marxismo” nell’Internazionale. Come ha osservato lo storico G. D. H. Cole: “Era il compito di Kautsky escogitare formule che avrebbero soddisfatto il centro e disarmato l’estrema sinistra senza spingere l’ala destra fuori dall’Internazionale e senza rendere la posizione di Jaurès impossibile”. (Cole, The Second International 1889-1914 [La Seconda internazionale 1889-1914] – London, Macmillan & Co. Ltd., 1960 [nostra traduzione])

La risoluzione di “compromesso” messa insieme da Kautsky è indicativa di quanto profondamente il riformismo socialdemocratico permeasse la Seconda internazionale.

“In uno Stato democratico contemporaneo la conquista del potere politico da parte del proletariato non può essere il semplice risultato di un’azione putschista, ma può solo costituire la conclusione di un lungo e faticoso lavoro di organizzazione politica ed economica del proletariato, della sua rigenerazione fisica e morale e di una conquista passo dopo passo di seggi elettivi in assemblee comunali rappresentative e in organi legislativi.

Ma là dove il potere governativo è centralizzato, la sua conquista non può avere luogo pezzo per pezzo. L’ingresso di un socialista in un ministero borghese non può essere considerato come il normale inizio della conquista del potere politico, ma può essere solo un ripiego temporaneo ed eccezionale in una situazione difficile.

Se in un determinato caso esiste una tale situazione è una questione di tattica e non di principio. Qui il Congresso non dovrebbe decidere. Ma in ogni caso questo esperimento pericoloso può essere vantaggioso solo se è approvato da un’organizzazione di partito unita e il ministro socialista è e rimane agli ordini del partito.” (Internationaler Sozialisten-Kongress zu Paris 1900 [Congresso internazionale socialista a Parigi, 1900] – Berlin, Expedition der Buchhandlung Vorwärts, 1900 [nostra traduzione])

La messa in guardia gratuita contro il putschismo e gli argomenti a favore di una progressiva penetrazione nei consigli comunali e nelle assemblee legislative intendevano placare i revisionisti e questi lo compresero. La scappatoia delle “circostanze eccezionali” fu accettata con gioia anche da Millerand e Jaurès, che utilizzarono spudoratamente tale argomento per sostenere il proprio ministerialismo. In realtà, fu la borghesia che accolse questo ministro socialista nel tentativo “eccezionale” di liquidare la crisi politica generata dall’affare Dreyfus.

La risoluzione della minoranza introdotta da Guesde e dall’italiano Enrico Ferri, riaffermava che “attraverso la conquista dei poteri pubblici bisogna intendere l’espropriazione politica della classe capitalista, sia che questa espropriazione avvenga pacificamente sia che avvenga violentemente.” E continuava:

“Quindi, in un regime borghese, permette solamente di occupare posizioni elettive che il partito possa conquistare con le proprie forze, cioè gli operai organizzati come un partito di classe e necessariamente proibisce qualsiasi partecipazione socialista a governi borghesi, contro cui i socialisti devono rimanere in posizione di irreconciliabile opposizione.” (Congrès Socialiste International Paris 23-27 Septembre 1900 [Congresso socialista internazionale Parigi 23-27 settembre 1900] – Ginevra, Minkoff Reprint, 1980 [nostra traduzione])

Così la risoluzione della minoranza lasciava aperta la possibilità di occupare cariche nel regime borghese “che il partito possa conquistare con le proprie forze.” Plekhanov andò oltre, accettando la possibilità che la partecipazione ad un governo borghese potesse essere una tattica valida in circostanze eccezionali. Così inizialmente sostenne la risoluzione di Kautsky, ma cercò di modificarla in modo da includere almeno una critica implicita di Millerand, sostenendo che, se un socialista fosse costretto a entrare in un governo borghese in casi estremi, sarebbe obbligato a lasciarlo qualora questo governo rivelasse favoritismi nella lotta tra lavoro e capitale. Plekhanov stesso riconobbe che sul piano teorico il suo emendamento “non poteva resistere alle critiche: che tipo di governo borghese potrebbe essere imparziale nei confronti della lotta tra capitale e lavoro?” (“Neskol’ko slovo poslednem Parizhskom mezhdunarodnom sotsialisticheskom kongresse” [Alcune parole sull’ultimo Congresso socialista a Parigi], aprile 1901 [nostra traduzione]). Jaurès poi modificò abilmente l’emendamento di Plekhanov per dire che un socialista dovrebbe lasciare il governo, se un partito socialista unificato ritenesse che il governo non fosse imparziale nella lotta tra lavoro e capitale, ma in Francia non c’era un partito unificato! Preso in trappola, Plekhanov finì per votare con la minoranza lamentandosi allo stesso tempo che la mozione di Guesde fosse troppo categorica nella sua opposizione all’ingresso in un governo borghese.

Guesde presentò anche una mozione per opporsi alla partecipazione socialista in coalizioni di collaborazione di classe con partiti borghesi. Pur affermando che “la lotta di classe proibisce qualsiasi tipo di alleanza con qualunque frazione della classe capitalista”, la mozione concedeva anche che “circostanze eccezionali rendono le coalizioni necessarie in alcuni luoghi” (Congrès Socialiste International, op. cit.). Questa scappatoia era abbastanza ampia da permettere anche agli opportunisti più incalliti di votare per la risoluzione, che fu quindi approvata all’unanimità.

Amsterdam 1904: il millerandismo rivisitato

La Seconda internazionale ritornò sulla questione del millerandismo al suo Congresso di Amsterdam del 1904. Un anno prima, al congresso della Spd a Dresda del 1903, Kautsky aveva dato il suo sostegno ad una risoluzione che condannava il revisionismo e, implicitamente il millerandismo. Il dirigente del Slp americano Daniel De Leon commentò aspramente: “Al congresso di Parigi un atteggiamento anti-millerandista era decisamente impopolare, in quell’occasione Kautsky ‘correva con le lepri’,” a Dresda invece Kautsky era “di nuovo alla ribalta, ma ora ‘abbaiava insieme ai cani’” (“The Dresden Congress” [il congresso di Dresda], Daily People, 3 gennaio 1904 [nostra traduzione]).

I guesdisti misero ai voti la risoluzione della Spd ad Amsterdam. Nella versione approvata nel 1904, la risoluzione “condannava nel modo più deciso i tentativi revisionisti per alterare le nostre tattiche di lotta di classe, già comprovate e vittoriose, in modo tale che una politica di accomodamento all’ordine delle cose esistente prendesse il posto della conquista del potere politico attraverso la sconfitta dei nostri oppositori.” (Internationaler Sozialisten-Kongress zu Amsterdam [Congresso internazionale socialista ad Amsterdam] – Berlino, Expedition der Buchhandlung Vorwärts, 1904 [nostra traduzione]). Si proclamò apertamente contraria a qualsiasi “partito che si accontenta della riforma della società borghese” e dichiarò inoltre che “la social-democrazia, nell’applicare la risoluzione di Kautsky al Congresso dell’Internazionale socialista di Parigi nel 1900, non può lottare per una partecipazione al potere governativo in una società borghese.” Il riferimento positivo alla risoluzione di Kautsky del 1900 era un caratteristico contentino dato all’ala destra. La critica dei revisionisti non portò a una scissione, poiché tutte le ali accettavano la concezione del “partito di tutta la classe”, cioè, un singolo partito unificato della classe operaia comprensivo di tutte le tendenze dal marxismo al riformismo. Ciononostante, sia i delegati della sinistra che quelli della destra ad Amsterdam videro la risoluzione di Dresda del 1903 come fortemente in contrasto con la conciliazione del 1900 nei confronti del millerandismo.

De Leon aveva votato contro la risoluzione di Kautsky al Congresso di Parigi del 1900. Nel 1904, si rifiutò nuovamente di sostenere la posizione di Kautsky del 1900, e presentò la seguente risoluzione:

“Considerando che, in occasione dell’ultimo Congresso internazionale, svoltosi a Parigi nel 1900, è stata adottata una risoluzione generalmente nota come risoluzione Kautsky, la cui clausola finale contemplava la possibilità da parte della classe operaia di accettare un incarico da parte di governi capitalisti, e anche soprattutto presuppone che sia possibile un’imparzialità dei governi della classe dominante nei conflitti tra la classe operaia e la classe capitalista.

Sia deciso, primo, che detta risoluzione di Kautsky sia abrogata come principio generale di tattica socialista;

Secondo, che, in paesi capitalisti pienamente sviluppati come l’America, la classe operaia non può, senza tradire la causa del proletariato, occupare qualsiasi incarico politico diverso da quello che sia conquistato da sé stessa e per sé stessa.” (De Leon, “Millerandism Repudiated” [Millerandismo ripudiato], Daily People, 28 agosto 1904 [nostra traduzione])

Non avendo ottenuto alcun sostegno alla sua risoluzione, De Leon votò la risoluzione principale.

Aprendo la possibilità di occupare cariche politiche conquistate dai lavoratori “da sé stessi e per sé stessi”, la risoluzione di De Leon evitava nuovamente la questione fondamentale: la necessità di distruggere la macchina dello Stato capitalista e di sostituirla con la dittatura del proletariato. Mentre De Leon prese una posizione di principio contro il ministerialismo borghese, fu anche impegnato nell’elettoralismo. Il fondatore del comunismo americano e poi trotskista James P. Cannon lodò il ruolo pionieristico di De Leon nel periodo formativo del movimento socialista americano, allo stesso tempo notò giustamente che egli “era settario nella sua tattica, e la sua concezione dell’azione politica era rigidamente formalista, e resa sterile dal feticismo legalitario” (I primi dieci anni del Partito comunista americano, 1962 – Milano, Jaka Book, 1977).

Come chiarì in un indirizzo del 1905 pubblicato in origine come “Il Preambolo degli Iww” De Leon lasciava aperta la possibilità che, almeno negli Stati Uniti, il proletariato potesse conquistare il potere politico pacificamente attraverso le urne, successivamente il nuovo governo socialista si sarebbe sciolto cedendo il potere ad un’amministrazione di “sindacati industriali socialisti” ( “The Socialist Reconstruction of Society” [La ricostruzione socialista della società] De Leon, Socialist Landmarks, New York — New York Labor News Company, 1952, [nostra traduzione]). Secondo De Leon, questi sindacati, formati sotto il capitalismo, sarebbero cresciuti organicamente, prendendo ed esercitando progressivamente il potere economico contro i capitalisti. A partire dal 1890, il Slp di De Leon ogni quattro anni, presentò sistematicamente il proprio candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Dopo la morte di De Leon, avvenuta nel 1914, e il rigetto da parte del Slp dell’applicabilità delle lezioni della Rivoluzione d’Ottobre alla situazione americana, il partito si fossilizzò.

Dal punto di vista dell’elettoralismo, vi era comunque poca differenza tra l’Slp, anche all’epoca in cui era guidato da De Leon, e il Partito socialista di Eugene V. Debs. Dal 1900 in poi, Debs si candidò cinque volte alla carica di presidente degli Stati Uniti. Debs declamava: “Bisogna insegnare agli operai di unirsi e votare insieme in quanto classe sostenendo il Partito socialista, il partito che li rappresenta in quanto classe, e facendo ciò il governo passerà nelle loro mani e il capitalismo cadrà senza più rialzarsi” (“The Growth of Socialism” [La crescita del socialismo] 1906, Writings and Speeches of Eugene V. Debs – New York, Hermitage Press, 1948 [nostra traduzione]). Debs fece la sua ultima campagna presidenziale nel 1920, ottenendo oltre novecentomila voti, da una cella della prigione di Atlanta, Georgia, dove scontava una pena a dieci anni (e la perdita a vita del diritto di voto) per la sua opposizione alla Prima guerra mondiale. Le campagne presidenziali di Debs, nonché la sua grande autorità, cementarono una tradizione per i socialisti di candidarsi alla carica di comandante in capo dell’imperialismo americano che fu in larga misura accettata acriticamente da tutti, tranne che dagli anti-parlamentari che si opponevano a qualsiasi attività elettorale. Ma mentre Debs rivendicava il rovesciamento del capitalismo, molti leader socialisti, come Morris Hillquit, erano riformisti virulentemente antileninisti. Un altro, Victor Berger, si guadagnò giustamente il nomignolo di “socialista delle fogne” per il suo programma di riforme comunali che era quasi indistinguibile da quello portato avanti dal movimento borghese progressista.

Il municipalismo e la Seconda internazionale

Il municipalismo non fu prerogativa solo dei riformisti dichiarati. La profonda divisione tra l’ala riformista e quella rivoluzionaria della Seconda internazionale sull’assunzione da parte dei socialisti di responsabilità ministeriali in un governo borghese non si estese al livello comunale. Infatti, il Congresso di Parigi del 1900 fu unanime nell’approvare una risoluzione sul municipalismo che affermava:

“Considerando che la municipalità può diventare un ottimo laboratorio di vita economica decentralizzata e allo stesso tempo un formidabile bastione politico che le maggioranze socialiste locali possono utilizzare contro la maggioranza borghese del potere centrale, una volta che sia stata ottenuta una seria autonomia;

Il Congresso internazionale del 1900 delibera:

Che tutti i socialisti hanno il dovere, senza ignorare l’importanza della politica generale, di spiegare e apprezzare l’attività municipale, di dare alle riforme municipali l’importanza che è loro attribuita dal ruolo di ‘embrioni della società collettivista’ e di battersi per far diventare i servizi comunali: trasporti locali, illuminazione, fornitura idrica, elettricità, scuole, servizi medici, ospedali, bagni, lavatoi, magazzini comunali, panifici comunali, servizi di ristorazione, riscaldamento, alloggi operai, abbigliamento, forze di polizia, le opere comunali, ecc. istituzioni modello, sia dal punto di vista del benessere pubblico che di quello dei cittadini impiegati in tali operazioni.” (Congrès Socialiste International, op. cit.)

Questo è forse l’esempio più illuminante del dilemma dei partiti della Seconda internazionale, tra un programma effettivo di riforme minime e un programma massimo per il socialismo, troppo spesso confinato ai sermoni politici della domenica, e null’altro. Anche coloro che furono più espliciti e coerenti nell’opporsi al programma di Bernstein e di Millerand, pensavano che i socialisti potessero partecipare alle amministrazioni comunali. Così Rosa Luxemburg scriveva:

“La questione di partecipare ad un’amministrazione comunale è completamente diversa. E’ vero che sia l’amministrazione comunale che il sindaco, inter alia, svolgono funzioni amministrative che gli sono state trasferite ed hanno il compito di mettere in pratica leggi borghesi; storicamente, tuttavia, entrambi costituiscono elementi contrapposti (…)

Per le tattiche socialiste, il risultato è un atteggiamento fondamentalmente differente: il governo centrale dell’attuale Stato è l’incarnazione del dominio di classe borghese, la cui eliminazione è un prerequisito assolutamente necessario per la vittoria del socialismo; l’auto-amministrazione è l’elemento del futuro, con cui la trasformazione socialista si legherà positivamente.

Certo, i partiti borghesi sanno come infondere il loro contenuto di classe anche nelle funzioni economiche e culturali della municipalità. Ma qui i socialisti non si troveranno mai in condizione di dover negare la propria politica. Fintanto che sono in minoranza negli organismi rappresentativi del comune, faranno dell’opposizione la loro linea guida, come avviene in parlamento. Se dovessero ottenere la maggioranza, allora faranno del comune uno strumento di lotta contro il potere centrale borghese.” (“Die sozialistische Krise in Frankreich”, op. cit.)

Questa opinione era in parte un residuo del periodo di ascesa della borghesia rivoluzionaria, quando il comune fu un’arma delle classi urbane contro lo Stato feudale monarchico. Nel tardo medio evo, i comuni in Italia e in Francia servirono come bastioni in cui la borghesia mercantile sviluppò le radici del capitalismo all’interno della società feudale e contro le forze dell’ assolutismo. Ma dopo essere giunta al potere la borghesia accantonò i comuni autonomi per consolidare uno Stato forte e centralizzato, capace di difenderne gli interessi di classe a livello nazionale. L’adozione del municipalismo da parte della Seconda internazionale rifletteva non solo confusione teorica, ma anche il fatto che le riforme ottenute con la lotta di classe negli ultimi decenni del 1800 erano state spesso elargite da governi locali controllati dai socialisti.

In realtà, Marx e Engels avevano cercato in varie occasioni di dissipare le illusioni municipaliste. Dopo le rivoluzioni del 1848, misero in guardia che i proletari “non debbono lasciarsi ingannare dalle chiacchiere democratiche sulla libertà dei comuni, sul governo locale autonomo, e così via.” (“Indirizzo del Comitato centrale alla Lega del marzo 1850”) E nel suo scritto sulla Comune di Parigi, Marx avvertì che non si dovevano confondere le funzioni del comune medievale con i compiti del socialismo proletario:

“E’ comunemente destino di tutte le creazioni storiche completamente nuove di essere prese a torto per riproduzioni di vecchie e anche defunte forme di vita sociale, con le quali possono avere una certa somiglianza. Così, questa nuova Comune, che spezza il moderno potere statale, venne presa a torto per una riproduzione dei Comuni medioevali, che prima precedettero questo stesso potere statale e poi ne divennero il sostrato. (…) L’antagonismo tra la Comune e il potere statale è stato preso a torto per una forma esagerata della vecchia lotta contro l’eccesso di centralizzazione. (…) L’esistenza stessa della Comune portava con sé, come conseguenza naturale, la libertà municipale locale, ma non più come un contrappeso al potere dello Stato ormai diventato superfluo.” (La guerra civile in Francia)

In modo analogo, dopo la Rivoluzione russa del 1905, Lenin condannò l’“opportunismo filisteo” degli schemi menscevichi per il “socialismo municipale”:

“Si dimentica che, finché la borghesia domina come classe, essa non può permettere che si tocchino, sia pure da un punto di vista ‘municipale’, le reali basi del suo dominio; che se la borghesia permette, tollera il ‘socialismo municipale’, è proprio perché esso non tocca le basi del suo dominio, non intacca le vere fonti della sua ricchezza, si estende soltanto a quell’angusto campo delle spese locali che la stessa borghesia cede in gestione alla ‘popolazione’. Basta la più modesta conoscenza del ‘socialismo municipale’ in Occidente per sapere come qualsiasi tentativo delle amministrazioni comunali socialiste di uscire un tantino dal quadro dell’ordinaria amministrazione, cioè di un’amministrazione ristretta, minuta, che non dà sostanziali facilitazioni all’operaio, qualsiasi loro tentativo di toccare un tantino il capitale provochi sempre e senza eccezioni un risoluto veto del potere centrale dello Stato borghese.” (“Il programma agrario della socialdemocrazia nella prima rivoluzione russa del 1905-1907”, novembre-dicembre 1907)

Indicativo delle contraddizioni derivanti dall’appoggio di molti socialdemocratici rivoluzionari al controllo socialista dei governi locali, fu il fatto che la Luxemburg respinse con forza argomenti simili utilizzati dai seguaci di Vollmar per giustificare il voto al bilancio del governo statale del Baden nel maggio 1900. Citando la loro affermazione che “i bilanci dei singoli Stati tedeschi, al contrario di quello del Reich, contengono per lo più spese per la cultura, non per l’esercito” la Luxemburg ribatté:

“Considerazioni quantitative sul fatto che il bilancio contenga più o meno spese militari o spese per la cultura, sarebbero decisive per noi, solo se, in generale, ci basassimo sullo Stato attuale e lottassimo solamente contro i suoi eccessi, come per esempio lo Stato militare (…) In effetti ci rifiutiamo di votare i finanziamenti del Reich tedesco con i soldi dei contribuenti, non solo perché è uno Stato militare, ma soprattutto perché si tratta di un Stato di classe borghese. Ciò si applica, tuttavia, anche agli stati federali tedeschi.” (Rosa Luxemburg, “Die badische Budgetabstimmung” [Il voto sul Budget del Baden] [nostra traduzione])

La falsa differenziazione tra Stato, governo nazionale e governi municipali lasciò gli oppositori di sinistra del ministerialismo indifesi nei confronti degli attacchi dei sostenitori di Millerand. Così Jaurès utilizzò il fatto che i sostenitori di Guesde nel Pof occupavano un certo numero di cariche esecutive a livello comunale, per accusare l’opposizione guesdista al ministerialismo come incoerente e ipocrita. In un dibattito del 26 novembre 1900 a Lille (città governata da un sindaco del Pof), Jaurès disse:

“Si parla delle responsabilità che un ministro socialista si assume in un ministero borghese: ma i vostri funzionari eletti in comune, non si assumono anch’essi delle responsabilità? Non fanno parte dello Stato borghese? (…) Potrei dire che un sindaco socialista, pur essendo socialista, può essere sospeso dal potere centrale e perdere il diritto di occupare la carica per un anno. Potrei aggiungere che accetta necessariamente, in quanto sindaco, di far applicare e rispettare molte leggi borghesi, e potrei dirvi che se vi fossero disordini violenti nelle strade, anche lui sarebbe obbligato a chiamare la polizia, perché non si dica che il socialismo è rapina e omicidio.” (“Le Socialisme en débat” supplemento a l’Humanité hebdo, 19-20 novembre 2005 [nostra traduzione])

Pur essendo a servizio di Millerand, la parodia di Jaures del municipalismo dei guesdisti, coglieva nel segno e rifletteva una vera debolezza della Seconda internazionale, che sarebbe stata trasmessa alla Terza.

La Prima guerra mondiale: uno spartiacque

Il riformismo profondamente radicato nella Seconda internazionale si manifestò nella sua incapacità di risolvere le questioni del parlamentarismo, del ministerialismo e del coalizionismo. La Seconda internazionale non assimilò gli insegnamenti della Comune di Parigi sulla necessità di distruggere lo Stato borghese e costruire al suo posto uno Stato proletario del tipo della Comune. Infatti, la leadership della Spd, coloro che si dichiaravano eredi di Marx e Engels, fecero un gran lavoro per seppellire o oscurare gli insegnamenti che Marx e Engels avevano tratto da questo evento epocale.

Con la Prima guerra mondiale interimperialista vennero al pettine tutti i nodi che si erano accumulati nella Seconda internazionale. Allo scoppio della guerra nell’agosto 1914, l’Internazionale sprofondò in modo spettacolare nel socialsciovinismo. Nei paesi belligeranti, solo i bolscevichi e alcuni menscevichi in Russia e i partiti bulgaro e serbo si opposero ai finanziamenti di guerra dei loro governi. I socialpatrioti si mobilitarono dietro le loro borghesie in nome della “difesa della patria”, ricorrendo subdolamente al precedente dato dalle guerre del diciannovesimo secolo in Europa, guerre in cui la vittoria di una parte sull’altra rappresentava il progresso sociale nei confronti della reazione feudale. La Prima guerra mondiale aveva evidenziato che il capitalismo era entrato nell’epoca imperialista: entrambe le coalizioni erano dominate da grandi potenze in lotta per spartirsi di nuovo il mondo. Perciò i marxisti si opposero ad entrambe le parti in guerra, propugnando il disfattismo rivoluzionario.

La Prima guerra mondiale rappresentò uno spartiacque, provocando un profondo riallineamento internazionale nel movimento operaio rivoluzionario. Dopo lunghi anni di lotta la definitiva scissione dagli opportunisti russi, i menscevichi, Lenin e i bolscevichi emersero come la guida di un movimento internazionale volto a riconquistare la bandiera del marxismo rivoluzionario. Lenin, iniziando con i suoi primi scritti sulla guerra del settembre 1914 e proseguendo con gli interventi dei bolscevichi alle conferenze dei socialisti contro la guerra di Zimmerwald nel 1915 e di Kienthal nel 1916, affrontò decisamente due temi legati fra di loro: la necessità di rompere definitivamente con i social-traditori della Seconda internazionale e i loro apologeti centristi e di lottare per una nuova, Terza internazionale; e l’appello a trasformare la guerra imperialista in guerra civile contro il sistema capitalista. (Per un resoconto documentario della lotta di Lenin per una nuova internazionale, vedi Olga Hess Gankin e H. H. Fisher, The bolsheviks and the World War [I bolscevichi e la guerra mondiale]) L’ondata rivoluzionaria creata dall’ininterrotto massacro interimperialista ruppe l’anello più debole dell’imperialismo, la Russia zarista. Con il crollo dell’autocrazia che fece seguito agli sconvolgimenti rivoluzionari del febbraio 1917, si presentò la possibilità di trasformare in realtà lo slogan bolscevico. Fondamentale per l’armamento politico del Partito bolscevico nella lotta per il potere statale proletario fu Stato e rivoluzione di Lenin, scritto durante l’estate del 1917, in cui recupera gli scritti di Marx e Engels sullo Stato e sulle lezioni della Comune.

L’appello a trasformare la guerra imperialista in guerra civile non lasciava spazio a coalizioni elettorali/parlamentari con partiti borghesi. Tuttavia, furono necessarie grandi lotte da parte di Lenin, cui successivamente si unì anche Trotsky, per mantenere il Partito bolscevico su di un corso rivoluzionario che avrebbe condotto gli operai e i contadini della Russia al trionfo nell’Ottobre del 1917, ponendo acutamente a ogni passo la questione di quale classe avrebbe dominato. Le illusioni nell’elettoralismo e nel parlamentarismo, derivanti dal mancato riconoscimento che il vecchio potere statale doveva essere spazzato via, minacciarono ad ogni svolta di far deragliare la rivoluzione. Il ministerialismo e il municipalismo conobbero la loro prova decisiva nel crogiolo di questa grande rivoluzione.

La Rivoluzione bolscevica e l’Internazionale comunista dei primi anni definirono una linea d’opposizione di principio al coalizionismo. I trotskisti difesero questa linea contro il suo rovesciamento da parte del Comintern stalinizzato. (Vedi, ad esempio, il pamphlet di James Burnham del 1937, The People’s Front: The New Betrayal, [Il fronte popolare: il nuovo tradimento]). Ma la questione delle cariche esecutive, non fu risolta in modo chiaro neanche dall’Internazionale comunista rivoluzionaria dei primi anni.

Le lezioni della Rivoluzione bolscevica

Come Trotsky osservò, la Rivoluzione di Febbraio, presentava un paradosso. (Tutte le date che si riferiscono alla Russia del 1917 seguono il vecchio calendario giuliano, che era 13 giorni in ritardo rispetto al calendario moderno). La borghesia russa e i suoi partiti liberali temevano la rivoluzione e cercavano di tenerla lontana. La rivoluzione fu fatta con grande determinazione e coraggio dalle masse che, come nel 1905, costituirono soviet (consigli), che divennero rapidamente i padroni della situazione. Ma questi soviet erano inizialmente dominati dai Socialisti rivoluzionari (Sr) e dai menscevichi piccolo-borghesi, che sposavano l’idea che la rivoluzione in Russia dovesse essere una rivoluzione borghese, e quindi cercavano di consegnare il potere nelle mani dell’impotente Governo provvisorio borghese. Facendo riferimento a questi sostenitori del compromesso, Trotsky scrisse:

“Una rivoluzione è appunto una lotta diretta per la presa del potere. Ma i nostri ‘socialisti’ si preoccupano non di strappare il potere come dicono al nemico di classe, che peraltro non lo detiene e non sarebbe in grado di prenderlo con le proprie forze, ma di consegnargli questo potere a ogni costo. Non è forse un paradosso? E tanto più sembrava sorprendente in quanto l’esperienza della rivoluzione tedesca del 1918 non esisteva ancora e l’umanità non era ancora stata testimone della prodigiosa operazione dello stesso tipo, compiuta con esito ben più felice dal ‘nuovo Terzo Stato’ che dirige la socialdemocrazia tedesca.” (Storia della rivoluzione russa, 1930 – Milano, SugarCo, 1964)

Facendo riferimento a questa situazione di doppio potere, Trotsky spiegava, “la rivoluzione di febbraio aveva portato a un governo borghese, in cui il potere delle classi possidenti era limitato da un potere dei soviet di operai e di soldati non realizzato fino in fondo.” (Storia della rivoluzione russa, op. cit.) (Nella Germania del 1918, i consigli degli operai e dei soldati rimasero sotto la direzione socialdemocratica e furono presto subordinati e liquidati dal governo borghese).

Nella prima settimana dopo la Rivoluzione di Febbraio, il Partito bolscevico aveva perso la sua voce rivoluzionaria. Nel mese di marzo, dopo aver cacciato i bolscevichi più di sinistra dalla redazione della Pravda, Stalin e Kamenev proclamarono nel giornale che i bolscevichi avrebbero sostenuto il governo provvisorio “nella misura in cui questo governo avesse combattuto contro la reazione e la controrivoluzione” e dichiarò: “La nostra parola d’ordine consiste nell’esercitare una pressione sul governo provvisorio per costringerlo … a fare un tentativo per indurre tutti i paesi belligeranti ad aprire immediate trattative … Ma sino a quel momento, ognuno resti al suo posto di combattimento!”(citato in Storia della rivoluzione russa, op. cit.) Tali dichiarazioni fecero infuriare la base del partito bolscevico. Le sezioni del partito reagirono chiedendo l’espulsione dei nuovi redattori della Pravda. Ma i conciliatori, i “bolscevichi di marzo”, rimasero incollati alle loro posizioni, con Stalin, ad esempio, che sosteneva che operai e contadini avevano fatto la rivoluzione e il compito del Governo provvisorio era quello di rafforzare tali conquiste!

Quando Lenin tornò in Russia il 3 aprile 1917, lanciò immediatamente una furiosa battaglia contro i bolscevichi di marzo e i partiti capitolatori della maggioranza del soviet. Lenin spinse una prospettiva volta a convincere gli operai e i contadini a formare un tipo di governo basato sui soviet sul modello della Comune di Parigi. Nel far ciò rinunciò espressamente alla sua concezione precedente che la Rivoluzione russa avrebbe preso la forma di una “dittatura democratica del proletariato e dei contadini.” La conclusione di Lenin coincideva nella pratica con la concezione di Trotsky della rivoluzione permanente: il proletariato russo avrebbe potuto conquistare il potere prima del proletariato occidentale e sarebbe stato costretto a trascendere i compiti democratico borghesi della rivoluzione adottando misure socialiste. Questa congruenza trovò espressione alcuni mesi dopo nella fusione, facilitata da Trotsky tra il Comitato interdistrettuale (Mezhraiontsy), in cui giocava un ruolo influente, e i bolscevichi.

Lenin fu in grado di prevalere nonostante la sua precedente formula analitica errata, centralmente perché il suo punto di vista era in accordo con la tempra rivoluzionaria del proletariato e poiché, per tutta la sua esistenza, il bolscevismo aveva mantenuto una posizione ferma di indipendenza di classe e di inconciliabile opposizione sia al regime zarista che alla borghesia russa. E l’esempio più grafico del ruolo cruciale della direzione del partito in una situazione rivoluzionaria. Se i bolscevichi non fossero stati in grado di attuare questa svolta e allontanarsi dall’essere la sinistra critica dei sostenitori del compromesso, il partito avrebbe potuto farsi sfuggire l’occasione rivoluzionaria, che non si sarebbe ripetuta per un periodo molto lungo.

E’ da questo punto di vista che le esperienze della Rivoluzione russa del 1917 rivestono un grande significato per valutare il ruolo del parlamentarismo, del ministerialismo e del municipalismo e chiariscono la questione delle candidature a cariche esecutive. Il Governo provvisorio crebbe sui resti della vecchia duma zarista. Il grande ministerialista del 1917 fu naturalmente Alexander Kerensky, vice presidente del Comitato esecutivo provvisorio del Soviet di Pietrogrado, che il 2 marzo 1917 con entusiasmo e senza alcuna approvazione formale, accettò l’incarico di ministro della giustizia del governo provvisorio appena formato. Sebbene nessuno dei colleghi di Kerensky nel comitato fosse in quel momento desideroso di seguire le sue orme, il primo maggio la maggioranza del Comitato esecutivo decise (con la sola opposizione dei bolscevichi e dei menscevichi internazionalisti di Julius Martov) di entrare in un governo di coalizione con la borghesia. In questo modo, speravano di poter lavorare per un progressivo scioglimento dei soviet, sostituendoli a livello locale con i nuovi governi municipali (le dume locali) e a livello nazionale con un’assemblea costituente. Il governo di coalizione doveva così rappresentare un ponte verso una repubblica parlamentare borghese. Ma i soviet resistettero.

La risposta bolscevica a questa coalizione di tradimento di classe fu lo slogan “abbasso i dieci ministri capitalisti!” Come spiegò Trotsky, lo slogan chiedeva “che essi fossero sostituiti da menscevichi e socialisti-rivoluzionari. ‘Buttate fuori i cadetti, prendete il potere nelle vostre mani, voi signori democratici borghesi, mettete al governo dodici (o quanti ce ne siano) uomini di Pescechonov [un ministro ‘socialista’], e noi vi promettiamo di deporvi il più ‘pacificamente’ possibile dai vostri posti, quando l’ora verrà. E verrà presto.” (Le lezioni dell’Ottobre, op. cit.) La tattica bolscevica non era volta a prendere il controllo del Governo provvisorio, ma a smascherare i riformisti per il loro rifiuto di prendere il potere in nome della maggioranza dei soviet. I bolscevichi cercavano di mostrare agli operai che questo governo borghese doveva essere spazzato via tra i rifiuti della storia e sostituito con un governo operaio basato sui soviet di operai, contadini e soldati. Questa era, se volete, una concretizzazione dello slogan, “abbasso le cariche esecutive!”

Una parte integrante del riarmo del Partito bolscevico da parte di Lenin nell’aprile 1917 fu una dura battaglia sull’atteggiamento da prendere nei confronti delle elezioni per le dume locali. Mettendo in evidenza il fatto che l’ala rivoluzionaria della Seconda internazionale era stata incapace di affrontare correttamente la questione del municipalismo, L. M. Mikhailov, presidente del Comitato bolscevico di Pietrogrado, citò il Congresso di Parigi del 1900, come la sua autorità a sostegno di un classico programma socialdemocratico di riforme municipali:

“La municipalità, la pubblica amministrazione urbana, è sempre stata considerata ed è considerata dai socialisti di tutte le tendenze e sfumature come ‘l’embrione di una società collettivista.’

E anche se comprendiamo fermamente e ricordiamo che la vittoria di una ‘società collettivista’ si basa sulla ricostruzione dalle fondamenta della totalità del moderno Stato di classe, i socialisti tuttavia dichiararono all’unanimità al Congresso internazionale di Parigi (1900) che i loro sostenitori avevano il compito di lottare per prendere il controllo delle amministrazioni pubbliche locali auto-amministrate, vedendo in ciò ‘un eccellente laboratorio di vita economica decentrata e un forte baluardo politico’.” (Sed’maia (aprel’skaia) vserossiiskaia konferentsia RSDRP (Bol’shevikov), Petrogradskaia obshchegorodskaia konferentsia RSDRP (Bol’shevikov), Protokoly [protocolli della Settima [aprile] conferenza pan russa del Partito operaio socialdemocratico russo [bolscevico], Pietrogrado Conferenza cittadina del Partito operaio socialdemocratico russo [bolscevico] – Mosca, Gozpolitizdat, 1958 [nostra traduzione])

Su questa base Mikhailov argomentò a favore di blocchi elettorali con menscevichi e Sr, subito dopo che questi partiti avevano remissivamente accettato l’impegno del governo provvisorio nei confronti degli alleati imperialisti della Russia di continuare a far la guerra insieme all’Intesa. Lenin rispose denunciando qualsiasi concezione di blocco elettorale con la borghesia o con i difensisti come un tradimento del socialismo. Senza trascurare le questioni immediate, come l’approvvigionamento alimentare, ecc., Lenin insistette sul fatto che la campagna della duma locale doveva essere centrata sullo spiegare agli operai le differenze tra i bolscevichi e la borghesia e i conciliatori menscevichi e Sr su “tutte le questioni politiche più importanti del nostro tempo e, in particolare alle questioni della guerra e dei compiti del proletariato nei confronti del potere centrale” (“Risoluzione sulla questione comunale”, Conferenza cittadina pietrogradese del POSDR (b), 14-22 Aprile 1917).

Come risulta dai commenti di Mikhailov, il conflitto sugli atteggiamenti nei confronti dei consigli comunali era solo una parte del conflitto fondamentale nel partito: i bolscevichi dovevano limitarsi ad essere l’ala sinistra della democrazia o battersi per il potere proletario? Nelle nuove dume di Pietrogrado e Mosca, elette col più largo suffragio, i bolscevichi erano una minoranza piccola ma in crescita. Menscevichi e Sr, in maggioranza sia nelle dume che nei soviet, avevano la posizione che le dume avrebbero dovuto soppiantare i soviet. Ma come spiega Trotsky:

“Le amministrazioni municipali, come in genere tutte le altre istituzioni della democrazia, possono operare solo sulla base di rapporti sociali perfettamente stabili. Cioè di un determinato sistema di proprietà. Ora, la rivoluzione consiste essenzialmente nel rimettere in causa questa base di tutte le basi e la risposta può essere data solo per mezzo di una verifica rivoluzionaria dei rapporti di forza tra le classi. (…) Nella marcia quotidiana della rivoluzione, le amministrazioni comunali trascinavano ancora un’esistenza per metà fittizia. Ma nelle svolte decisive, quando l’intervento delle masse determinava la direzione ulteriore degli avvenimenti, le amministrazioni saltavano, gli elementi che le costituivano si trovavano dalle due parti della barricata. Bastava fare un confronto tra le funzioni parallele dei soviet e delle amministrazioni municipali nel periodo da maggio a ottobre per prevedere con largo anticipo la sorte dell’Assemblea costituente.” (Storia della rivoluzione russa, op. cit.)

Dopo il fallito golpe controrivoluzionario del generale Kornilov nel mese di agosto, per mano dei bolscevichi che avevano guidato la resistenza delle masse, questi divennero maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca. Lenin rispose alla crescita di sostegno ottenuta dai bolscevichi e al crescente disordine sociale, soprattutto tra i contadini, con una serie di scritti, centrati sulla necessità di preparare l’insurrezione. Da parte sua il blocco Kerensky-menscevichi/Sr tentò di frapporre una serie di ostacoli “democratici” all’imminente rivoluzione operaia. Tra questi vi furono, la Conferenza democratica del 14-22 settembre e il successivo pre-parlamento, che aprì il 7 ottobre 1917.

Quegli elementi del Partito bolscevico, che in aprile avevano fatto resistenza alla prospettiva tracciata da Lenin di una presa del potere da parte del proletario, ora facevano resistenza alla sua applicazione. Con Trotsky in carcere e Lenin alla macchia, il 3 settembre il Comitato centrale bolscevico decise di accettare dei posti nell’amministrazione della duma di Pietrogrado, designando persino Anatoly Lunacharsky, capo della frazione parlamentare bolscevica, ad uno dei tre posti di vice sindaco! Nel far ciò, la frazione bolscevica non solo si unì ai partner del governo provvisorio di Kerensky, i Sr e i menscevichi, nel supervisionare l’amministrazione della città, ma si sedette a fianco del vicesindaco borghese cadetto, F.M. Knipovich! Questo nonostante l’infiammata dichiarazione d’apertura dei bolscevichi alla duma, che rinunciava a “qualsiasi forma di collaborazione con i nemici dichiarati della rivoluzione [vale a dire i cadetti] in organi esecutivi di governo della città” (citato in The Bolsheviks and the October Revolution, Minutes of the Central Committee of the Russian Social-Democratic Labour Party [Bolsheviks], August 1917-February 1918 [I bolscevichi e la Rivoluzione d’Ottobre, verbali del Comitato centrale del Partito operaio socialdemocratico [bolscevico], agosto 1917-1918] – Londra, Pluto Press, 1974 [nostra traduzione]).

I conciliatori bolscevichi contribuirono anche a legittimare le chiacchiere del governo provvisorio “democratico”. Ancora latitante, Lenin condannò a posteriori la partecipazione bolscevica alla Conferenza democratica e approvò Trotsky per aver sostenuto il boicottaggio del pre-parlamento. Denunciando il pre-parlamento come “in sostanza, una frode bonapartista”, Lenin metteva in guardia: “E’ incontestabile che nelle ‘sfere superiori’ del nostro partito si manifestano delle esitazioni che possono diventare funeste” nel rovinare la rivoluzione (“Diario di un Pubblicista”, 22-24 settembre 1917).

L’11 ottobre Lunacharsky solidarizzò pubblicamente con la denuncia crumira di Zinoviev e Kamenev dei piani per l’insurrezione e la loro dichiarazione che “L’Assemblea costituente e i soviet, ecco la combinazione di istituzioni statali verso cui ci avviamo” (citato in Storia della Rivoluzione russa). Lenin e Trotsky ebbero la meglio contro i vacillatori e portarono la Rivoluzione d’Ottobre alla vittoria. Ma anche dopo l’insurrezione, gli opportunisti continuarono a portare avanti un’azione di retroguardia. Il 4 novembre Lunacharsky, Zinoviev e Kamenev si dimisero da tutti i loro incarichi dopo che Lenin e Trotsky si rifiutarono di accettare la loro richiesta di un governo “di tutti i socialisti” che includeva i menscevichi e i Sr, un governo che, peraltro, avrebbe escluso Lenin e Trotsky! Così come fece dopo il crumiraggio di Zinoviev e Kamenev, Lenin chiese di nuovo l’espulsione dei capitolatori se questi avessero mantenuto il loro corso. Non avendo trovato alcun sostegno nel partito e nessun menscevico favorevole ad un governo di coalizione, i capitolatori abbandonarono presto la loro linea e Lenin ne suggerì la reintegrazione in posizioni di responsabilità.

Sostegno critico contro ministerialismo

Le caratteristiche fondamentali della Rivoluzione d’Ottobre non erano limitate alla sola Russia, né lo fu il suo impatto. Polarizzò il movimento operaio in tutto il mondo e i rivoluzionari internazionalisti abbracciarono la causa dell’Ottobre battendosi per creare nuovi partiti rivoluzionari sulla base delle sue lezioni. Forti della loro vittoria, i bolscevichi fecero i primi passi per forgiare la nuova Internazionale comunista che Lenin aveva invocato dopo che la Seconda internazionale era sprofondata nel social-patriottismo.

Al suo Primo congresso nel 1919, il Comintern sollevò la bandiera della dittatura del proletariato e delle lezioni di Stato e rivoluzione. Il Secondo congresso un anno più tardi, affrontò tra l’altro, i problemi del parlamentarismo e della tattica elettorale rivoluzionaria. Per passare al setaccio coloro che portavano avanti posizioni riformiste e gli elementi centristi che gravitavano casualmente verso il Comintern, fu imposta una serie di condizioni a tutti i partiti che ne chiedevano l’affiliazione. Sul fronte parlamentare, l’undicesima condizione dichiarava:

“I partiti che desiderino appartenere all’Internazionale comunista hanno il dovere di controllare la composizione delle loro frazioni parlamentari, di scartarne gli elementi titubanti, di sottoporli non a parole ma nei fatti al Comitato centrale del partito, di esigere da ogni deputato comunista, la subordinazione di qualsiasi sua attività ai veri interessi della propaganda rivoluzionaria e dell’agitazione.” (“Condizioni per l’ammissione dei partiti nell’Internazionale comunista” – Roma, Samonà e Savelli 1970)

La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, di Lenin e Terrorismo e comunismo di Trotsky e altre polemiche avevano come scopo tracciare linee programmatiche chiare contro la socialdemocrazia, in particolare contro il centro kautskiano. Allo stesso tempo, Lenin cercò di conquistare gli anarco-sindacalisti e gli elementi dell’ultrasinistra il cui rifiuto del parlamentarismo socialdemocratico, li aveva portati a rinunciare a qualsiasi attività elettorale o parlamentare considerandola riformista. Alla vigilia del Secondo congresso, Lenin scrisse il suo manuale sulle tattiche comuniste, L’“estremismo”, malattia infantile del comunismo (aprile-maggio 1920). Esortò i comunisti ad adottare una posizione di sostegno critico, ad esempio nei confronti del Partito laburista nelle prossime elezioni in Gran Bretagna. Lenin spiegava:

“Che i Clynes, Henderson, MacDonald, Snowden [dirigenti laburisti inglesi] siano irrimediabilmente reazionari è vero. Ed è altrettanto vero che essi vogliono prendere il potere nelle loro mani (preferendo, del resto, una coalizione con la borghesia), che desiderano ‘governare’ secondo le antiche norme borghesi e che, una volta giunti al potere, si comporterebbero inevitabilmente come gli Scheidemann e i Noske. Tutto questo è vero, ma da esso non consegue affatto che appoggiare questi elementi significhi tradire la rivoluzione, ne deriva invece che i rivoluzionari della classe operaia devono, nell’interesse della rivoluzione, concedere un certo sostegno parlamentare a questi signori. (…) Al contrario, dal fatto che la maggioranza degli operai segue ancora i Kerenski e gli Scheidemann inglesi e non ha ancora fatto esperienza di un governo costituito da questa gente, esperienza che si è rivelata indispensabile in Russia e in Germania per il passaggio in massa degli operai al comunismo, da questo fatto risulta indubbiamente che i comunisti inglesi devono prendere parte all’attività parlamentare e dall’interno del parlamento devono aiutare le masse operaie a vedere nella pratica i risultati del governo di Henderson e Snowden, da questo fatto risulta che i comunisti devono aiutare i Henderson e gli Snowden a vincere i Lloyd George e i Churchill coalizzati. Agire in modo diverso significa intralciare la causa della rivoluzione, perché senza un cambiamento delle opinioni della maggioranza della classe operaia la rivoluzione è impossibile, e questo cambiamento è un prodotto dell’esperienza politica delle masse, non è mai il risultato della sola propaganda.” (L’“estremismo” malattia infantile del comunismo)

Lenin insistette in modo categorico sul fatto che i comunisti britannici devono riservarsi

la più completa libertà di agitazione, propaganda e azione politica. Senza quest’ultima condizione è chiaro che non si deve entrare nel blocco, perché sarebbe un tradimento: i comunisti inglesi devono assolutamente rivendicare e conservare la piena libertà di denunciare i Henderson e gli Snowden, così come l’hanno rivendicata e conservata i bolscevichi russi (per quindici anni, dal 1903 al 1917) nei confronti dei Henderson e degli Snowden russi, cioè nei confronti dei menscevichi” (ibid.).

Il succo della tattica di Lenin non era, ovviamente, che i comunisti avrebbero cercato di sostituire la maggioranza laburista al congresso con una maggioranza comunista, al contrario, Lenin insisteva sul fatto che “non è affatto importante per noi il numero dei seggi in parlamento” (ibid.). Piuttosto, tali tattiche aiuterebbero a smascherare gli ostacoli riformisti alla rivoluzione. Per usare le sue parole, “vorrei sostenere Henderson col mio voto, come la corda sostiene l’impiccato, che l’avvicinarsi del momento in cui i Henderson costituiranno un loro governo dimostrerà che io ho ragione, avrà per effetto di spostare le masse dalla mia parte, accelererà la morte politica degli Henderson e degli Snowden” (ibid.). In nessuna parte de L’estremismo Lenin considerò la possibilità per un comunista di occupare una carica esecutiva in un governo borghese, o il suo equivalente funzionale, una maggioranza parlamentare. Come aveva chiarito in una precedente dichiarazione:

“Soltanto dei mascalzoni o dei semplicioni possono credere che il proletariato debba prima conquistare la maggioranza alle elezioni effettuate sotto il giogo della borghesia, sotto il giogo della schiavitù salariata, e poi conquistare il potere. E’ il colmo della stupidità o dell’ipocrisia; ciò vuol dire sostituire alla lotta di classe e alla rivoluzione le elezioni fatte sotto il vecchio regime, sotto il vecchio potere.” (“Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi”, 10 ottobre 1919)

Le tattiche elettorali proposte da Lenin erano completamente congruenti con l’opporsi al presentare candidati per cariche esecutive. In un documento scritto alla vigilia del Secondo congresso, Lenin chiarì che il parlamentarismo rivoluzionario significa solo avere “iscritti al partito che fanno parte delle istituzioni rappresentative borghesi (anzitutto del parlamento, ma anche delle istituzioni rappresentative locali, municipali, ecc.)”. (“Tesi sui compiti fondamentali del Secondo congresso dell’Internazionale comunista”, 4 luglio 1920 [nostra traduzione dall’originale russo del “Resoconto stenografico del Secondo congresso dell’Internazionale comunista” – Partizdat, Mosca, 1934, p. 473. La traduzione nelle “Opere Complete” – Roma, Editori Riuniti, 1966 – riporta erroneamente “amministrazioni locali” anziché “istituzioni rappresentative locali” facendo apparire Lenin come un sostenitore della partecipazione a organi esecutivi borghesi - ndt.] Solamente deputati operai al parlamento: Lenin non si è mai riferito ad amministratori, sindaci, governatori o presidenti del ramo esecutivo, come fossero conquiste dei lavoratori nel campo nemico.

Il Secondo congresso, il municipalismo e i comunisti bulgari

Il progetto di tesi sui “Partiti comunisti e la questione del parlamentarismo” presentato dal Comitato esecutivo dell’Ic (Ceic) per la discussione al Congresso erano in linea con i documenti di Lenin. Non c’era nessun accenno all’assunzione di cariche esecutive, neppure a livello comunale, anzi sostenevano il contrario. Tuttavia, le tesi che furono presentate dalla Commissione sull’attività parlamentare al plenum del Congresso e successivamente adottate, erano state modificate in alcuni aspetti critici. Trotsky, che fu incaricato con Bukharin di far parte della delegazione russa alla Commissione, fu l’autore di una nuova sezione introduttiva storica che sostituiva il progetto iniziale delle tesi. La terza parte delle tesi, originariamente scritta da Zinoviev come documento separato di istruzioni per i deputati parlamentari e rivista dall’Ufficio politico del partito russo prima della sua presentazione, fu adottata senza modifiche sostanziali. Ma nella seconda sezione del documento, redatto originariamente da Bukharin, furono introdotte una serie di modifiche antimarxiste, che ne diluivano l’intento rivoluzionario. Pertanto, i paragrafi 4 e 6 (rinumerati) non respingevano più categoricamente la possibilità per i comunisti di impossessarsi dei parlamenti borghesi, ma piuttosto ammettevano questa possibilità su base temporanea (abbiamo sottolineato le modifiche):

“4) I parlamenti borghesi, tra le organizzazioni principali dell’apparato statale borghese, non possono, in quanto tali, essere conquistati in modo duraturo più di quanto in generale il proletariato non possa conquistare lo Stato borghese. Il compito del proletariato consiste nel far saltare l’apparato statale borghese e nel distruggerlo, comprese le istituzioni parlamentari, siano esse repubblicane o monarchico-costituzionali.

5) Lo stesso vale per le istituzioni municipali della borghesia. E’ teoricamente scorretto contrapporle agli organi statali. In realtà anch’esse sono apparati simili all’apparato statale della borghesia: devono essere distrutte dal proletariato rivoluzionario e sostituite da soviet locali di deputati operai.

6) Il comunismo, dunque, rifiuta il parlamentarismo come forma della società futura. Si rifiuta di vedervi la forma della dittatura di classe del proletariato. Respinge la possibilità di una conquista durevole dei parlamenti; il suo obiettivo è la distruzione del parlamento. Quindi è possibile parlare dell’uso delle istituzioni statali borghesi al solo scopo di distruggerle. E’ in questo senso e unicamente in questo senso che può essere posta la questione.” (“Leitsätze über die Kommunistischen Parteien und den Parlamentarismus” [Tesi sui partiti comunisti e il parlamentarismo], “Die Kommunistische Internationale Band 3” – Erlangen, Buchhandlung und Verlag Politlanden, 1974 [nostra traduzione])

Ancor più significativo è che la Commissione aggiunse una nuova tesi, la 13 che in effetti contraddiceva la tesi 5:

“13) I comunisti, se ottengono la maggioranza nelle municipalità, devono: a) praticare un’opposizione rivoluzionaria nei confronti del potere centrale della borghesia; b) fare tutto il possibile per servire alla parte più povera della popolazione (misure economiche, creazione o tentativo di creazione di una milizia operaia armata, ecc.); c) rivelare in ogni occasione gli ostacoli contrapposti dallo Stato borghese ad ogni cambiamento radicale; d) sviluppare su questa base la più efficace propaganda rivoluzionaria, senza temere il conflitto con il potere statale; e) sostituire, in alcune circostanze, le municipalità con i consigli operai locali. L’azione dei comunisti nelle municipalità deve dunque essere parte dell’opera generale di disgregamento del sistema capitalista.” (ibid.)

Ciò è in netto contrasto con le argomentazioni di Lenin contro il municipalismo, come nella citazione del 1907 già riportata.

Le relazioni stenografiche del Secondo congresso e delle sue commissioni sono notoriamente frammentarie, e non abbiamo trovato alcun verbale dei lavori della Commissione sull’attività parlamentare. Ma il materiale disponibile indica la rilevanza politica degli emendamenti, una concessione alle pratiche municipali che pervadevano il lavoro di alcuni tra i partiti. A questo proposito, è interessante notare che la Commissione ha anche introdotto un emendamento alla tesi 11, aggiungendo il Partito comunista della Bulgaria (Pcb) agli esempi di Karl Liebknecht in Germania e dei bolscevichi come modelli per il lavoro rivoluzionario in parlamento. Solo pochi mesi prima del congresso, il Pcb, che aveva già una significativa frazione parlamentare, aveva ottenuto una splendida vittoria alle elezioni comunali in tutta la Bulgaria. Il Partito socialista francese, la cui domanda di ammissione all’Ic era allora in sospeso, all’epoca controllava anch’esso tra millecinquecento e milleottocento governi locali, il Partito socialista italiano dirigeva anch’esso un notevole numero di comuni.

La relazione principale sul parlamentarismo al Congresso, fatta da Bukharin, non trattò affatto gli emendamenti della Commissione. Questi furono presentati ai delegati, senza commento, in una breve corelazione dal delegato tedesco Wolfstein (Rosi Frölich). La discussione che ne seguì fu dominata da un dibattito con l’estremista italiano Amadeo Bordiga, che fece una relazione di minoranza opponendosi all’attività parlamentare e presentò una serie di tesi contrapposte a nome della frazione comunista-astensionista del Partito socialista italiano. L’intervento di Lenin nel corso della discussione, che consentiva tre oratori a favore e tre contro la risoluzione della maggioranza, si preoccupò esclusivamente degli argomenti di Bordiga.

Solo uno degli oratori a favore della tesi della maggioranza, il bulgaro Nikolai Shablin (Ivan Nedelkov), affrontò la questione del municipalismo. Shablin si vantò:

“In occasione delle elezioni locali del dicembre 1919 ed in quelle di distretto del gennaio 1920, il partito ha ricevuto 140 mila voti, conquistando la maggioranza nei consigli di quasi tutte le città e in circa un centinaio di villaggi. In molti altri consigli di città e villaggio il partito ha delle minoranze significative. Per gli organismi dei consigli locali e distrettuali, il partito ha un programma per l’organizzazione di soviet operai e contadini nelle città e nei villaggi le cui unità individuali, in tempo di rivoluzione, sostituiranno gli organi rappresentativi locali e provinciali e ne assumeranno le funzioni (...) Usiamo le campagne nei comuni comunisti per spiegare alle masse che solo esse, attraverso le loro organizzazioni, possono fare in modo che il governo centrale rispetti le decisioni dei consigli comunali comunisti, su questioni di cibo, alloggio e inflazione e su tutte le altre esigenze immediate del popolo lavoratore.” (“Parliamentarism”, Proceedings and Documents of the Second Congress, 1920 – New York, Pathfinder, 1991 [nostra traduzione])

L’unico delegato a rispondere a Shablin fu lo svizzero Jakob Herzog, il quale mise in dubbio che il lavoro parlamentare del Pcb fosse così cristallino come Shablin pretendeva. Herzog raccontò:

“In Commissione abbiamo avuto una lunga discussione su come i rappresentanti comunisti ai consigli comunali dovrebbero comportarsi, su cosa dovrebbero fare quando sono in maggioranza. Il compagno Bukharin in quella sede ci ha detto, ‘quando hanno la maggioranza, devono cercare di migliorare le condizioni dei lavoratori al fine di aumentare la contraddizione tra il consiglio comunale comunista e lo Stato.’ Questo è esattamente ciò che ci dicono anche gli opportunisti quando vanno in parlamento.” (Ibid.)

Tuttavia Herzog si opponeva ad ogni forma di attività parlamentare e non faceva distinzione tra il controllo di un consiglio comunale, che significa gestire un organo locale dell’apparato statale borghese, e l’essere un oppositore comunista in un organo legislativo borghese. Ma questa distinzione è decisiva. La sezione introduttiva di Trotsky alle Tesi dichiara che un militante comunista in parlamento agisce come un “soldato in ricognizione nelle istituzioni parlamentari borghesi” per conto della classe operaia rivoluzionaria. La tesi 8 nella terza sezione della risoluzione ribadisce che:

“Ogni membro comunista nel parlamento deve essere consapevole del fatto che egli non è un ‘legislatore’ che cerca accordi con altri legislatori, ma è piuttosto un agitatore di partito inviato nel campo del nemico, al fine di portare avanti le decisioni del partito.” (“Tesi sui partiti comunisti e il parlamentarismo”, op. cit.)

Al contrario, funzionare come una maggioranza comunista in un organo legislativo locale o nazionale, si riduce alla stessa cosa che esercitare una carica esecutiva: significa controllare il bilancio e l‘amministrazione. La questione di prendere il controllo di tali organismi dev’essere affrontata esplicitamente e bisogna essere contrari a farlo.

Nel suo intervento al Congresso, Shablin stesso accennò al problema dei comunisti che amministrano governi locali. Egli affermò che il programma del Pcb era quello di sostituire tali organismi con soviet al “momento della rivoluzione”. Fino a quel momento, tuttavia, i comunisti bulgari si sarebbero trovati a gestire questi enti locali e ad assumersi la responsabilità di mantenere l’ordine e di razionare le scarse risorse nel quadro del dominio di classe capitalista. Inoltre, Shablin falsificò la pratica reale del Pcb. Il partito bulgaro non stava organizzando soviet per sostituire le amministrazioni comunali borghesi, ma piuttosto mirava a trasformare organicamente quelle amministrazioni in soviet al momento della rivoluzione. Il fondatore del Pcb Dimitar Blagoev lo disse chiaro e tondo quando nel 1919 scrisse che:

“Conquistare le municipalità può essere l’inizio del sistema di potere sovietico (…) La lotta per prendere il potere municipale e in particolare la lotta che il nostro partito dovrà condurre per rafforzare il potere del proletariato e delle classi più povere, ovunque guidiamo le municipalità, questa lotta sarà in essenza per la diffusione del potere sovietico (Pc), per il sistema del potere sovietico nel suo complesso.” (Citato in Tsonev G. e A. Vladimirov, Sentiabr’skoe vosstanie v Bolgarii 1923 Goda [L’insurrezione del settembre 1923 in Bulgaria] – Mosca, Gosizdat, 1934 [nostra traduzione])

I comunisti bulgari non erano socialisti municipali del tipo dell’americano Victor Berger. Il Pcb era un partito rivoluzionario, che si era visto risucchiare nel vuoto lasciato dal collasso della Bulgaria dopo la Prima guerra mondiale ed era stato spinto al potere da un’esplosione di entusiasmo popolare a sostegno della Rivoluzione russa. Precursori del Pcb furono i Tesnyaki, il Partito socialdemocratico del lavoro bulgaro (ristretto) di Blagoev, che aveva subito un’intensa persecuzione per essersi opposto alle guerre balcaniche del 1912-13 e alla Prima guerra mondiale e per aver votato contro i crediti di guerra in parlamento. Il Pcb non prese incarichi comunali per svendere il socialismo, ma per cercare di realizzarlo nelle migliori tradizioni della vecchia socialdemocrazia e del poco che sapevano di bolscevismo. Le contraddizioni tra i suoi obiettivi e la sua posizione di gestione dell’apparato statale borghese a livello locale, non poteva durare e non durò.

Pur identificandosi con il bolscevismo, il Pcb si trascinava dietro molto del bagaglio socialdemocratico dell’ala sinistra della Seconda internazionale. Lenin espresse profonda preoccupazione per la politica astensionista del partito nel corso della ribellione di Radomir nel settembre 1918, un vasto ammutinamento dei soldati contadini dell’esercito bulgaro. Alla vigilia di questa ribellione i soldati avevano già cominciato a formare soviet, ispirandosi direttamente alla Rivoluzione bolscevica. La base dei Tesnyaki si unì a ben 15 mila soldati ribelli in tre giorni di acuta battaglia, decisi a rovesciare lo zar Ferdinando. Ma il partito si oppose ad un qualsiasi intervento organizzato nella rivolta, che contribuì a catapultare al potere il leader dell’Unione contadina Alexander Stamboliski. Il Pcb non ascoltò le critiche di Lenin, e Blagoev in seguito difese il rifiuto del partito di cercare di guidare la rivolta verso la rivoluzione proletaria. Il rifiuto del Pcb di intervenire nella ribellione di Radomir rifletteva, in larga misura, la sua tradizionale ostilità ai contadini.

Il partito era cresciuto rapidamente durante la guerra e gli sconvolgimenti del dopoguerra, anche se questo significò l’adesione di un gran numero di elementi grezzi, che per lo più non erano operai industriali. Inoltre il Pcb sviluppò una vasta rete di case editrici, cooperative e altre imprese, creando allo stesso tempo un enorme apparato parlamentare e governativo. Nel 1922 oltre tremilaseicento comunisti sedevano in consigli comunali, altri centoquindici servivano a livello provinciale, e quasi millecinquecento nelle direzioni scolastiche. Una percentuale importante dei 38 mila membri del Pcb.

L’esperienza bulgara dimostrò di nuovo che il controllo del governo municipale borghese era contrapposto alla lotta per il potere sovietico. Quando la borghesia fu finalmente in grado di “ristabilizzare” il paese nel sanguinoso golpe di Tsankov contro il governo a base contadina di Stamboliski nel giugno 1923, il Pcb fu cacciato dalle sue “comuni municipali”. Invece di prepararsi ad azioni di fronte unico con le forze dell’Unione dei contadini contro la minaccia di golpe di destra, sulla base di mobilitazioni comuniste indipendenti di operai e contadini, il Pcb andò da un estremo all’altro: all’avvicinarsi del golpe chiese confidenzialmente al governo di dargli delle armi, ma rifiutò di opporsi al golpe quando questo ebbe luogo.

Nel periodo successivo, il Pcb si imbarcò in una serie di azioni militari avventuriste, compresa un’insurrezione abortita nel settembre 1923, che non fece altro che aumentare la repressione borghese. Il partito che fino ad allora era stato considerato come un modello fu distrutto dal terrore bianco del 1923-25. Shablin fu uno degli almeno cinquemila comunisti che pagarono con la vita la fallimentare politica del Pcb.

Gli zig-zag della direzione dell’Ic sotto Zinoviev, spinsero da una parte il partito bulgaro sulla strada dell’avventurismo, mentre dall’altra si formava l’Internazionale contadina rossa, il Krestintern e si sosteneva la formazione di partiti “operai e contadini” borghesi in tutto il mondo. In quel periodo l’Ic non era più il partito rivoluzionario internazionale che era stato all’epoca dei suoi primi quattro congressi. A partire dal 1923-24 il partito sovietico e l’Ic subirono un processo di degenerazione burocratica qualitativa. Questo fu codificato politicamente alla fine del 1924, quando Stalin promulgò il dogma anti-internazionalista del “socialismo in un solo paese”.

L’Ic e il municipalismo: un’eredità problematica

Il Secondo congresso partì da una visione corretta sul municipalismo, ma si chiuse modificandola in un contraddittorio rattoppo di concezioni che in embrione autorizzavano il ministerialismo. Nel constatare il fatto che il Secondo congresso non seppe risolvere questa questione, non si deve dimenticare che si trattò a tutti gli effetti del primo vero congresso operativo dell’Ic e che vi erano molte altre questioni da affrontare, tra cui i criteri per l’ammissione al Comintern, le questioni nazionale e coloniale, la questione sindacale, ecc. Inoltre il congresso si riunì al culmine della guerra con la Polonia e della controffensiva dell’Armata Rossa contro Pilsudski e i suoi protettori imperialisti francesi. Se le forze sovietiche fossero riuscite a conquistare Varsavia avrebbero aperto un ponte diretto verso il potente proletariato tedesco. Una vittoria dell’Armata Rossa a Varsavia avrebbe scosso dalle fondamenta l’Europa di Versailles e forse avrebbe trasformato l’incendio rivoluzionario del 1920 in una conflagrazione in tutt’Europa. In questo caso la questione della partecipazione alle amministrazioni municipali sarebbe stata posta direttamente nel contesto di una lotta per il potere proletario, come nel 1917.

Mentre il Secondo congresso toccò la questione delle cariche esecutive solo implicitamente, la questione fu posta esplicitamente nel movimento comunista americano. A differenza del sistema parlamentare europeo quello presidenziale americano distingueva chiaramente cariche legislative ed esecutive. Questa distinzione non apparve affatto nel dibattito sul parlamentarismo al Secondo congresso, benché un membro del Partito comunista d’America (Pca), il russo Alexander Stoklitsky, fosse stato assegnato alla Commissione sull’attività parlamentare. Nel corso della sua conferenza di fondazione nel 1919, il Pca aveva adottato una posizione corretta contraria a candidarsi a cariche esecutive. Quando una parte di questo partito si staccò per fondersi con il Partito comunista del lavoro, nel maggio 1920, per fondare il Partito comunista unito (Pcu), la stessa posizione, sostenuta da C. E. Ruthenberg, passò in dote al nuovo partito. La conferenza di fondazione del Pcu sostenne che: “Le candidature a cariche pubbliche e la partecipazione alle elezioni devono limitarsi agli organi legislativi, come il congresso nazionale, legislature statali e consigli comunali” (UCP Program, ristampato in Revolutionary Radicalism, Lusk Commission Report to New York State Senate, 24 April 1920 [nostra traduzione]).

Nel dibattito alla conferenza del Pcu, la posizione fu controversa: una tendenza sosteneva la posizione di cui sopra, mentre una seconda si opponeva a tutte le attività elettorali e una terza sosteneva la possibilità di candidarsi a tutte le cariche. Un resoconto dell’epoca riportava: “Gli oppositori alle elezioni esecutive hanno sostenuto che l’elezione dei comunisti a cariche di governatore, sindaco, e sceriffo li corromperebbe e sarebbe dannosa per il movimento; che non abbiamo diritto di addossarci responsabilità per lo Stato borghese” (The Communist, 1 settembre 1920). Tuttavia questi argomenti corretti si legavano ad un’insistenza estremista nel programma del Pcu sul fatto che i rappresentanti comunisti negli organi legislativi “non introdurranno né sosterranno riforme.” Sulla scia della lotta contro l’estremismo al Secondo congresso, il movimento comunista americano lasciò cadere la contrapposizione tra il candidarsi a cariche esecutive e il candidarsi a cariche legislative. Nel 1921 i comunisti candidarono Ben Gitlow a sindaco di New York. L’anno successivo, un documento dell’Ic per la Convenzione comunista americana dell’agosto 1922 insisteva “I comunisti devono partecipare da rivoluzionari in tutte le campagne elettorali generali, municipali, statali e congressuali, così come alle presidenziali” (“Next Tasks of the Communist Party in America”, in Reds in America – New York City, Beckwith Press, 1924 [nostra traduzione]). Nel 1924 il partito americano candidò William Z. Foster alle presidenziali degli Stati Uniti.

La mancanza di chiarezza sulle questioni interconnesse delle cariche esecutive e delle amministrazioni locali doveva tornare ad affliggere il Comintern e i suoi partiti, come si vede negli stessi scritti di Trotsky. Il 2 dicembre 1922, al Quarto congresso Trotsky scrisse una sua risoluzione sulla Francia, che mescolava “sindaci e affini” a “parlamentari, consiglieri comunali e consiglieri generali comunisti”, sostenendo che anche i primi sarebbero potuti diventare “uno strumento della lotta rivoluzionaria di massa” (“Resolution of the Fourth World Congress on the French Question” [Risoluzione del Quarto congresso mondiale sulla questione francese], The First Five Years of the Communist International, [I primi cinque anni dell’Internazionale comunista] – New York, Monade Press, 1972 [nostra traduzione]). Nell’introduzione a I primi cinque anni scritta nel maggio del 1924, Trotsky accolse favorevolmente la conquista di tali cariche da parte del Pc francese: “Il fatto che il nostro partito abbia ricevuto circa 900 mila voti rappresenta un importante successo, soprattutto se si considera la rapida crescita della nostra influenza nei sobborghi parigini.” L’“influenza” del Pc francese nei sobborghi era cresciuta al punto che il partito amministrava un buon numero di municipalità.

Va inoltre osservato che Trotsky non cambiò il suo punto di vista sulla questione. In un articolo del 1939 (non pubblicato all’epoca), scrisse:

“La partecipazione dei sindacati alla gestione dell’industria nazionalizzata può essere paragonata alla partecipazione dei socialisti nei governi municipali, in cui i socialisti talvolta conquistano la maggioranza e sono costretti a dirigere un’importante economia comunale, mentre la borghesia ancora domina lo Stato e le leggi borghesi sulla proprietà restano in vigore. I riformisti nelle municipalità si adeguano passivamente al regime borghese. I rivoluzionari in questo campo fanno tutto il possibile negli interessi dei lavoratori e al tempo stesso insegnano ad ogni passo ai lavoratori che la politica municipale è impotente senza la conquista del potere statale.

La differenza, certamente, è che in materia di governo municipale i lavoratori conquistano certe posizioni per mezzo di elezioni democratiche, mentre nel settore dell’industria nazionalizzata il governo stesso li invita ad occupare determinate cariche. Ma è una differenza puramente formale. In entrambi i casi, la borghesia è costretta a cedere ai lavoratori certe sfere di attività. I lavoratori le utilizzano nei propri interessi.”

(“Nationalized Industry and Workers’ Management”, 12 maggio 1939 [nostra traduzione])

Che Trotsky potesse fare riferimento al Pcf nel contesto del suo controllo delle municipalità come “privo di qualsiasi tipo di obblighi politici nei confronti del regime borghese” nel 1924, e che suggerisca una formulazione parallela sulle municipalità nel 1938 non significa accusarlo di riformismo municipale, ma significa riconoscere che abbiamo ereditato un problema irrisolto di strategia comunista.

Nella relazione introduttiva alla discussione sulla questione delle cariche esecutive alla Quinta conferenza della Lci nel 2007, abbiamo notato:

“La posizione che i comunisti non dovrebbero candidarsi in nessuna circostanza a cariche esecutive dello Stato borghese, è un’estensione della nostra storica critica all’ingresso del Partito comunista tedesco (Kpd) nei governi regionali della Sassonia e della Turingia nell’ottobre 1923, che fu appoggiato dal Comintern. Il sostegno del Kpd a questi governi borghesi guidati dalla ‘sinistra’ socialdemocratica, prima dall’esterno e poi come parte del governo, contribuì a far deragliare una situazione rivoluzionaria (vedi “A Trotskyist Critique of Germany 1923 and the Comintern”, Spartacist n. 56, primavera 2001).” (Spartacist n. 60, autunno 2007 – Alcuni estratti sulle cariche esecutive sono stati riprodotti insieme all’articolo del 1923 sulla Germania, nel pamphlet della Lci: The Development and Extention of Leon Trotsky’s Theory of Permanent Revolution, aprile 2008)

L’ingresso del Kpd in questi governi fu preparato dalla difettosa e confusa risoluzione sui “governi operai”, adottata dal Quarto congresso dell’Ic meno di un anno prima. La risoluzione confondeva l’appello ad un governo operaio, che per i rivoluzionari non è che l’espressione della dittatura del proletariato, con ogni sorta di governi socialdemocratici che amministrano l’apparato statale borghese e lasciava ai comunisti la possibilità di partecipare a governi di coalizione con i socialdemocratici. Pur lottando per una prospettiva rivoluzionaria in Germania nel 1923 e insistendo affinché il Kpd facesse preparativi concreti e fissasse una data per l’insurrezione (come aveva fatto Lenin nel mese di settembre e ottobre del 1917), Trotsky sostenne erroneamente la politica del Kpd di entrare nei governi di Sassonia e Turingia, sostenendo che si trattava di una “piazza d’armi” per la rivoluzione. Ma se si fosse trattato davvero di “governi operai”, come era stato detto alle masse, allora la lotta rivoluzionaria extraparlamentare e la formazione di consigli e milizie operaie sarebbe stata totalmente superflua. Alla fine il Kpd e la direzione dell’Ic sotto Zinoviev si fecero sfuggire un’opportunità rivoluzionaria. La successiva demoralizzazione del proletariato sovietico fu un fattore decisivo che consentì alla burocrazia stalinista di usurpare il potere politico.

Dopo la sconfitta tedesca del 1923, Trotsky iniziò una valutazione delle ragioni politiche del fallimento. In Lezioni d’Ottobre (1924), uno scritto implicitamente autocritico, Trotsky paragonò la lotta con cui Lenin nel 1917 riuscì a superare le resistenze di Kamenev, Zinoviev e Stalin, che indietreggiarono quando si pose la questione del potere, alla politica capitolatrice che prevalse in Germania nell’ottobre del 1923. Trotsky successivamente rilevò la necessità di una revisione più sistematica e approfondita dell’intervento dell’Ic e del Kpd negli avvenimenti tedeschi del 1923. Ma non criticò mai esplicitamente l’ingresso del Kpd nei governi di Turingia e Sassonia, né la difettosa risoluzione sui governi operai del Quarto congresso.

A corollario del suo sostegno all’amministrazione comunista di governi locali Trotsky accettò la pratica di candidare comunisti a cariche esecutive. Oltre alle numerose campagne per il ruolo di sindaco, il Pc francese partecipò alle elezioni presidenziali del 1924. In Germania, il Kpd candidò Ernst Thälmann alla presidenza nel 1925 e di nuovo nel 1932. Trotsky lottò affinché il Kpd si impegnasse in fronti unici con i socialdemocratici e mobilitasse milizie operaie per schiacciare i nazisti e aprire la strada ad una lotta diretta per il potere degli operai guidati dai comunisti. Era questo il compito urgente del momento, mentre la campagna elettorale del Kpd del 1932, con la sua stridula caratterizzazione da Terzo periodo dei socialdemocratici come “socialfascisti”, non fu altro che un rumoroso diversivo per mascherare il rifiuto di svolgere questo compito. Trotsky smascherò il fallimento della linea “socialfascista” degli stalinisti, ma menzionò solo di passaggio la campagna elettorale del Kpd, senza criticarli per la campagna per le presidenziali.

Nel 1940, Trotsky ventilò esplicitamente la possibilità che il Socialist Workers Party (Swp) negli Stati Uniti presentasse un candidato alla presidenza contro il democratico Franklin D. Roosevelt (“Discussions with Trotsky”, 12-15 giugno 1940). Quando i dirigenti del Swp scartarono l’ipotesi per motivi pratici, Trotsky sollevò la possibilità di lottare affinché fosse il movimento operaio a lanciare una candidatura indipendente contro Roosevelt. Propose anche la possibilità di dare un sostegno critico al candidato del Pc, Earl Browder, che si presentava in opposizione a Roosevelt e alla guerra imperialista. Durante le discussioni, Trotsky spiegò la sua preoccupazione che il Swp non si stesse adattando alla burocrazia sindacale “progressista” pro-Roosevelt. Ciò che è evidente da queste discussioni è che né Trotsky, né i dirigenti del Swp consideravano controversa per principio la questione di candidarsi alla presidenza. A partire dal 1948, quando presentò un candidato contro il Partito progressista borghese dell’ex vicepresidente di F. D. Roosevelt, Henry Wallace, sostenuto dagli stalinisti, il Swp presentò regolarmente candidati alle elezioni presidenziali.

La proposta di Trotsky per quanto riguarda la candidatura Browder era assolutamente giusta. A seguito del patto di Stalin con Hitler dell’agosto 1939, gli stalinisti americani avevano fatto una temporanea svolta a sinistra, trasformandosi da ardenti sostenitori del “New Deal” di F. D. Roosevelt in oppositori dell‘imperialismo americano. Sarebbero poi tornati a sostenere Roosevelt in nome della “lotta contro il fascismo” dopo che Hitler invase l’Unione Sovietica nel giugno 1941. Gli argomenti di Trotsky a favore del sostegno critico a Browder erano volti a sfruttare la temporanea postura antimperialista del Pc per smascherare il partito di fronte alla sua base nella classe operaia.

La Lega comunista internazionale, opponendosi alle candidature a cariche esecutive, non esclude la possibilità di dare sostegno critico ad altre organizzazioni operaie in casi appropriati quando queste tracciano una grossolana linea di classe. Quando un’organizzazione leninista dà sostegno elettorale critico a un avversario, chiaramente non è perché pensiamo che applicheranno i nostri stessi principi. Altrimenti non si potrebbe mai dare sostegno elettorale critico a un partito riformista di massa, perché nel momento in cui vincesse le elezioni cercherebbe inevitabilmente di formare un governo, cioè di amministrare il capitalismo. In effetti questo argomento è un aspetto polemico essenziale del nostro sostegno critico. Il punto in questi casi è quello di dimostrare che, nonostante le pretese di tali partiti di rappresentare gli interessi dei lavoratori, in pratica essi tradiscono questi interessi.

Il loro retaggio e il nostro

Un elemento necessario a mantenere la nostra continuità rivoluzionaria è l’assimilazione critica delle lezioni delle lotte passate nel movimento internazionale dei lavoratori. Nella nostra lotta per riforgiare la Quarta internazionale di Trotsky, fondata nel 1938 sui cadaveri politici della Seconda internazionale e del Comintern stalinizzato, noi ci basiamo sui primi quattro congressi dell’Internazionale comunista. Ma non siamo acritici dell’Ic delle origini e sin dai primi anni di esistenza della nostra tendenza abbiamo espresso riserve sulle risoluzioni del Quarto congresso sul “fronte unico antimperialista” e sul “governo operaio”.

Al contrario, i nostri avversari politici svuotano o respingono i principi della Rivoluzione d’Ottobre e i fondamenti programmatici dell’Internazionale comunista di Lenin e Trotsky selezionando ad arte le “tradizioni” che forniscono una parvenza di autorità storica ai loro obiettivi opportunisti. E’ il caso del Gruppo internazionalista e della Tendenza bolscevica, i cui cavilli a difesa della candidatura a cariche esecutive nello Stato borghese hanno molto più in comune con l’ala kautskiana della Seconda internazionale che con il bolscevismo di Lenin. Per quanto riguarda i riformisti, i fratelli maggiori dell’Ig e della Bt, malgrado i riferimenti occasionali al trotskismo, la loro tradizione è quella dei Millerand e dei MacDonald.

La finta angoscia dell’Ig e della Bt di fronte al presunto dilemma che si pone quando i comunisti conquistano una posizione esecutiva o una maggioranza in una legislatura borghese, rivela un impulso completamente opportunista. Nel suo resoconto molto favorevole del consiglio comunale di Poplar gestito dalla sinistra laburista nella Gran Bretagna del 1920, la storica Noreen Branson pone la stessa domanda: “Che cosa fare quando si ottiene la maggioranza? Fino a che punto l’attuale quadro giuridico e amministrativo consente di favorire i cambiamenti che si vogliono realizzare?” (Branson, Poplarism, 1919-1925 – London, Lawrence e Wishart, 1979 [nostra traduzione]). Citando la domanda di Branson, un articolo del 1982 sul municipalismo dell’allora gruppo centrista britannico Workers Power, che si è poi scisso in due organizzazioni riformiste contrapposte, risponde citando la tesi 13 del Secondo congresso dell’Ic (“The Struggle in Poplar 1919-21: Communism vs. Municipalism”, Workers Power, maggio 1982)!

L’articolo di Wp si entusiasma per la combattività dimostrata da questo Consiglio guidato dai laburisti, che comprendeva due comunisti, Edgar e Minnie Lansbury, nel quartiere povero e operaio dell’East End londinese. Questo gli serve a promuovere quello che definiscono l’“atteggiamento dei rivoluzionari verso la lotta municipale”. L’incapacità dell’Ic di conquistare gli elementi del movimento rivoluzionario britannico inclini al sindacalismo, durante e dopo il Secondo congresso, fece abortire il comunismo britannico, che cadde sotto il controllo di elementi che si trovavano a loro agio nell’ambiente del parlamentarismo laburista (vedi “British Communism Aborted”, Spartacist n. 36-37, inverno 1985-86). I due consiglieri comunisti erano in pratica politicamente indistinguibili dal resto della maggioranza laburista del Consiglio, guidata dal pacifista cristiano George Lansbury, il padre di Edgar. Questo in un momento in cui la Gran Bretagna era in preda ad un intenso fermento sociale. Al culmine dell’attività del Consiglio di Poplar, nel 1920, il paese fu percorso da scioperi e manifestazioni che dicevano “giù le mani dalla Russia” e si opponevano alle spedizioni di armi britanniche alla Polonia di Pilsudski. I consigli di azione sorti durante questa campagna puntavano verso la creazione di organi di doppio potere.

Quando il compito impellente è quello di espropriare e riorganizzare i mezzi di produzione sotto il potere proletario, i riformisti si limitano a gingillarsi con il sistema di distribuzione. I consiglieri di Poplar, anche per gli standard dell’epoca, erano senz’altro più combattivi dei classici politicanti laburisti, ed erano disposti a finire in galera e ad organizzare manifestazioni di massa per le loro idee. Ma il loro potere e il loro orizzonte politico si limitavano al razionamento delle magre risorse disponibili, all’aumento dei sussidi a poveri e disoccupati e all’aumento temporaneo dei miseri salari dei dipendenti comunali. Come spiegò George Lansbury, “Bisogna dare ai lavoratori la prova tangibile che l’amministrazione laburista è diversa dall’amministrazione capitalista. In poche parole questo significa spostare la ricchezza dai contribuenti ricchi ai poveri” (citato in Branson, Poplarism). In realtà, il controllo dei consigli comunali nei quartieri operai fu decisivo per consentire al Partito laburista di fare il salto necessario a diventare partito di governo nazionale per la prima volta nel 1924. Quando il re visitò l’East End nel 1921, i neoeletti consiglieri di Poplar lo salutarono con la scritta: “Il consiglio della municipalità si aspetta che oggi il re faccia il suo dovere e inviti il governo di Sua Maestà a trovare lavoro o di provvedere al sostentamento dei disoccupati della nazione” (ibid.)!

Sessant’anni dopo, quando la tendenza Militant pseudo trotskista guidata da Ted Grant e Peter Taaffe (che successivamente si scissero per formare organizzazioni separate) prese il controllo del Consiglio comunale laburista della città di Liverpool ormai deindustrializzata, non provò nemmeno ad imitare il pacifista cristiano Lansbury e i suoi. A un certo punto, questi “trotskisti” amministratori del governo locale capitalista hanno minacciato di licenziare tutti gli operai comunali della città, più di trentamila lavoratori, sostenendo che si trattava di una “tattica” per far fronte al deficit di bilancio imposto dal governo conservatore della Thatcher. Non abbiamo prova però che abbiano presentato una petizione alla regina Elisabetta II.

L’amministrazione locale è storicamente servita come mezzo per integrare i partiti della classe operaia nell’ordine borghese. Non solo in Gran Bretagna, ma anche in Francia, in Italia e altrove. Un’articolo su “I comunisti italiani e gli Stati Uniti” notava che “il controllo che i comunisti esercitavano su governi regionali e locali (…) fu molto importante per rafforzare la tendenza che esisteva nel Pci verso un riformismo pragmatico” (New York Review of Books, 11 maggio 2006). Candidarsi ad assumere una carica esecutiva a qualsiasi livello non è un trampolino di lancio verso la mobilitazione rivoluzionaria delle masse lavoratrici, ma serve a rafforzare le illusioni predominanti nella possibilità di riformare lo Stato capitalista. Serve a rafforzare le catene che legano il proletariato al nemico di classe.

Invece un partito operaio marxista cercherebbe effettivamente di conquistare qualche seggio negli organi legislativi borghesi, che i deputati del partito userebbero per proporre leggi esemplari, come fecero i bolscevichi nella duma zarista condannando l’antisemitismo e i pogrom, “non progettate per essere adottate dalla maggioranza borghese, ma ai fini di propaganda, agitazione, e organizzazione” ( “Tesi sui partiti comunisti e il parlamentarismo”, op. cit.). Un partito marxista userebbe le posizioni parlamentari come “basi ausiliarie per l’attività rivoluzionaria” (ibid.). Ad esempio, negli Usa e in Giappone i deputati comunisti potrebbero proporre una legge per l’abolizione della pena di morte e partecipare “in prima fila” a manifestazioni e scioperi operai.

Per i comunisti, candidarsi a cariche elettive non è un semplice sforzo di propaganda politica o un’opportunità per mettersi in mostra, come credono le organizzazioni come l’Internationalist Group. Nei periodi di relativa stabilità, quando non temono che il loro dominio di classe sia messo in discussione, le borghesie delle “democrazie” imperialiste possono tollerare che i rivoluzionari si candidino ad alcune cariche, per rafforzare le illusioni che il governo rappresenti “la volontà popolare”. O possono anche non tollerarlo: lo testimonia il fatto che durante la “paura rossa” che fece seguito alla Prima guerra mondiale, cinque socialisti eletti dai loro quartieri nel novembre 1919 per l’Assemblea dello Stato di New York, furono rimossi solo per la loro appartenenza al Partito socialista. In paesi semicoloniali, dove le istituzioni democratiche sono molto più fragili e le masse vivono sotto il giogo dello sfruttamento imperialista, le campagne elettorali spesso implicano scontri mortali con le forze dello Stato borghese e i teppisti di destra. E’ una presa in giro domandare tempo e sangue agli sfruttati già orribilmente oppressi e terrorizzati, per un candidato ad una carica esecutiva che dichiara in partenza che una volta eletto rinuncerà alla carica.

Tutto questo serve a sottolineare che la questione dello Stato è una questione di vita o di morte per un partito operaio rivoluzionario. E’ la questione della rivoluzione. Nell’adottare la nostra posizione contraria a candidarci alle cariche esecutive dello Stato borghese e nel rivedere in modo critico le politiche e le pratiche ereditate dai nostri predecessori, noi cerchiamo di illuminare il divario politico tra la Lci e tutti gli opportunisti che pretendono falsamente di essere marxisti e di rappresentare gli interessi storici della classe operaia. Il nostro compito non è altro che organizzare, formare e temprare i partiti proletari d’avanguardia, sezioni di una riforgiata Quarta internazionale, necessari per la presa del potere statale e la realizzazione del potere operaio in tutto il mondo.

Tradotto da Spartacist edizione inglese n. 61, primavera 2009.

 

Spartaco N. 71

Spartaco 71

Aprile 2009

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Riformismo, collaborazione di classe e protezionismo incatenano gli operai ai capitalisti.

La crisi capitalista sconvolge la vita della classe operaia.

La classe operaia deve prendere il potere!

Per un’economia socialista pianificata!

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Abbasso le cariche esecutive dello Stato capitalista!

Principi marxisti e tattiche elettorali

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Dichiarazione della Lega comunista internazionale

Abbasso la Nato!

Per gli Stati uniti socialisti d’Europa!

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Karl Marx aveva ragione.

I padroni fanno pagare agli operai la crisi economica del capitalismo.

Lotta di classe contro i capitalisti!

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Difendere lo Stato operaio deformato Cinese!

Cina: “socialismo di mercato” e crisi economica globale

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Difendere il popolo palestinese!

Fuori Israele dai Territori occupati!

Bagno di sangue sionista a

Per una federazione socialista del Medio Oriente!

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Il caso Englaro: moderna inquisizione

Per la separazione tra Stato e Chiesa!

(Donne e Rivoluzione)