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Spartaco n. 71

Aprile 2009

Karl Marx aveva ragione.

I padroni fanno pagare agli operai la crisi economica del capitalismo.

Lotta di classe contro i capitalisti!

Riproduciamo di seguito una versione adattata di una presentazione fatta da Joseph Seymour, del Comitato centrale della Spartacist League/U.S., ad una riunione del Comitato esecutivo internazionale della Lega comunista internazionale.

Una volta un banchiere olandese disse che la situazione della Borsa di Londra dava l’impressione che “tutti i pazzi fossero scappati assieme dal manicomio”. Succedeva quasi tre secoli fa, all’epoca di quello che si ricorda come lo scoppio della bolla azionaria della South Sea. Da allora non è cambiato molto.

L’attuale catastrofe finanziaria internazionale e la grave flessione economica sono iniziate e si concentrano negli Stati Uniti. Perciò voglio cominciare collocando la crisi nel più ampio contesto storico del declino del capitalismo americano, che si protrae da parecchi decenni. Innanzitutto però è utile considerare la natura della coscienza di classe della borghesia, specialmente di quella americana. La borghesia non è una classe collettivista. I capitalisti, nella loro attività pratica o nella scelta di appoggiare determinate politiche governative, sono guidati dall’interesse personale immediato, non da qualche concezione astratta e lungimirante degli interessi complessivi della loro classe. Certo, il reddito e la ricchezza dei singoli capitalisti derivano dall’insieme del plusvalore generato dallo sfruttamento del lavoro. Ma nella loro vita di ogni giorno i capitalisti, specialmente i finanzieri, sono guidati principalmente dalla spinta ad arricchirsi a spese di altri capitalisti.

Ultimamente ho letto “Traders, Guns & Money: Knowns and Unknowns in the Dazzling World of Derivatives” (2006) [Commercianti, armi e denaro: cose risapute e incognite dell’abbagliante mondo dei derivati], un libro scritto da un veterano del commercio dei derivati, Satyajit Das. E’ una lettura divertente e interessante. Ad un certo punto, Das lavorava per una banca d’investimenti, che cercava di conquistare come cliente un manager giapponese del settore dei fondi pensione:

“Da anni la banca continuava a corteggiarlo inutilmente. Poi si scoprì che il manager aveva un punto debole: una preferenza quasi da stereotipo per le donne bionde, snelle, molto alte e con gli occhi azzurri. La banca suppose che non dovevano essere per forza giapponesi. L’ufficio del personale intraprese una ricerca globale con risultati ammirevoli. La banca trovò proprio lo stereotipo di donna scandinava che doveva occuparsi del manager dei fondi. Non ridete: si chiamava Ulrika. Era intelligente, simpatica ed efficiente, ma c’era un problema: non sapeva niente di derivati. Proveniva dal settore dei cosmetici. La banca la assunse ugualmente ritenendo, come avvenne, che al manager non interessassero troppo le sue derivate”.

Leggendo questo libro con gli occhi di un marxista, mi ha colpito il fatto che non accenni assolutamente mai alla divisione del prodotto sociale tra salari e profitti, o in senso più ampio, al plusvalore, compresa la rendita e gli interessi. Tutto il libro si concentra sulla spartizione del plusvalore tra capitalisti finanziari e non finanziari e tra gruppi di capitalisti finanziari rivali. Dimostra che in gran parte i capitalisti sono dediti a fregarsi il più possibile a vicenda. I settori politicamente decisivi della borghesia sono disposti a subordinare i propri interessi personali immediati a quelli che considerano gli interessi generali a lungo termine della loro classe, solo quando si sentono abbastanza minacciati dal basso, dalla classe operaia, o da Stati stranieri ostili. Quando non avviene, vivono nel mondo di Hobbes: tutti contro tutti.

La fine dell’egemonia americana nel secondo dopoguerra

Con questo in mente, cerchiamo di schematizzare la storia dell’economia capitalista americana nel dopoguerra. Nei primi vent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, gli Usa dominarono il mercato mondiale dei prodotti industriali. Mantenevano forti disavanzi commerciali con quasi tutti gli altri paesi capitalisti. Tuttavia già alla metà degli anni Sessanta, la Germania occidentale e il Giappone avevano ricostruito e modernizzato le proprie economie tanto da poter effettivamente competere con gli Usa sui mercati mondiali e sul mercato interno americano. In questo modo, la portata dei flussi commerciali si ribaltò. Adesso erano gli Usa che sperimentavano grossi deficit nella bilancia commerciale.

Nel giro di pochi anni, questo ribaltamento distrusse il sistema monetario internazionale istituito alla conferenza di Bretton Woods, nel New Hampshire, nel 1944, basato sul cosiddetto “gold-dollar exchange standard”, in base al quale le valute dei principali paesi capitalisti furono fissate reciprocamente per lunghi periodi ed ancorate al dollaro. Washington promise (e sottolineo “promise”) agli altri governi che avrebbero potuto convertire liberamente in oro tutti i dollari che avevano, ad un tasso di 35 dollari l’oncia.

Ma già nei primi anni Settanta in pratica non era più possibile. Il volume di dollari posseduti dalle banche centrali straniere superava di molto la base aurea americana valutata a 35 dollari l’oncia. Il governo francese di Charles de Gaulle, che mal sopportava il predominio americano nel mondo e sperava di poter ristabilire la grandeur francese, iniziò a convertire in oro i suoi dollari. Così, nell’agosto del 1971, il presidente americano Richard Nixon chiuse la “finestra aurea”, ponendo fine alla convertibilità del dollaro in una merce universale dotata di valore (lavoro) intrinseco. Dopo qualche inutile conferenza internazionale, quello che emerse fu un non-sistema basato su tassi di cambio fluttuanti. Da allora i tassi di cambio delle valute sono stati stabiliti dalle condizioni di mercato con qualche modifica indotta da occasionali interventi governativi. La ragione per cui mi soffermo su questo punto è che il regime di tassi di cambio fluttuanti ebbe due conseguenze a lungo termine, che sono alla base dell’attuale crisi finanziaria.

Primo: introdusse un importante elemento d’incertezza, di rischio di incorrere in perdite, in tutte le transazioni finanziarie internazionali, specialmente quelle a lungo termine. In questo modo i tassi di cambio delle valute divennero un’importante sfera di speculazione finanziaria. Gran parte del libro di Das sul commercio dei derivati discute le tecniche di hedging [tecniche applicate dai gestori per la copertura dei rischi conseguenti alle oscillazioni dei tassi d’interesse e dei cambi] e le speculazioni sulle variazioni dei tassi di cambio.

Secondo: spezzando il legame tra dollaro e oro, il capitalismo americano, sia a livello delle imprese che del governo, ha potuto aumentare enormemente il suo debito estero, il cui unico limite era rappresentato dalla disponibilità dei governi e degli investitori stranieri ad acquistare attività denominate in dollari. Oggi il dollaro vale venti centesimi rispetto al 1971. Questo aspetto dell’attuale crisi mondiale è stato recentemente evidenziato da un articolo di Richard Duncan sul Financial Times di Londra (24 novembre 2008):

“Quando nel 1971 Richard Nixon, dalla Tesoreria, distrusse il sistema monetario internazionale di Bretton Woods, chiudendo la ‘finestra aurea’, spezzò l’ultimo legame tra dollaro ed oro. Ne seguì una proliferazione pazzesca di strumenti creditizi sempre più spuri, denominati in una valuta priva di base. L’esempio più lampante e letale di questa follia è stata la crescita del mercato dei derivati, privo di regole, che si è gonfiato fino a 600.000 miliardi di dollari, l’equivalente di quasi 100.000 dollari per ogni singolo abitante del pianeta.”

Aumento del tasso di sfruttamento

Nel 1974-75 vi fu un’importante, drastica flessione dell’economia mondiale. Nonostante la sua brevità essa ebbe importanti conseguenze specialmente negli Stati Uniti. Dopo la caduta economica, la classe capitalista americana fece uno sforzo concertato di aumentare il tasso di sfruttamento del proletariato, il rapporto cioé tra plusvalore e salari. Pretesero ed ottennero dalla burocrazia sindacale dei contratti peggiorativi e l’introduzione di gabbie salariali. Spostarono la produzione dal Nordovest e dal Midwest, dove la manodopera era sindacalizzata, nel Sud degli Stati Uniti e nei paesi dell’America latina e dell’Asia dove non esistevano sindacati. Quest’offensiva antioperaia, iniziata sotto il presidente democratico di destra Jimmy Carter, si accrebbe ulteriormente sotto il presidente repubblicano, ancor più di destra, Ronald Reagan. Fu simboleggiata dalla sconfitta dello sciopero dei controllori aerei del Patco, nel 1981, e dalla successiva guerra ai sindacati durante lo sciopero di Greyhound ed altri scioperi. All’epoca sotto-lineammo l’esigenza che il movimento operaio combattesse l’offensiva capitalista, specialmente nell’articolo “Gli operai devono giocare duro per vincere” (Workers Vanguard n. 349, 2 marzo 1984). Quello che abbiamo detto in “Giocare duro”, che gli operai non possono rispettare le regole dei padroni, è altrettanto valido oggi per il movimento operaio americano.

Qui voglio sottolineare un aspetto dell’offensiva antioperaia della prima metà degli anni Ottanta, che all’epoca non era così evidente. L’ascesa del monetarismo e della teoria e della pratica della “deregulation”, sia nell’America di Reagan che nell’Inghilterra della Thatcher, si basava in parte ed era condizionata dall’indebolimento del movimento operaio. In Inghilterra, il rapporto di forza tra le classi si spostò decisamente a destra con la sconfitta dello sciopero dei minatori del 1984-85. Nella sua ultima nota sull’impatto dell’attuale crisi economica in Gran Bretagna, la compagna McDonald ha sottolineato che il governo Thatcher introdusse la “deregulation” della City di Londra nel 1986. Non è un caso che in Inghilterra il capitale finanziario speculativo abbia avuto mano libera proprio dopo la sconfitta dello sciopero dei minatori.

Negli Usa, negli anni Ottanta, in quello che i liberali usano chiamare il “decennio dell’avidità”, si verificò un’enorme redistribuzione dei redditi a favore dei più ricchi, combinata con una vasta espansione del debito estero. L’amministrazione Reagan tagliò le tasse ai ricchi e al contempo aumentò enormemente le spese militari nella sua escalation della Seconda guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Per finanziare il debito statale, una buona fetta dei nuovi buoni del tesoro venne venduta all’estero, specialmente al Giappone. Nel giro di due o tre anni, gli Stati Uniti si trasformarono dal più grande creditore mondiale al più grande debitore.

La redistribuzione verso l’alto del reddito e il crescente indebitamento con l’estero degli Usa erano organicamente legati alla deindustrializzazione dell’America. Vaste aree del Midwest si trasformarono nella cosiddetta rust belt, la cintura della ruggine. A metà anni Sessanta, le manifatture producevano il 27 percento del Pil degli Stati Uniti e impiegavano il 24 percento della forza lavoro. All’inizio dei Duemila, il peso delle manifatture si era ridotto al 14 percento della produzione totale ed impiegava solo l’11 percento della manodopera.

I salari orari reali per i lavori non di supervisione raggiunsero il massimo all’inizio degli anni Settanta. Nei trentacinque anni successivi, i compensi reali per unità di lavoro sono stati inferiori. I salari reali orari netti si sono avvicinati o hanno superato i livelli dei primi anni Settanta solo occasionalmente e per brevi periodi, ad esempio durante l’ultima fase del boom economico degli anni Novanta. Negli ultimi decenni, le famiglie operaie hanno potuto ottenere aumenti di reddito solo nei casi in cui marito e moglie lavoravano a tempo pieno, facendo molti straordinari e spesso il doppio lavoro (quando c’era).

Tuttavia, all’inizio degli anni 2000 questi mezzi estensivi di aumento del reddito familiare erano praticamente esauriti. Contemporaneamente i lavoratori si sono trovati di fronte ad un drastico aumento delle spese di base, dalla casa (sia per acquisto che per affitto), alle cure mediche, alle spese per far studiare i figli. Perciò hanno fatto ricorso ad un crescente indebitamento. Al momento della crisi attuale, all’inizio del 2007, il debito medio per nucleo familiare superava del 30 percento il reddito annuo disponibile. Questo era reso possibile soprattutto dal fatto che le famiglie prendevano denaro a prestito a fronte del valore delle loro case, “avvantaggiandosi”, per così dire, dalla crescita della bolla dei prezzi immobiliari.

La bolla delle Dot-Com e dell’edilizia

Per comprendere la bolla dei prezzi immobiliari nella prima metà del decennio attuale, dobbiamo fare un passo indietro e guardare alla bolla delle cosiddette dot-com nella seconda metà degli anni Novanta. Quello fu un classico ciclo di crescita e crollo, come quelli descritti da Marx nel Capitale. La rapida crescita degli investimenti in nuove tecnologie, in questo caso nell’informatizzazione, nei servizi di internet e nelle telecomunicazioni, fece aumentare quella che Marx chiamava la composizione organica del capitale. Si tratta del valore dei mezzi di produzione (il tempo di lavoro che inglobano) che sono necessari ad utilizzare la manodopera viva. Gli economisti borghesi lo chiamano capitale per operaio. L’aumento della composizione organica del capitale abbatte i tassi di profitto. Anche se la produttività cresce e i salari non crescono, l’aumento del profitto per operaio non recupera l’aumento del capitale per operaio.

Questa dinamica si vide chiaramente durante il boom degli anni Novanta nel settore delle telecomunicazioni, un pilastro della new economy o della “rivoluzione informatica”. Il ritorno sul capitale per le società di telecomunicazioni diminuì stabilmente dal 12,5 percento nel 1996 all’8,5 percento nel 2000. All’epoca Blake Bath, un analista di Wall Street, descrisse a suo modo la legge dalla caduta tendenziale del saggio di profitto nel settore delle telecomunicazioni: “Sembra che nel settore ci sia un eccesso di capitalizzazione. Le spese sono cresciute a livelli assurdamente veloci rispetto ai profitti prodotti dalle spese stesse” (Businessweek, 25 settembre 2000). Come scrisse Marx nel terzo volume del Capitale “La vera barriera alla produzione capitalista è il capitale stesso” (sottolineature originali).

Nel 2000-01, il boom delle dot-com si trasformò in un crollo, generando una recessione. Nel tentativo di attenuare l’impatto della contrazione economica, Alan Greenspan, il capo della Federal Reserve (la banca centrale americana), sommerse di denaro i mercati finanziari. La Fed tagliò i tassi d’interesse sui prestiti a breve termine applicati dalle banche affiliate dal 6,5 percento fino all’1 percento nel 2003, che allora era il tasso più basso degli ultimi cinquant’anni. Per gran parte di questo periodo, il cosiddetto tasso sui fondi federali fu inferiore all’inflazione. In pratica, il governo regalava denaro ai finanzieri di Wall Street. Alla fine del 2004, l’Economist di Londra avvertì che la “politica di denaro facile ha superato i confini” dell’America e “si è riversata sui prezzi delle azioni e delle case in tutto il mondo, scatenando una serie di bolle sui prezzi di vari beni”.

Al centro dell’attuale crisi vi è una categoria di strumenti finanziari noti come derivati. Il primo livello tradizionale di titoli d'investimento finanziari, le azioni e le obbligazioni delle aziende, conferiscono in senso formale, legale, la titolarità su delle merci che, come prodotti del lavoro, incorporano sia un valore d'uso che un valore di scambio. I derivati si basano, o sono comunque legati, ai titoli d'investimento primari. Un esempio tipico e importante sono i credit default swap. Da un punto di vista formale (e sottolineo “formale”), si tratta di una specie di polizza assicurativa contro la possibilità del fallimento delle obbligazioni emesse da una società. Però si può acquistare un'assicurazione contro i fallimenti creditizi anche se non si posseggono obbligazioni di una determinata società. In questo caso, si tratta di una forma di speculazione sulla possibilità che quella società fallisca. Immaginate che 20 persone possiedano polizze assicurative sullo stesso edificio, ma che 19 di loro non possiedono l'edificio. Ecco, benvenuti nel mondo dei derivati. In aggiunta si può speculare anche sulle variazioni di prezzo di un corporate default swap, tramite quelle che si chiamano opzioni di put o di call.

Il punto fondamentale è che è stata costruita una montagna di derivati basati su altri derivati che si basavano su altri derivati ancora. Per quantificare: nel 2005, sommando il valore nominale di mercato di tutti i derivati del mondo, si arrivava ad una cifra che era il triplo dei titoli primari su cui questi formalmente si basavano. Per capire l'estrema gravità dell'attuale crisi finanziaria, bisogna comprendere le dimensioni colossali di quello che Marx chiamava “capitale fittizio” generato negli ultimi decenni. All'inizio degli anni Ottanta, la somma del valore di mercato nominale di tutte le azioni e obbligazioni delle aziende e dei titoli di Stato di tutto il mondo, equivaleva circa al prodotto annuale di merci e servizi, quello che gli economisti borghesi chiamano prodotto interno lordo globale. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che, ripetendo l’operazione nel 2005, il valore dei soli titoli d'investimento primari era quattro volte superiore al prodotto interno lordo globale. Aggiungendo i derivati, il livello di rischio dei sistemi finanziari si moltiplicava.

Charles R. Morris, giornalista finanziario con spirito critico, ha spiegato come è stato messo in piedi questo Everest di “ricchezza” cartacea di dubbio valore:

“Come è possibile che il rapporto d’indebitamento sia cresciuto così tanto? Nella classe di strumenti di cui parliamo, i 'nomi' che vengono scambiati a fondo e le società su cui si basano, sono relativamente pochi, alcune centinaia al massimo. E relativamente pochi sono gli istituti, vale a dire le banche mondiali, le banche d'investimenti e i credit hedge funds, che partecipano agli scambi. In pratica hanno costruito un'enorme castello di carte di debiti, continuando a venderseli a vicenda e intascando continuamente profitti. In pratica è la definizione di uno schema di Ponzi. Finché il regime di credito senza interessi impediva i fallimenti, il castello traballava senza mai cadere. Ma un minimo cedimento in una parte qualsiasi del castello poteva farlo crollare, e le piccole scosse sismiche che continuiamo a sentire fanno presagire grossi problemi” (sottolineature originali). “The Trillion Dollar Meltdown: Easy Money, High Rollers, and the Great Credit Crash” (2008) [Il crollo da mille miliardi di dollari: soldi facili, celebrità e il grande crollo del credito].

Crollando, il castello del debito trascina con sé i prezzi di tutti i beni finanziari diversi dai titoli di Stato dei governi del “Primo mondo”. Ma anch’essi potrebbero fare presto la stessa fine.

L’impatto su Europa occidentale e Giappone

La crisi finanziaria ha esacerbato di molto le tensioni e i conflitti d'interesse tra gli imperialisti in quella che sempre più sta diventando la Disunione europea. I vari piani di salvataggio nazionali hanno fatto crescere la competizione finanziaria all'interno dell'Ue. I flussi di denaro speculativi a breve termine si riversano in quei paesi, come è inizialmente avvenuto in Irlanda, in cui le politiche del governo sembrano mettere al sicuro le banche e le altre istituzioni finanziarie. Per poi fuggirne quando altri governi sembrano offrire dei pacchetti di salvataggio più generosi.

Assistiamo anche alla crescente frattura tra i due principali paesi dell'Ue e dell’Eurozona, Francia e Germania. Il borioso presidente francese Sarkozy, che la sorte ha portato alla “presidenza” rotante dell'Unione proprio nella seconda metà del 2008, si è presentato come il salvatore del capitalismo mondiale. Ha promosso ambiziosi piani di regolamentazione finanziaria e di “stimolo” economico a scala europea e internazionale. Inutile dirlo, le arie di Sarkozy non gli hanno conquistato la simpatia dei governanti degli altri Stati imperialisti.

In particolare la classe dominante tedesca, rappresentata dal governo di coalizione tra democristiani e social-democratici, ha respinto al mittente tutti i piani del francese. Niente marchi, per gli sperperi e le idee strampalate dei loro “partner” europei. Più in generale, quelli che comandano a Berlino hanno insistito che tocca agli altri paesi (cioé agli Stati Uniti) mettere a posto la loro economia in modo da aiutare anche la Germania. Nelle parole del ministro dell'economia tedesco Michael Glos: “Possiamo solo sperare che le misure prese dagli altri paesi... aiutino le nostre esportazioni” (Financial Times, 1 dicembre 2008). Aspetta e spera, Herr ministro!

La stampa finanziaria americana non ha prestato sufficiente attenzione al Giappone, che è un attore molto importante nell'economia internazionale. Il Giappone è la seconda economia del mondo. Cosa ancor più importante, è la più grande nazione creditrice al mondo. Anche se di recente la Cina ha superato il Giappone in quanto principale possessore di titoli di Stato americani, il Giappone possiede una quantità di gran lunga maggiore di debiti privati da parte di aziende in tutto il mondo.

Nel 1989-90, il Giappone ha visto lo scoppio di una bolla immobiliare e borsistica, che ha portato ad un decennio di stagnazione, ribattezzato il “decennio perduto”. Le autorità monetarie ridussero praticamente a zero i tassi d'interesse per stimolare gli investimenti. Una scelta che però ottenne risultati ben diversi da quelli che si riproponevano le autorità. L'enorme fardello di capacità industriale eccedente e di “prestiti bancari non performanti”, scoraggiò ulteriori investimenti all’interno del Giappone stesso. Viceversa i finanzieri giapponesi e gli investitori internazionali presero a prestito i soldi a buon mercato in Giappone per investirli in altri paesi dove per varie ragioni il tasso di ritorno era maggiore. Nella stampa internazionale questo fenomeno prese il nome di “tratta dello yen”.

La tratta dello yen adesso funziona in direzione opposta. Gli investitori vendono attività in tutto il mondo, a prezzi sempre più bassi, per ripagare i debiti verso banche e istituti giapponesi. Ma è un cane che si morde la coda. Perché riversandosi in Giappone il denaro fa crescere il valore dello yen rispetto alle valute di tutti gli altri paesi in cui i debitori avevano investito e di conseguenza l'entità reale del debito rimanente e delle rate future. Immaginate di svuotare una vasca in cui, ad ogni secchio che buttate fuori, ne rientra uno e mezzo da un tubo nascosto. E’ la situazione in cui si trovano gli investitori stranieri e giapponesi che per più di dieci anni hanno sfruttato la tratta dello yen.

Contemporaneamente, la rivalutazione dello yen sta facendo aumentare i prezzi delle merci giapponesi sui mercati mondiali proprio nel momento in cui la domanda globale sta rapidamente declinando. Il cuore del capitalismo industriale giapponese sta subendo un duro colpo. Per la prima volta in settant’anni, quest’anno la Toyota prevede perdite nel settore automobilistico. La Sony ha annunciato il licenziamento del 5 percento della manodopera nella divisione elettronica e la chiusura di sei fabbriche in tutto il mondo.

La crisi globale scuote l'economia “socialista di mercato” della Cina

Che dire della Cina, che non è un paese capitalista, ma uno Stato operaio burocraticamente deformato? Durante la crisi dell'Asia orientale nel 1997-98, la Cina riuscì ad evitare l'impatto della crisi aumentando fortemente gli investimenti in costruzioni e infrastrutture industriali. Adesso il regime stalinista di Pechino cerca di replicare quella stessa politica. All'inizio di novembre ha annunciato un grosso pacchetto di stimolo (l'equivalente di 585 miliardi di dollari), basato sull'espansione delle infrastrutture (strade, ferrovie, aeroporti, porti ecc.). In seguito però è stato riportato che la cifra reale era molto inferiore a quella annunciata. Solo un quarto dei fondi arriverà dal governo centrale. Gli altri tre quarti dovrebbero arrivare da organismi governativi locali e banche di Stato, istituzioni che però dispongono di risorse finanziarie molto più limitate. Stephen Green, un economista della Standard Chartered Bank di Shanghai, ha commentato in questo senso che “Con la caduta delle entrate, è difficile immaginare come faranno i governi locali, le banche e le aziende a trovare i restanti 4.000 miliardi di Rmb” (Financial Times, 15-16 novembre 2008).

Ho discusso l'impatto della crisi mondiale in Cina con il compagno Markin. Entrambi pensiamo che questa volta, a differenza della fine degli anni Novanta, l'economia cinese non ne verrà fuori illesa. Tanto per cominciare non si tratta di una crisi regionale, ma globale. Ed ha come epicentro gli Usa e l'Europa occidentale. Tutto sembra indicare che sarà molto grave e abbastanza lunga. Una conseguenza è che tutto questo aumenta le probabilità di un protezionismo anti-cinese negli Usa e in Europa occidentale.

Vedremo e stiamo già vedendo il lato negativo e la rigidità di quella che gli stalinisti cinesi chiamano l'economia “socialista di mercato”. In Cina ci sono decine di migliaia di fabbriche che impiegano decine di milioni di operai, di proprietà di imprenditori locali, di capitalisti cinesi emigrati ad Hong Kong e Taiwan, e di aziende straniere che producono merci designate specificamente per i paesi capitalisti avanzati, come giocattoli, lettori cd e navigatori satellitari. Queste fabbriche non possono cambiare in fretta e facilmente produzione, ad esempio mettersi a produrre articoli domestici per le famiglie di operai e contadini cinesi. E questo anche se l'Esercito di liberazione popolare sorvolasse con gli elicotteri i quartieri operai e i villaggi gettando mazzi di banconote.

Peraltro il regime di Pechino ha incoraggiato una versione domestica di bolla speculativa immobiliare e un boom nelle costruzioni residenziali. Nelle città, la piccola borghesia cinese, numerosa e sempre più ricca, gli yuppies, ha preso denaro a prestito per comprare, costruire e ristrutturare abitazioni non solo per abitarci ma come investimento. Si aspettavano che il prezzo di mercato delle case continuasse a salire. Invece la bolla immobiliare è scoppiata. In un quartiere ricco di Pechino, il prezzo d'acquisto degli appartamenti nuovi è caduto del 40 percento tra febbraio e ottobre dello scorso anno. Il London Economist (25 ottobre 2008) ha commentato: “Il mercato immobiliare sferra un duro colpo alla nuova classe media cinese”. Non è che ci stiano così a cuore le sofferenze degli yuppies cinesi. Ma ci preoccupa molto l'effetto del collasso della bolla immobiliare sulla nostra classe, il proletariato. Questo ha avuto un effetto deprimente sull'industria edilizia residenziale, dove la manodopera è costituita in gran parte da operai immigrati dalle campagne.

Il lato positivo è che la Cina, a differenza di quasi tutti i paesi capitalisti, non entrerà in recessione. Ma è probabile che vada incontro ad una brusca contrazione del suo tasso di crescita, che negli ultimi vent'anni è stato in media del 10 percento. Di conseguenza, ci sarà un forte aumento del numero di disoccupati nelle città, sia di operai licenziati dal settore privato, sia di contadini emigrati in città che non riusciranno a trovare lavoro. Stando alle cifre ufficiali, alla fine di novembre dieci milioni di lavoratori immigrati avevano già perso il proprio posto di lavoro in città. Queste difficoltà economiche sono destinate ad aumentare l'agitazione sociale. Ci sono già state rabbiose proteste di operai licenziati nel delta del fiume delle Perle, la principale area manifatturiera cinese di prodotti leggeri per i mercati del Primo mondo. Quello che non sappiamo e non possiamo sapere è se l'aumento delle agitazioni operaie destabilizzerà la situazione politica. Questo va al di là della nostra conoscenza attuale.

Revival del keynesismo

Cosa potrebbe succedere? Tutto sembra indicare che si tratti di una crisi economica mondiale eccezionalmente lunga e grave, specialmente pesante negli Usa e in Inghilterra. Sul piano ideologico e in minore misura su quello politico, vedremo e abbiamo già visto uno spostamento da destra a sinistra dello spettro politico borghese: politiche fiscali basate su crescenti deficit di bilancio, parziale nazionalizzazione di banche e altri istituti finanziari, tentativi di estendere e irrigidire la regolamentazione delle transazioni finanziarie.

Il compagno Robertson ed altri hanno osservato che, come dottrina, il monetarismo è completamente discreditato mentre è tornato di moda il keynesismo. Ho visto più riferimenti positivi a John Maynard Keynes nella stampa finanziaria anglofona nelle ultime sei settimane di quanti non ne abbia visti negli ultimi dieci anni. Il compagno Blythe ha fatto notare che in America è profondamente radicato il mito liberale secondo cui il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, basandosi sulle dottrine di Keynes, abbia fatto uscire gli Usa dalla Grande depressione degli anni Trenta. No, quello che ha fatto uscire gli Usa dalla depressione è stata l'espansione delle “opere pubbliche” durante la Seconda guerra mondiale, dove per “opere pubbliche” si intendono carriarmati, aerei da guerra, portaerei e bombe atomiche.

Abbiamo già scritto sul keynesismo in passato, purtroppo in un passato abbastanza lontano, nella storia della nostra tendenza. In particolare suggerisco di leggere tre pezzi. All'inizio degli anni Sessanta, Shane Mage, uno dei fondatori della nostra tendenza, scrisse una tesi di dottorato intitolata “La 'Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto': il suo posto nel sistema teorico di Marx e la sua rilevanza nell'economia Usa” (Columbia University, 1963). Tra parentesi il suo tutore era Alexander Ehrlich, l'autore di The Soviet Industrialization Debate 1924-1928 [Il dibattito sull'industralizzazione sovietica nel 1924-1928]. L'opera di Mage contiene un capitolo che spiega la differenza tra la concezione di Keynes e quella di Marx della causa fondamentale delle crisi economiche. Durante la crisi economica mondiale del 1974-75, io scrissi un pezzo intitolato “Marx contro Keynes” (Workers Vanguard n. 64, 14 marzo 1975), in parte teorico e in parte empirico. Infine, nel 1997-98, Workers Vanguard pubblicò una serie di cinque articoli raccolti sotto il titolo di “Wall Street e la guerra contro i lavoratori”. La terza parte, “Il New Deal degli anni Trenta e il riformismo operaio” (Workers Vanguard n. 679, 28 novembre 1997), contiene un'analisi di Keynes a livello teorico, assieme ad un'analisi empirica degli Usa negli anni Trenta, della reale politica del New Deal e degli sviluppi economici durante la Seconda guerra mondiale.

Voglio finire con un paio di punti su come la situazione attuale è molto diversa dagli anni Trenta. Come ho già detto, la situazione attuale è molto diversa per il mero volume di debiti nominali, vincolati da contratti, che non possono essere ripagati, un volume che supera di molto, di vari ordini di grandezza, le risorse finanziarie dei governi capitalisti. Inghilterra e Italia hanno già avuto difficoltà a finanziare l'aumento del deficit di bilancio dovuto ai loro piani di salvataggio. Il Financial Times (1 dicembre 2008) ha citato le parole di Roger Brown, un analista finanziario della banca svizzera UBS: “I governi sono già in difficoltà, cosa che non promette bene subito dopo la ricapitalizzazione [delle banche] e l'annuncio della necessità di ulteriori finanziamenti. Dobbiamo chiederci se ci saranno abbastanza investitori disposti a comprare i titoli, o almeno se questo spingerà i ritorni abbastanza in alto da attirarli”. Perciò tutti questi piani di salvataggio potranno al massimo compensare una piccola frazione delle perdite.

Il secondo è che gli Usa entrano in questa profonda crisi con un enorme fardello di debiti, in gran parte verso governi e investitori in Asia orientale. E questo limita fortemente la possibilità di finanziare le spese con un aumento del deficit. Nel suo primo discorso dopo le elezioni, Barack Obama ha cercato di moderare e non di incoraggiare le aspettative che gli Usa ritornino rapidamente alla “prosperità”: “L'ho già detto e lo ripeto: non sarà rapido e non sarà facile uscire dalla buca in cui ci troviamo”. Così parlò il nuovo capo del più potente paese capitalista del mondo.

Allora qual è la soluzione? La soluzione, lo sappiamo, è allo stesso tempo semplice e radicale. La classe operaia deve sottrarre ai capitalisti le risorse produttive della società: fabbriche, sistemi di trasporto, generazione dell'energia elettrica e istituire un'economia pianificata, che usi queste risorse nell'interesse della classe operaia e dell'intera società. Ma per farlo, serve un partito politico che rappresenti gli interessi della classe operaia in contrapposizione alla classe capitalista. Negli Usa, un partito di questo tipo si batterebbe anche negli interessi delle minoranze oppresse, di neri e latinos, per i diritti degli immigrati e di tutti i settori oppressi della società. Per costruirlo gli operai devono rompere soprattutto col Partito democratico, che è il partito più liberale, o almeno semi-liberale, del capitalismo americano. Bisogna anche cacciare l'attuale burocrazia sindacale filocapitalista e sostituirla con una direzione che lotti negli interessi degli operai e, lo ripeto, di tutti gli oppressi. Solo allora sarà possibile realizzare il principio fondamentale che chi lavora deve governare.

Spartaco N. 71

Spartaco 71

Aprile 2009

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Per un’economia socialista pianificata!

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Principi marxisti e tattiche elettorali

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Abbasso la Nato!

Per gli Stati uniti socialisti d’Europa!

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Karl Marx aveva ragione.

I padroni fanno pagare agli operai la crisi economica del capitalismo.

Lotta di classe contro i capitalisti!

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Difendere lo Stato operaio deformato Cinese!

Cina: “socialismo di mercato” e crisi economica globale

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Difendere il popolo palestinese!

Fuori Israele dai Territori occupati!

Bagno di sangue sionista a

Per una federazione socialista del Medio Oriente!

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Il caso Englaro: moderna inquisizione

Per la separazione tra Stato e Chiesa!

(Donne e Rivoluzione)