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Spartaco n. 71

Aprile 2009

Riformismo, collaborazione di classe e protezionismo incatenano gli operai ai capitalisti.

La crisi capitalista sconvolge la vita della classe operaia.

La classe operaia deve prendere il potere!

Per un’economia socialista pianificata!

La recessione continua ogni giorno ad approfondirsi, trascinando con sé le vite di milioni di lavoratori. Nei primi due mesi dell’anno in Italia hanno perso il lavoro più di 370 mila persone e decine di migliaia sono in cassa integrazione con stipendi da 750 euro: e questa è solo la punta di un iceberg fatto di lavoratori precari i cui contratti vengono cancellati nel silenzio (tre milioni di persone, il cui contratto scadrà, al massimo, entro l'anno sono a rischio). L’International Labor Organization ha annunciato che nel 2009 sono a rischio tra 20 e 50 milioni di posti di lavoro a livello mondiale, con la conseguenza che più di 100 milioni di persone si aggiungeranno all’esercito degli affamati che vivono con meno di due dollari al giorno.

I governi capitalisti hanno trovato centinaia di miliardi da versare nei forzieri delle banche in crisi e nei pacchetti di salvataggio per le industrie: soldi che fanno aumentare l’indebitamento statale e che dovranno essere ripagati con gli interessi dai lavoratori per decenni a venire. Ai lavoratori invece vorrebbero imporre ulteriori peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro. Così negli Stati Uniti, il piano di rilancio del presidente Obama impone ai sindacati dell’automobile di accettare quasi un dimezzamento dei salari, mentre in Italia, alle bastonate fisiche della polizia agli operai di Pomigliano e dell’Innse di Milano si sono aggiunte quelle politiche del governo con i pesanti tagli al sistema scolastico (130 mila posti di lavoro e 8 miliardi di euro), la proposta di innalzare l’età pensionabile delle donne a 65 anni o l’accordo della Confindustria con Cisl, Uil e Ugl per scavalcare la contrattazione collettiva, ecc.

Cosciente che la crisi economica inasprirà i conflitti sociali, il governo ha istruito polizia e carabinieri ad aumentare la repressione contro tutte le potenziali opposizioni sociali. In più, il governo vorrebbe mettere la mordacchia ai lavoratori introducendo ulteriori misure antisciopero, inizialmente per alcuni settori, che si andrebbero a sommare alle leggi repressive introdotte dal governo D’Alema nel 2001. Secondo il progetto di legge del ministro Sacconi lo sciopero nei trasporti sarebbe subordinato a referendum preventivo per i sindacati che non rappresentano il 50% dei lavoratori, la comunicazione preventiva dell’adesione individuale allo sciopero (schedatura) e lo sciopero “virtuale” dove si continua a lavorare ma si perde la retribuzione che è destinata a fini sociali. Specialmente in questo momento in cui è in gioco la sussistenza stessa di vasti settori del proletariato, bisogna mobilitare la forza sociale della classe operaia in una dura lotta di classe, che non stia a guardare alle “regole” imposte dai padroni, ma agli interessi vitali dei lavoratori. Respingere gli attacchi al diritto di sciopero!

A differenza dei ciarlatani riformisti, con le loro illusorie ricette per “uscire dalla crisi”, noi marxisti sappiamo che non vi è altra soluzione alle periodiche fasi di distruzione di ricchezze e di merci (inclusa la merce costituita dalla forza lavoro), né via d’uscita dalla miseria in cui sprofondano masse di milioni di uomini e donne, se non la lotta del proletariato che conduca ad una rivoluzione proletaria per mettere fine all’irrazionalità del sistema di produzione capitalista. Scrivendo dopo la Grande depressione, il trotskista americano Shachtman in The fight for socialism (prima di diventare definitivamente un tirapiedi dell’imperialismo Usa), spiegò che:

“Il periodo della crisi mostra nel modo più crudo quanto logoro e reazionario sia il sistema sociale capitalista. Mostra lo spettacolo (e cos’altro potrebbe fare? E’ la sua natura!) di milioni di persone che vogliono lavorare e sono senza lavoro, milioni di persone che non possono mangiare abbastanza perché c’è troppo cibo, di interi settori industriali completamente fermi proprio nel momento in cui c’è il massimo bisogno dei loro prodotti. Le conseguenze della produzione per il profitto, della produzione anarchica, disorganizzata, priva di un piano, si mostrano in tutto il loro orrore. (…) Vediamo il sistema in tutta la sua oscena assurdità di grande distruttore della ricchezza sociale e della felicità umana, della sicurezza e della vita stessa. La fantastica macchina produttiva che ha creato e che, se gestita razionalmente, potrebbe facilmente soddisfare i bisogni e il benessere di tutti, si rivela un meccanismo che degrada il popolo in povertà, miseria, sofferenza e ogni specie di ingiustizia sociale”.

Le crisi economiche sono un prodotto inevitabile del sistema di produzione capitalista, con i suoi cicli di crisi e ripresa che nessun governo borghese, dal più “liberista” al più “keynesiano” possono evitare. Una contraddizione fondamentale del capitalismo, consiste nel fatto che mentre l’economia capitalista ha una dimensione sociale ed è dominata da vaste imprese centralizzate a scala mondiale, i mezzi di produzione sono proprietà privata di una manciata di capitalisti, che sfruttano il lavoro degli operai e si appropriano della ricchezza che questi producono. Per eliminare l’anarchia economica capitalista bisogna che i lavoratori rovescino lo Stato borghese e si impadroniscano dei mezzi di produzione, trasformandoli in proprietà collettiva, abbattendo le barriere statali e nazionali che la borghesia impone per mantenere i suoi profitti. Bisogna che l’economia non sia indirizzata a produrre profitti per i padroni capitalisti, ma che sia pianificata a scala internazionale sulla base dei bisogni delle vaste masse della popolazione. Questo a sua volta consentirà lo sviluppo delle forze produttive, così che la miseria e il bisogno siano eliminati e si pongano le basi per una società socialista egualitaria in cui viga il principio “da ognuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Lottare contro la rovina della classe operaia!

In questa crisi è l’intera classe operaia internazionale ad essere a rischio. A pagare doppiamente il prezzo della crisi saranno quei settori che già sono più sfruttati e oppressi nei periodi di “normale” funzionamento del capitalismo. Con la diminuzione dei profitti, i capitalisti cercheranno di tagliare ancor di più quelle che loro considerano spese “inutili” come l’assistenza sanitaria e l’educazione, espellendo un intero strato di lavoratrici dai loro posti di lavoro per farne serve domestiche che svolgano senza paga il lavoro sociale di riproduzione di una nuova generazione di sfruttati. L’ultima finanziaria e il decreto Gelmini ne sono un esempio: più del 95 per cento dei 130 mila insegnanti e impiegati delle scuole che perderanno il posto sono donne. Con i tagli al tempo pieno o agli asili, saranno ancor di più le donne costrette a rinunciare al lavoro. Un sistema di asili aperti 24 ore su 24, un’educazione di qualità gratuita per tutti e la socializzazione del lavoro di cura e domestico, sono tra le precondizioni perché le donne possano accedere realmente alla vita economica e sociale, ma la loro instaurazione richiede il rovesciamento del capitalismo. Per la liberazione delle donne con la rivoluzione socialista!

Tra i più colpiti ci sono i giovani. Adesso va di moda tra i politicanti borghesi e riformisti versare qualche lacrima sulla sorte dei precari. Ma tutta questa merda non è caduta dal cielo. E’ stata introdotta a partire dal 1998 con il cosiddetto pacchetto Treu del governo Prodi, che fu votato anche da Rifondazione comunista. Ed è stata ribadita solo un anno fa, con i cosiddetti “accordi di luglio”, avallati dai burocrati che dirigono i sindacati e introdotta dal governo Prodi, di cui faceva parte integrante Rifondazione e che all’epoca continuava ad essere appoggiato dai parlamentari di Sinistra critica. Contro i licenziamenti dei precari bisogna lottare per l’assunzione a tempo indeterminato e alle stesse condizioni degli altri lavoratori, cosa che richiede una massiccia campagna di sindacalizzazione dei lavoratori interinali.

Non bisogna permettere che strati interi di lavoratori vengano trasformati in disoccupati cronici, che sopravvivono delle elemosine della società capitalista. Tutti i posti di lavoro esistenti devono essere difesi e bisogna garantire posti di lavoro e condizioni di vita dignitose per tutti! Dev’essere questo principio, non le necessità dei profitti dei capitalisti a guidare l’azione della classe operaia. Invece di accettare licenziamenti o tagli salariali per far “superare la crisi” ai capitalisti, bisogna esigere che tutto il lavoro esistente sia diviso tra tutta la manodopera disponibile, con un accorciamento netto della settimana lavorativa a parità di salario.

L’ostacolo principale a queste battaglie sono la burocrazia sindacale filo capitalista e i dirigenti politici riformisti, che promuovono la menzogna che gli interessi dei lavoratori e dei capitalisti siano compatibili, che bisogna sforzarsi insieme per difendere il “sistema paese” e la “competitività” dei capitalisti. Le loro “vie d’uscita” dalla crisi sono definite da collaborazione di classe e protezionismo, dalla politica di allearsi con la “loro” borghesia e con i loro governi affinché questi intervengano contro i competitori capitalisti stranieri e “salvino” l’industria nazionale. Questi burocrati sono una cinghia di trasmissione della coscienza filocapitalista in seno al movimento operaio. Insegnano ai lavoratori che il “realismo” consiste nell’accettare un peggioramento delle proprie vite in modo che i padroni possano ristabilire il “normale” flusso di milioni nelle loro tasche.

Come spiegava nel 1938 il Programma di transizione della Quarta internazionale trotskista, scritto sulla scia della Grande depressione degli anni Trenta:

“I padroni e i loro avvocati difensori dimostreranno ‘l’irrealizzabilità’ di tali rivendicazioni. I capitalisti più piccoli, specie quelli in rovina, tireranno in ballo i loro bilanci. Ma gli operai denunciano categoricamente questi argomenti e queste invocazioni. (…) Se il capitalismo è incapace di soddisfare le rivendicazioni che scaturiscono inevitabilmente dalle calamità che esso genera, che muoia! La ‘realizzabilità’ o ‘irrealizzabilità’ in questo caso è una questione di rapporti di forza che si può decidere soltanto con la lotta. Per mezzo di questa lotta, e indipendentemente dai suoi successi pratici immediati, gli operai comprenderanno meglio la necessità di liquidare la schiavitù capitalista”. (Il Programma di transizione, Spartaco n. 13/14)

La sinistra riformista al capezzale del capitalismo

La crisi economica ha resuscitato le teorie riformiste, spesso associate con il keynesismo, secondo cui le contraddizioni del capitalismo potrebbero essere mitigate con un intervento dello Stato a sostegno dell’economia e con la nazionalizzazione del settore bancario e di altri settori in crisi in modo da consentire la ripresa del normale ciclo di sfruttamento del lavoro salariato. Ma lo Stato appartiene ai capitalisti, che lo controllano grazie alla loro ricchezza e al dominio che tramite essa esercitano su tutti gli aspetti della vita del proletariato. Perché le immense forze di produzione create nel corso dei decenni dal lavoro della classe operaia vengano impiegate razionalmente per soddisfare le esigenze dei lavoratori, bisogna che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere statale passino dalle mani della classe dominante capitalista a quelle del proletariato.

Sotto il capitalismo, la “nazionalizzazione” del settore bancario e persino di interi settori industriali in crisi, lungi dall’essere una misura “socialista”, è una pratica cui ricorrono nei periodi di crisi i governi borghesi (anche i più reazionari, come l’amministrazione Bush, i governi democristiani del secondo dopoguerra e persino il governo fascista italiano negli anni Trenta), per impedire un collasso finanziario e mantenere i profitti generali delle imprese capitaliste private. Negli ultimi mesi i principali governi imperialisti, da quello americano a quello tedesco, hanno proposto o attuato la nazionalizzazione di grandi banche. Le nazionalizzazioni di industrie in crisi si traducono invariabilmente in tagli salariali, sussidi economici presi dalla fiscalità, e limitazioni protezioniste alle importazioni per rendere competitive le industrie nazionalizzate. In più, data la massa di prestiti irrecuperabili che giacciono nelle banche e che superano di varie volte i loro fondi, adesso qualsiasi schema di nazionalizzazione consisterebbe in pratica nell’accollarsi i loro debiti.

La crisi economica rivela così tutta l’impotenza del riformismo, la cui sostanza consiste nel rivendicare l’intervento dello Stato capitalista per finanziare, controllare e dirigere l’economia capitalista, in modo da mitigarne gli eccessi e strappare qualche briciola in più per i lavoratori. Il ruolo regolatore dello Stato è invocato da uno spettro politico che va da Tremonti a … Ferrero e Ferrando. Così ad esempio Rifondazione comunista, rivendica come “punto centrale” un “nuovo intervento pubblico in economia (...) Noi dobbiamo proporre un intervento pubblico che, a partire dalla nazionalizzazione delle banche e dallo stop ai contributi alle imprese, attivi ricerche e produzioni finalizzate alla soddisfazione dei bisogni sociali e non ai profitti”. (Paolo Ferrero, in rifondazione.it, 15 marzo 2009)

A questa politica obbediscono anche i sedicenti trotskisti fuoriusciti o meno dal Prc. Il centro della politica del Partito comunista dei lavoratori (Pcl) è una campagna “Per la nazionalizzazione delle aziende in crisi e/o che licenziano e per la nazionalizzazione delle banche” (pclavoratori.it, 5 febbraio 2009). Sinistra critica (Sc) ha raccolto 70 mila firme per una petizione che chiede al governo di introdurre un salario minimo di 1.300 euro, la scala mobile e una riforma fiscale, da accompagnarsi con la “nazionalizzazione di banche e imprese che non garantiscono il mantenimento dell’occupazione o il salario” (sinistracritica.org). Falcemartello, riconoscendo che “le banche servono all’economia” chiede che “siano dunque nazionalizzate sotto il controllo dei lavoratori delle banche, del governo e dei sindacati” (FalceMartello, 4 marzo 2009). Ma anche se alzano un po’ i toni rispetto a Rifondazione, parlando di “rottura di sistema” (Sinistra critica) o addirittura della “attualità della rivoluzione socialista internazionale” (Pcl), se si guarda concretamente ai programmi politici che si celano dietro a questa fraseologia, si vedrà che si discostano poco dall’illusione di poter riformare il sistema capitalista a vantaggio dei lavoratori, predicata dai burocrati sindacali o dal Prc. Questi appelli allo Stato borghese ad incamerarsi i settori perdenti del capitalismo, non sono nient’altro che una specie di “soccorso rosso” al capitalismo agonizzante. Non si capirebbe altrimenti perché il Pcl si limita a chiedere la nazionalizzazione delle imprese fallite, e non di quelle che fanno profitti, che assumono o che si espandono!

Come scrivemmo nel 1979, all’epoca del salvataggio dell’americana Chrysler da parte del governo Usa:

“La pratica riformista di nazionalizzare solo le attività capitaliste meno efficienti, va in direzione esattamente opposta all’espropriazione socialista. La pianificazione economica socialista si basa precisamente sul sottrarre ai capitalisti i mezzi di produzione più avanzati” (Workers Vanguard n. 238, 17 agosto 1979)

Per cercare di demarcarsi dalle nazionalizzazioni proposte da capi di governi capitalisti come Angela Merkel o George W. Bush, i riformisti introducono qualche condizione. Ad esempio, Sinistra critica sostiene che:

“la nazionalizzazione di banche e imprese è una misura ormai definita indispensabile dagli stessi capitalisti e dai governi. Ma quale nazionalizzazione? Un'effettiva nazionalizzazione, che deve essere messa in atto per quelle imprese che non garantiscono il lavoro o il salario, va realizzata sotto controllo operaio e popolare e con l'obiettivo di migliorare le condizioni di vita delle masse popolari, non di salvaguardare i profitti.” (“La crisi la paghino le banche e i padroni, non i lavoratori”, sinistracritica.org)

Per i marxisti, il controllo operaio sulla produzione è un'espressione di doppio potere nell’industria nel corso di una crisi rivoluzionaria, una situazione temporanea, instabile, in cui gli operai non hanno ancora la forza di rovesciare lo Stato capitalista e di espropriare la borghesia come classe, ma hanno quella di controllarne ogni mossa sul punto di produzione, attraverso i consigli di fabbrica. Una situazione che deve necessariamente evolvere nella conquista del potere statale da parte della classe operaia o essere soffocata dalla repressione e dal ristabilimento dell’ordine borghese. Parlare di “controllo operaio” senza porre l’obiettivo della rivoluzione proletaria, significa solo chiedere agli operai di farsi carico delle misure di “razionalizzazione” che i padroni vorrebbero imporre per rendere competitiva l’azienda nelle condizioni di concorrenza del mercato. L’autogestione a lungo termine di fabbriche occupate, propugnata dalla sinistra riformista (sul modello di alcune limitate autogestioni in America latina), sotto la sferza del mercato di solito non riesce ad evitare il fallimento delle fabbriche oppure le trasforma in “cooperative” capitaliste con condizioni di lavoro spesso peggiori di quelle originarie. E il controllo “pubblico”, “operaio e popolare” o di “lavoratori, governo e sindacati”, non è che una classica proposta di cogestione in cui la burocrazia sindacale venga integrata nella gestione del capitalismo.

Una situazione di doppio potere che porti alla dittatura del proletariato non è certo l’obiettivo di Sinistra critica. Loro vogliono usare le lotte sociali come trampolino per partecipare alla gestione del capitalismo. E’ quello che hanno fatto per anni in Brasile, dove avevano un ministro nel primo governo Lula, Miguel Rossetto, che come ministro della riforma agraria ha contribuito a mantenere il sanguinoso potere dei latifondisti contro i contadini senza terra. Ed è quello che hanno fatto in Italia, dove hanno appoggiato per un anno e mezzo il governo Prodi, con le sue missioni imperialiste e la sua austerità antioperaia.

In pratica la sinistra riformista disarma la classe operaia spargendo l’illusione che lo Stato borghese possa intervenire per risolvere la crisi se solamente alla sua guida vi fosse un governo favorevole ai lavoratori. Il Partito di alternativa comunista (Pdac) ad esempio rivendica, come “soluzione operaia e popolare alla crisi” quella di “esigere che i governi proibiscano i licenziamenti” (Progetto Comunista, febbraio 2009). La disoccupazione e i licenziamenti (la crisi attuale lo conferma brutalmente) sono meccanismi organici del sistema capitalista, senza i quali esso non potrebbe esistere. Il governo di uno Stato, in una società dominata dal modo di produzione capitalista può solo fare una politica borghese. Esigere da governi capitalisti, qualunque sia il loro colore politico, di vietare i licenziamenti è un’utopia riformista. Equivale ad “esigere” che la borghesia vieti lo sfruttamento del lavoro salariato, o dai Faraoni egizi l’abolizione della schiavitù.

Per il potere proletario: espropriare la borghesia!

Trotsky spiegò più volte chiaramente che può essere giusto chiedere espropriazioni parziali, ad esempio di rami industriali vitali, come il settore petrolifero o settori particolarmente parassitari della borghesia (e certo non si limitava a rivendicare la nazionalizzazione dei falliti, come fanno Sc, Pcl e Pdac). A differenza dei suoi epigoni riformisti del Pcl o di Sinistra critica, l'appello di Trotsky alle nazionalizzazioni non era affatto un modo per alimentare illusioni nelle misure parlamentari per migliorare il capitalismo. Nel Programma di transizione, Trotsky insisteva sul fatto che, affinché sia possibile indirizzare le risorse economiche e tecniche del capitalismo a vantaggio dei lavoratori, bisogna che la classe operaia si impadronisca prima del potere statale, e metteva in guardia che “tuttavia il passaggio delle banche nelle mani dello Stato darà questi risultati favorevoli soltanto se lo stesso potere statale passa totalmente dalle mani degli sfruttatori nelle mani dei lavoratori”. Inoltre Trotsky distingueva chiaramente lo slogan rivoluzionario dell’espropriazione da quello riformista della nazionalizzazione (da notare che Sinistra critica per non spaventare la borghesia spesso utilizza addirittura il termine “pubblicizzazione”, che ricorda i “servizi pubblici”)

“La differenza tra queste rivendicazioni e la parola d’ordine riformista e vaga della ‘nazionalizzazione’ consiste in quanto segue:

1) noi respingiamo l’indennizzo;
2) noi mettiamo in guardia le masse contro i ciarlatani del Fronte popolare che, pur invocando la nazionalizzazione a parole, nei fatti restano degli agenti del capitale;
3) noi facciamo appello alle masse perché contino esclusivamente sulla propria forza rivoluzionaria;
4) noi leghiamo la questione dell’espropriazione a quella della presa del potere da parte degli operai e dei contadini”.

(Programma di transizione, Spartaco n. 13/14)

E’ importante sottolineare che Trotsky si è sempre battuto duramente contro la politica di collaborazione di classe, in base alla quale le organizzazioni riformiste basate sulla classe operaia formano un blocco politico con rappresentanti della borghesia, al fine di gestire il capitalismo. In Italia esempi di ciò sono il periodo della Resistenza e del secondo dopoguerra, quando il Pci si unì alla Democrazia cristiana per pugnalare la rivoluzione operaia e consolidare il capitalismo, sino agli scorsi governi di Ulivo, Unione e Rifondazione. La partecipazione a queste coalizioni consente ai riformisti da un lato di dimostrare la propria lealtà alla classe dominante, dall’altro di mascherare il loro tradimento agli occhi della classe operaia, perché possono sempre dare la colpa dei loro tradimenti alla necessità di mantenere un’alleanza ampia e di fare delle “concessioni” per fermare la destra. E’ per questo che noi comunisti non diamo nessun appoggio elettorale, neanche critico, a queste coalizioni e abbiamo fatto appello a non dare nessun voto al Prc e i suoi alleati.

Rifondazione si è discreditata con la sua partecipazione al governo Prodi, dove è stata responsabile di tutti gli attacchi antioperai e leggi razziste di quella coalizione di fronte popolare capitalista. Anche dopo la sua cancellazione dal parlamento e l’abbandono della sua componente più ansiosa di ripararsi sotto l’ala del Partito democratico (Pd), Rifondazione porta avanti una politica di partecipazione a coalizioni capitaliste in tutte le amministrazioni locali in cui il Pd gli lascia spazio (incluse quelle più di destra, come ha fatto alla provincia di Milano o a Napoli). Parte del compito di ricostruire la credibilità del Prc, adesso ricade sulle spalle del gruppo di Falcemartello (Fm), che si è inventato una “svolta a sinistra” di Rifondazione e si sforza di dare l’immagine di un partito combattivo agli occhi degli operai traditi. Così a Pomigliano d’Arco, di fronte alla lotta disperata di migliaia di operai, i dirigenti di Falcemartello hanno organizzato un’assemblea che aveva come ospite d’onore il segretario del Prc, ed ex ministro, Paolo Ferrero e il segretario della Fiom Rinaldini. Antonio Santorelli, un locale dirigente di Fm, ha concluso il suo intervento introduttivo inchinandosi al compagno ex ministro: “E a te, caro Paolo, anche questa parte di partito è nelle tue mani (…). Noi abbiamo rialzato la testa; è a te e al nostro partito ridarci la forza, il coraggio e la voglia di andare avanti per liberare il paese da questo governo reazionario” (marxismo.net, 5 marzo 2009). Abbiamo già visto cosa è successo quando Ferrero, il Prc e soci hanno “liberato” l’Italia da Berlusconi: hanno costruito un governo altrettanto capitalista che ha ferocemente attaccato i lavoratori e gli immigrati. L’ex ministro Ferrero ha votato decreti razzisti, missioni imperialiste e finanziarie di tagli ai lavoratori.

Anche se oggi, dopo la catastrofe del governo Prodi, Sc, Pcl e Pdac sono pronti a giurare contro “qualsiasi governo dei padroni”, tutta la loro politica consiste nel cercare di formare o di appoggiare un blocco delle sinistre per “cacciare il governo Berlusconi”, un fronte popolare capitalista che sia disposto a qualche concessione in più di quanto non fossero quelli di Unione e Rifondazione.

In passato i capi di Sinistra critica, del Pcl o del Pdac non hanno mai fatto mancare il loro appoggio a queste coalizioni di fronte popolare. Quando facevano parte di Rifondazione, hanno contribuito a costruire questo partito, e votato sistematicamente per il Prc e per i suoi partner capitalisti. La sedicente “alternativa” all’Unione di Progetto comunista, la corrente interna di Rifondazione che ha poi dato origine a Pcl e Pdac, è stata per anni il cosiddetto “polo di classe anticapitalista”, una coalizione che avrebbe dovuto raccogliere tutti i rottami della sinistra (Prc, Pdci e transfughi dei Ds), incluso il piccolo partito capitalista dei Verdi. Nel corso delle elezioni politiche del 2008 questi partiti si sono in effetti uniti nella Sinistra arcobaleno, materializzazione effettiva del “polo di classe anticapitalista”, smascherandolo per quello che era: una coalizione borghese.

Mentre i riformisti chiedono allo Stato capitalista di nazionalizzare le banche, con o senza indennizzo, per salvare il sistema capitalista, Trotsky al contrario mette la questione dell’espropriazione esplicitamente nel contesto della prospettiva della presa del potere, cioè della distruzione dello Stato capitalista con la rivoluzione socialista. Una trasformazione reale dell’economia in senso socialista non è possibile senza il potere della classe operaia, la dittatura del proletariato.

L’atteggiamento nei confronti dello Stato è lo spartiacque tra riforma e rivoluzione, tra la strategia riformista, che consiste nel prendere il controllo dell’apparato statale borghese ed amministrarlo, e quella rivoluzionaria che vuole distruggere gli organi statali esistenti e sostituirli con degli organi di potere operaio, come hanno fatto i bolscevichi in Russia nell’Ottobre ’17. Lo Stato è un apparato di dominio di classe, con le sue bande armate incaricate di conservare la struttura sociale, basata sullo sfruttamento degli operai da parte dei capitalisti. A questo fine, poliziotti, giudici ed esercito dispongono del monopolio della violenza contro i lavoratori e gli oppressi. I poliziotti, che oggi bastonano scioperanti, manifestanti, che rastrellano i campi rom e deportano gli immigrati, non possono passare dall’altra parte. Il loro compito è la difesa della proprietà privata. In uno Stato operaio, altri corpi di uomini armati difendono la proprietà collettivizzata contro i vecchi padroni capitalisti, come ad esempio l’Armata Rossa in Unione Sovietica.

Contro protezionismo e sciovinismo nazionalista

La crisi ha resuscitato il protezionismo e lo sciovinismo economici. Negli Stati Uniti, la Casa Bianca di Obama ha approvato un pacchetto di stimolo che stipula l’obbligo di “comprare americano”, chiedendo che “tutto il ferro e l’acciaio” utilizzati dalle imprese che ricevono fondi statali siano “made in Usa”. I principali paesi capitalisti d’Europa hanno approvato importanti pacchetti di finanziamento volti a rendere più competitive le banche e a difendere le grandi industrie “nazionali”, specialmente nel settore automobilistico. In questo, i capitalisti hanno ottenuto il pieno appoggio dei burocrati sindacali.

Anche in Italia, di fronte alle chiusure di fabbriche e ai licenziamenti, si assiste ad una forte crescita del protezionismo e del nazionalismo sciovinista, che spinge gli operai a fare blocco con la propria borghesia nazionale per proteggerne la competitività contro i concorrenti stranieri. Così a Prato, uno dei principali centri dell’industria tessile italiana, Cgil, Cisl e Uil, insieme agli industriali locali e alle istituzioni borghesi hanno organizzato una manifestazione in difesa del “made in Italy”, dove è stata srotolata una gigantesca bandiera italiana lunga oltre un chilometro. Alla Indesit di None (di proprietà di una parlamentare del Partito democratico), la risposta alla minaccia di chiusura della fabbrica è stata quella di fare appello ai padroni a “pensare alla nostra nazione”. (il manifesto, 21 marzo 2009)

Emblematici delle divisioni scioviniste nel movimento operaio sono stati gli scioperi reazionari avvenuti in Inghilterra a metà febbraio, quando, per più di una settimana, migliaia di operai edili hanno manifestato di fronte alle raffinerie di tutto il Regno Unito contro l’impiego di alcune decine di lavoratori italiani e portoghesi, chiedendo “lavoro britannico ai lavoratori britannici” e ottenendo persino il plauso della stampa di destra e dei fascisti del British National Party (Bnp). Invece di dare battaglia per ottenere un posto di lavoro per tutti gli operai edili e lottare per i diritti degli immigrati, la burocrazia sindacale riformista si è inchinata alla rivendicazione di “lavoro britannico ai lavoratori britannici”, pur condannando le incursioni del Bnp, i fascisti inglesi, nello sciopero. Come hanno scritto i nostri compagni della Spartacist League/Britain:

“Gli scioperi non puntavano ad ottenere più posti di lavoro o qualsiasi altra conquista per l’insieme della classe operaia e nemmeno a difendere dei posti di lavoro esistenti. Puntavano a ridividere il bacino di posti esistenti in base alla nazionalità dei lavoratori. Questi scioperi reazionari, che hanno visto lavoratori inglesi schierarsi contro lavoratori stranieri e immigrati, sono dannosi per gli interessi della classe operaia multietnica, in Gran Bretagna e in tutta l’Europa. (…) Le rivendicazioni del movimento sindacale non devono riguardare chi viene assunto dagli appaltatori, ma con quale salario e a quali condizioni lavorano. Il modo per sconfiggere il tentativo dei padroni di abbassare i salari e le condizioni di lavoro e di sicurezza di tutti gli operai, dividendoli lungo linee nazionali, è che i sindacati rivendichino: non importa chi fa il lavoro, basta che sia a pieno salario e alle stesse condizioni contrattuali che prevalgono nel settore! Uguale paga a uguale lavoro!” (Workers Hammer n. 206, primavera 2009)

Questi scioperi reazionari sono stati presi a modello da settori della sinistra riformista italiana. Così Giorgio Cremaschi, capo della sinistra Cgil, li ha giustificati dicendo che “se gli operai italiani venissero pagati di meno rispetto a quelli inglesi o avessero condizioni contrattuali peggiori sarebbe giusta la lotta dei lavoratori inglesi” (Corriere della sera, 2 febbraio 2009). Falcemartello, pur riconoscendo che lo slogan centrale degli scioperi era “uno slogan razzista da combattere” ha seguito la linea dei suoi compagni inglesi che hanno cercato di minimizzarlo con la menzogna che si trattava solo di un complotto della stampa tabloid di destra per screditare gli scioperanti, e paragonato “le scene viste a Lindsey a quelle delle lotte degli anni Settanta o dello sciopero dei minatori” (marxismo.net). Minimizzando o falsificando il contenuto razzista di simili proteste, si legittima la propaganda razzista della Lega nord o quella nazionalista di settori della burocrazia sindacale, che accusano gli immigrati di “rubare il lavoro agli italiani” accettando salari più bassi.

E’ evidente che la classe operaia deve difendersi dalla chiusura delle fabbriche dalle riduzioni dei salari o dal peggioramento delle condizioni di lavoro. Ma il modo di farlo, non è quello di suggerire ai capitalisti dove devono investire, se sfruttare e licenziare gli operai nel “nostro” o in un altro paese. Come diceva Marx nel Manifesto del partito comunista, “gli operai non hanno patria”. L’unico modo in cui la classe operaia può difendersi internazionalmente contro i padroni che cercano di aizzare gli uni contro gli altri gli operai di diversi paesi, è quello di lottare per condizioni di salario e di lavoro uguali al di sopra delle frontiere, di sostenere la solidarietà di classe internazionale.

Se per le borghesie nazionali il protezionismo può essere un’opzione cui ricorrere di fronte alla competizione dei capitalisti stranieri, per il proletariato, specialmente nei paesi imperialisti, sostenere il protezionismo è letale e significa compromettere la lotta di classe e rinunciare a qualsiasi prospettiva rivoluzionaria. Nazionalismo e protezionismo sono vecchi trucchi che servono ad incanalare il malcontento per la disoccupazione verso l’ostilità nei confronti dei lavoratori stranieri e degli immigrati e suscitare illusioni nella benevolenza dei capitalisti nostrani, nascondendo il fatto che sono i capitalisti e il loro sistema i responsabili per disoccupazione e miseria operaia. Traccia una divisione nazionale nella società per offuscarne la divisione in classi. L’opposizione al protezionismo è ancor più importante nel contesto della crisi economica internazionale, le rivalità tra le potenze imperialiste per spartirsi mercati asfittici non fanno che aumentare, determinando conflitti economici che sul piano storico si sono risolti sempre con la forza, con la guerra.

La Cina, uno Stato operaio deformato che gli imperialisti occidentali vorrebbero rovesciare, è il bersaglio principale del protezionismo borghese. Se la Lega nord alimenta un’aperta viscerale campagna protezionista/razzista anticinese, anche la burocrazia sindacale alimenta l’idea che bisogna agire contro la “competizione sleale” cinese. Le prime vittime della crescita del protezionismo e dello sciovinismo nazionalista sono i lavoratori immigrati. Concentrati negli strati più sfruttati ed oppressi del proletariato, spesso in settori che sono più esposti alla competizione internazionale e alla crisi, gli immigrati rischiano di perdere con il lavoro il permesso di soggiorno e di essere deportati. Da mesi sono in corso feroci campagne razziste contro i rom, i romeni e la popolazione immigrata in generale con assassini e pestaggi razzisti che si susseguono sempre più frequentemente in una campagna fomentata inizialmente dal governo Pd/Rifondazione e portata avanti con accresciuta virulenza dall’attuale maggioranza di governo. Il movimento sindacale deve difendere i lavoratori immigrati, opponendosi a tutti gli atti di oppressione e terrore razzista e lottando per la sindacalizzazione di tutti i lavoratori immigrati. Pieni diritti di cittadinanza per tutti gli immigrati!

La crisi esaspera le tensioni tra i governi capitalisti dell’Unione europea (Ue), che si azzuffano per “salvare” le rispettive economie. Contrariamente a quanto sostengono i burocrati sindacali e i partiti riformisti, non è possibile fare dell’Europa capitalista una forza “sociale” che introduca leggi a vantaggio dei lavoratori. L’abbassamento dei salari e delle condizioni di vita dei lavoratori è proprio uno degli scopi dell’esistenza dell’Ue. L’allargamento del blocco imperialista dell’Ue ai paesi dell’Est (reso possibile dalla serie di controrivoluzioni capitaliste che hanno colpito l’Europa dell’Est e l’Unione Sovietica tra il 1989 e il 1992), ha fornito alle borghesie europee un vasto bacino di manodopera qualificata a prezzi stracciati. I lavoratori dei paesi dell'Est sono il bersaglio di una canea reazionaria, che li accusa di essere responsabili della disoccupazione in Italia a causa delle “delocalizzazioni” favorite dai bassi livelli salariali. Noi comunisti ci opponiamo all’Unione europea, un consorzio imperialista che serve ad aumentare la competitività dei suoi componenti nei confronti dei rivali americani e giapponesi, a spese della classe operaia europea e degli immigrati. Il nostro programma è per delle rivoluzioni operaie che portino alla formazione degli Stati uniti socialisti d’Europa.

La via d’uscita dall’interminabile ciclo di crisi economiche e guerre imperialiste, è stata mostrata dalla Rivoluzione russa del 1917 quando gli operai presero il potere espropriando la borghesia, istituendo uno Stato operaio e ponendo le basi per un gigantesco progresso economico e sociale, nonostante la degenerazione burocratica sotto il reazionario regime stalinista. E' per questo che noi trotskisti ci siamo battuti fino in fondo per la difesa militare incondizionata dell'Unione Sovietica (e oggi degli Stati operai deformati tuttora esistenti: Cina, Vietnam, Corea del Nord e Cuba) lottando allo stesso tempo per una rivoluzione politica per cacciare la burocrazia stalinista che con la sua politica nazionalista del “socialismo in un paese solo” costituiva e costituisce un formidabile ostacolo alla rivoluzione socialista internazionale. La controrivoluzione capitalista in Unione Sovietica è stata una sconfitta catastrofica per i lavoratori di tutto il mondo. In Russia il collasso economico è stato senza precedenti per una società moderna: tra il 1991 e il 1997 il prodotto interno lordo è diminuito più dell’80 per cento. Nel 2000 la speranza di vita era più bassa che alla fine del XIX secolo. La controrivoluzione ha dato via libera ad un’intensificazione dello sfruttamento e del dominio neocoloniale in tutto il mondo. Prive della minaccia del “nemico comune” sovietico, le borghesie dei vari paesi hanno preso di mira i lavoratori, facendo a pezzi il cosiddetto “stato sociale”. Sono queste sconfitte materiali che trovano il loro riflesso ideologico nell’accettazione, anche da parte degli strati politicamente più avanzati del proletariato, della cosiddetta “morte del comunismo”. Il rovesciamento del capitalismo richiede la costruzione di una nuova direzione rivoluzionaria, un partito leninista trotskista che sappia trarre le lezioni delle sconfitte del passato per intervenire nelle lotte della classe operaia, per conquistarne gli elementi di avanguardia al programma del marxismo che portò alla vittoria della Rivoluzione bolscevica in Russia nel 1917.

 

Spartaco N. 71

Spartaco 71

Aprile 2009

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Riformismo, collaborazione di classe e protezionismo incatenano gli operai ai capitalisti.

La crisi capitalista sconvolge la vita della classe operaia.

La classe operaia deve prendere il potere!

Per un’economia socialista pianificata!

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Abbasso le cariche esecutive dello Stato capitalista!

Principi marxisti e tattiche elettorali

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Dichiarazione della Lega comunista internazionale

Abbasso la Nato!

Per gli Stati uniti socialisti d’Europa!

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Karl Marx aveva ragione.

I padroni fanno pagare agli operai la crisi economica del capitalismo.

Lotta di classe contro i capitalisti!

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Difendere lo Stato operaio deformato Cinese!

Cina: “socialismo di mercato” e crisi economica globale

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Difendere il popolo palestinese!

Fuori Israele dai Territori occupati!

Bagno di sangue sionista a

Per una federazione socialista del Medio Oriente!

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Il caso Englaro: moderna inquisizione

Per la separazione tra Stato e Chiesa!

(Donne e Rivoluzione)