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Spartaco n. 84

Novembre 2019

Difendere la Cina! Imperialisti: giù le mani!

Hong Kong: no alla sovversione controrivoluzionaria!

Espropriare i tycoon!

Da tre mesi, orde anticomuniste imperversano ad Hong Kong. Hanno bloccato le strade e fermato i trasporti pubblici, picchiato gli oppositori e i cinesi del continente e lanciato mattoni e bottiglie Molotov contro la polizia. I manifestanti hanno mostrato cartelli prodotti in serie che dicevano: “Presidente Trump: per favore libera Hong Kong” e cantato l’inno nazionale americano, sventolando bandiere americane. Manifestanti contro la Cina hanno vandalizzato l’edificio del Consiglio legislativo e innalzato la bandiera britannica, chiedendo il ritorno dell’ex padrone coloniale di Hong Kong. Nel tentativo di porre fine al controllo della Cina sulla sua enclave capitalista di Hong Kong, i manifestanti chiedono apertamente un intervento imperialista.

Il Dipartimento di Stato americano ha ripetutamente dichiarato il suo sostegno alle proteste controrivoluzionarie, così come i ministeri degli esteri britannico e canadese. La leader democratica del Congresso, Nancy Pelosi, si è unita a una schiera di repubblicani per chiedere l’intervento degli Stati Uniti e imporre una legislazione punitiva contro Pechino. I governanti statunitensi hanno finanziato, consigliato e aiutato ad organizzare i manifestanti nel quadro del loro obiettivo strategico che consiste nel rovesciare la Rivoluzione del 1949 e ricondurre la Cina alla schiavitù capitalista, che loro sarebbero i primi a saccheggiare.

La Cina non è un Paese capitalista, ma uno Stato operaio. Tuttavia è uno Stato operaio deformato fin dall’inizio dal dominio di una casta burocratica parassitaria che opprime politicamente la classe operaia. Da quando ha preso il potere attraverso la guerriglia contadina, il Partito comunista cinese (Pcc) ha seguito il dogma stalinista del “socialismo in un solo Paese” e il suo corollario, la “coesistenza pacifica” con l’imperialismo. Il regime del Pcc, dai tempi di Mao Zedong ad oggi, si è opposto al programma rivoluzionario internazionalista del marxismo. Ma nonostante il malgoverno burocratico e la corruzione, il rovesciamento del capitalismo ha portato a progressi sociali storici. Anche se quattro decenni di “riforme del mercato” hanno portato investimenti stranieri su larga scala e all’emergere di singoli capitalisti nella Cina continentale, l’economia rimane controllata da Pechino, con i settori più importanti collettivizzati e di proprietà dello Stato.

Oggi a Hong Kong, ci schieriamo militarmente con le forze dello Stato operaio deformato cinese, polizia compresa, contro le mobilitazioni anticomuniste. Questa posizione deriva dalla nostra difesa militare incondizionata della Cina contro l’imperialismo e la controrivoluzione interna. Tale difesa non implica il minimo sostegno politico alla burocrazia di Pechino, il cui sostegno al capitalismo di Hong Kong nel quadro della politica “un Paese, due sistemi” ha responsabilità non trascurabili nella crisi attuale. In quanto trotskisti che vogliono rendere la classe operaia consapevole del suo compito storico di realizzare un futuro socialista, la nostra prospettiva è la mobilitazione dei lavoratori di Hong Kong e della Cina continentale per fermare le forze controrivoluzionarie.

Nel 1997, la Lega comunista internazionale (quartinternazionalista) si è unita nel celebrare l’abbandono della colonia di Hong Kong da parte degli imperialisti britannici. Allo stesso tempo, abbiamo avvertito che la promessa del Partito comunista cinese di mantenere il capitalismo rappresentava una minaccia allo Stato operaio cinese (vedi “British Colonialist Rulers Leave, Finally - Beijing Stalinists Embrace Hong Kong Financiers” Workers Vanguard n. 671, 11 luglio 1997). Nel 1984, il leader cinese Deng Xiaoping promise esplicitamente al primo ministro britannico Margaret Thatcher che il “precedente sistema capitalista e lo stile di vita” sarebbero rimasti invariati.

Dal 1997, Hong Kong è stata integrata nella Repubblica popolare cinese come regione amministrativa speciale capitalista, in cui ogni aspetto decisivo del governo è sotto il controllo di Pechino. L’Esercito popolare di liberazione (Epl), di stanza nell’enclave, ne è la garanzia. La Legge fondamentale di Hong Kong è stata introdotta dal Congresso nazionale del popolo cinese e i principali funzionari esecutivi del territorio sono nominati dal governo centrale di Pechino. I membri della sua Alta corte  sono a loro volta nominati dal direttore generale approvato a Pechino. Il Pcc si è reso direttamente responsabile del mantenimento del capitalismo a Hong Kong, dove la classe capitalista è politicamente organizzata con propri partiti, giornali e altri mezzi di comunicazione. La politica di Pechino ha alimentato a Hong Kong un terreno fertile per la controrivoluzione e ha creato un avamposto per lo spionaggio e gli intrighi imperialisti. Il sostegno del Pcc agli interessi della borghesia di Hong Kong ai danni di coloro che questa sfrutta e opprime è un enorme tradimento dei lavoratori di quel Paese e della Cina continentale stessa. Noi rivendichiamo: espropriare i tycoon!

La lotta contro i capitalisti disgustosamente ricchi di Hong Kong è direttamente legata alla lotta del proletariato di tutta la Cina contro la corruzione e la disuguaglianza promossa dalla burocrazia stalinista, che funge da cinghia di trasmissione delle pressioni del mercato mondiale capitalista sullo Stato operaio. Ciò che occorre è una rivoluzione politica proletaria che spazzi via la burocrazia stalinista e metta il potere nelle mani dei consigli degli operai, dei contadini e dei soldati. Un tale regime si fonderebbe sulla prospettiva di una rivoluzione proletaria internazionale, che getti le basi dell’eliminazione della scarsità in un ordine socialista mondiale.

Macchinazioni imperialiste

Come dice il proverbio, chi paga il pifferaio sceglie la musica. Il National Endowment for Democracy [Fondo nazionale per la democrazia - Ned) del governo degli Stati Uniti ha versato milioni di dollari a favore delle organizzazioni che stanno dietro le proteste, dall’Hong Kong Human Rights Monitor, ai partiti del fronte “pan-democratico” all’Hong Kong Confederation of Trade Unions, il sindacato affiliato all’anticomunista Confederazione sindacale internazionale. Tali organizzazioni sono le componenti principali del Civil Human Rights Front [Fronte civico per i diritti umani], l’organizzatore principale delle attuali proteste. Anche Joshua Wong, il ragazzo copertina delle proteste contro la Cina nei media occidentali, è legato al Ned.

Come ha descritto il giornalista Dan Cohen in un’utile rivelazione pubblicata su Grayzone (17 agosto), un personaggio chiave che fa presenza fissa alle proteste (e le finanzia) è il tycoon di Hong Kong Jimmy Lai. Conosciuto come il Rupert Murdoch dell’Asia, Lai ha costruito un impero mediatico basato su scandali, gossip su celebrità, anticomunismo e fanatismo anticinese. La sua stampa è nota per aver condotto una campagna sciovinista contro gli “anchor babies” bambini nati ad Hong Kong da madri provenienti dalla Cina continentale, raffigurando i cinesi del continente come sciami di cavallette che calano su Hong Kong per divorarne le risorse. A luglio, Lai si è recato negli Stati Uniti per incontrare, tra gli altri, il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, il vicepresidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo, richiedendo l’assistenza continuativa degli Stati Uniti per “resistere” a Pechino. Successivamente ha dichiarato: “Noi di Hong Kong stiamo lottando per sostenere valori condivisi con gli Stati Uniti contro la Cina. Stiamo combattendo la loro guerra nel campo nemico” (Cnn, 28 agosto).

Gli Stati Uniti e altre potenze imperialiste perseguono una strategia su più fronti per la controrivoluzione capitalista in Cina. Da una parte vi è il finanziamento e la promozione di mobilitazioni reazionarie come le proteste ad Hong Kong. Washington cerca anche di usare la sua potenza economica come ariete, come nel caso dell’attuale guerra tariffaria, attraverso la quale l’amministrazione Trump, con il fermo sostegno dei democratici, mira ad ostacolare lo sviluppo economico e tecnologico della Cina (vedi “U.S. Imperialists Ramp Up Trade/Tech War”, Workers Vanguard n. 1157, 21 giugno). Allo stesso tempo, gli Stati Uniti stanno aumentando la pressione militare sulla Cina, conducendo esercitazioni militari regolari in prossimità delle coste cinesi, facendo volare bombardieri sul Mar Cinese Meridionale e inviando ripetutamente navi da guerra della marina attraverso lo Stretto di Taiwan. Queste iniziative fanno tutte parte di una strategia di accerchiamento militare della Cina da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

Il Dipartimento di Stato ha recentemente approvato la richiesta di Taiwan di acquistare carri armati e missili per 2,2 miliardi di dollari e aerei da caccia avanzati per 8 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti hanno visto l’isola come la propria “portaerei inaffondabile”, la linea del fronte di una futura guerra, sin dalla Rivoluzione del 1949, quando il regime capitalista cinese fuggì a Taiwan, e dall’inizio della guerra di Corea l’anno successivo. La Lci si batte per la riunificazione rivoluzionaria di Taiwan con la Cina, attraverso una rivoluzione sociale che rovesci il capitalismo a Taiwan e la rivoluzione politica proletaria contro la burocrazia del Pcc nella Cina continentale.

Come organizzazione rivoluzionaria la Lega comunista internazionale si batte in tutto il mondo per forgiare dei partiti d’avanguardia leninisti che possano guidare la classe operaia nella lotta per dei governi operai che esproprino gli sfruttatori capitalisti. Centrale in questa prospettiva è la conquista degli strati più avanzati del proletariato per contrastare le macchinazioni dei loro governanti in tutto il mondo, non ultime quelle dirette contro lo Stato operaio deformato cinese. I lavoratori non possono realizzare nuove conquiste senza difendere quelle già ottenute!

“Un Paese, due sistemi”: pericolo per la rivoluzione cinese

Per lanciare l’attuale ondata di proteste contro la Cina, a fine primavera gli organizzatori hanno preso a pretesto una legge sull’estradizione, in discussione al Consiglio legislativo di Hong Kong, sostenendo che avrebbe minato l’autonomia del territorio. La legge proposta non avrebbe fatto nulla del genere. La misura, sospesa a giugno (e poi definitivamente ritirata) avrebbe semplicemente introdotto un processo di estradizione, non solo tra Hong Kong e il resto della Cina, ma anche tra Hong Kong e tutti i paesi del mondo che non avevano già un accordo di questo tipo. Trattando la Cina continentale come un Paese straniero, la legge rientrava interamente nel quadro della politica del Pcc, che consiste nel mantenere un’amministrazione capitalista distinta a Hong Kong. La Lci non ha una posizione su questa legge in quanto non cerchiamo di consigliare la burocrazia di Pechino su come amministrare al meglio il capitalismo a Hong Kong, poiché ci opponiamo al fatto che rimanga un’enclave capitalistica.

I manifestanti di Hong Kong e i loro consulenti d’immagine nei media borghesi hanno scatenato un inferno sulla presunta violenza esercitata dalla polizia. Da parte di giornali come il New York Times, questa è pura ipocrisia. In realtà, la polizia di Hong Kong è stata molto misurata, preoccupandosi più di contenere e disperdere le proteste che di fermarle. Paragonate la loro condotta con la brutale repressione scatenata contro i gilet jaunes in Francia o gli indipendentisti catalani, solo per fare due esempi recenti dalla “democratica” Europa!

La moderazione della polizia a Hong Kong esprime la politica della burocrazia del Pcc. Gli organizzatori delle proteste puntano al rovesciamento dello Stato operaio deformato cinese. Ma Pechino si sforza di rispettare l’autonomia formale di Hong Kong, che è scritta nel patto “un Paese, due sistemi” stipulato con i capitalisti dell’enclave e i loro padroni imperialisti. Tuttavia, invece di placare i manifestanti, le concessioni dei burocrati del Pcc non hanno fatto altro che incoraggiarli.

La borghesia di Hong Kong non è unanime riguardo alle proteste. Mentre Jimmy Lai e la sua banda sostengono apertamente le mobilitazioni, Li Ka-shing, l’uomo più ricco di Hong Kong, così come diversi tycoon del settore immobiliare e alcuni gruppi bancari hanno recentemente fatto appello alla calma. Sono preoccupati che il caos provocato dalle proteste danneggi gli affari. Più in generale, diversi analisti finanziari borghesi hanno avvertito che l’intervento dell’Esercito popolare di liberazione, o della Polizia armata del popolo di stanza oltre il confine a Shenzhen, per fermare i disordini, provocherebbe la fuga di capitali e altri danni all’economia di Hong Kong.

Hong Kong sotto i tycoon si è guadagnata la reputazione di essere un centro di intenso sfruttamento dei colletti bianchi, dove gli impiegati sono abitualmente schiavizzati per dodici ore al giorno ma pagati otto. Con la benedizione del Pcc, una folle speculazione immobiliare ha fatto salire gli affitti al punto che il lavoratori adulti non sono in grado di lasciare la casa dei genitori e spesso condividono piccole stanze con più persone. In una delle città più costose al mondo, piena di negozi e alberghi di lusso, un quinto della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Gli “immigrati” provenienti dalla Cina continentale costituiscono alcuni tra i settori più oppressi della popolazione, mentre la difficile situazione delle centinaia di migliaia di lavoratori domestici di Hong Kong, provenienti soprattutto dalle Filippine e dall’Indonesia, getta una luce particolarmente cruda sulla divisione di classe dell’enclave. Nel frattempo, i venali burocrati del Pcc e i loro amici e parenti usano Hong Kong per parcheggiare i loro soldi o per farli uscire dalla Cina e anche come luogo per lo shopping.

I lavoratori di Hong Kong dovrebbero essere un alleato naturale del potente e combattivo proletariato della Cina continentale. Un autentico partito comunista in Cina si baserebbe sugli interessi della classe operaia per mobilitarla contro le manifestazioni controrivoluzionarie, difendendo allo stesso tempo gli interessi della piccola borghesia oppressa. L’espropriazione dei tycoon e la conversione delle loro proprietà in abitazioni pubbliche a basso costo avrebbe un forte impatto sulla popolazione, così come la sostituzione dei negozi e dei ristoranti di lusso con mense e cooperative gestite da e per i lavoratori.

Queste richieste si contrappongono alla collaborazione di classe del Pcc con la borghesia di Hong Kong, che è stata la base politica delle contromanifestazioni filocinesi, relativamente piccole, che hanno avuto luogo ad Hong Kong ed internazionalmente. Le contromanifestazioni sono state concepite per essere compatibili con gli interessi dei tycoon, il cui “patriottismo” dipende dalla loro capacità di trarre profitto dai loro investimenti nella Cina continentale. Il Pcc fa appello al patriottismo anche per chiedere la fine delle proteste. Gli stalinisti non invitano la classe operaia ad agire: la burocrazia di Pechino, in quanto fragile casta dominante, teme che le mobilitazioni dei lavoratori possano rappresentare una sfida al suo dominio.

Per il Pcc, mantenere il capitalismo a Hong Kong ha lo scopo di promuovere gli investimenti stranieri nella Cina continentale tranquillizzando i capitalisti d’oltremare sul fatto che è sicuro fare affari con la Cina. Hong Kong rimane un importante nodo di collegamento tra la Cina e l’economia capitalista globale. La politica di Pechino nei confronti di Hong Kong è in perfetta coerenza con l’apertura di intere aree della Cina, le zone economiche speciali, agli investimenti della borghesia cinese offshore e delle potenze imperialiste.

Qualsiasi Stato operaio isolato avrebbe bisogno di cercare investimenti stranieri. Sotto una direzione rivoluzionaria, questo sarebbe fatto sotto il controllo democratico della classe operaia organizzata in soviet (consigli), appoggiati, in paesi come la Cina dai consigli dei contadini. Un governo rivoluzionario dei lavoratori e dei contadini in Cina rinegozierebbe i termini degli investimenti stranieri nell’interesse dei lavoratori. I capitalisti nazionali invece sarebbero semplicemente espropriati e le loro proprietà usate nell’interesse della società nel suo complesso. Per difendere ed estendere le conquiste della Rivoluzione del 1949, un tale regime rafforzerebbe la pianificazione economica centralizzata e ristabilirebbe il monopolio statale del commercio estero.

Quale classe governerà?

Tra i più ardenti sostenitori della controrivoluzione “democratica” a Hong Kong vi è Sinistra classe rivoluzione (Scr) un gruppo che si spaccia per trotskista e che fa parte della Tendenza marxista internazionale (Tmi).  Liquidando la Cina come capitalista, Scr ha diversi articoli in cui offrono consigli tattici agli organizzatori delle proteste e chiedono che “il popolo di Hong Kong possa metter fine alla dittatura di Pechino” (rivoluzione.red, 16 settembre).

Il principale “contributo” di Scr è stato quello di fare agitazione a favore di uno sciopero generale per far cadere il governo di Hong Kong e sconfiggere il regime del Pcc. Il loro programma, in breve, è quello di svendere i lavoratori ai loro diretti nemici di classe: la borghesia di Hong Kong e i suoi padrini imperialisti.

In realtà, le proteste controrivoluzionarie si sono basate prevalentemente sulla piccola borghesia e sono state ostili alla classe operaia. Il tanto decantato “sciopero generale” del 5 agosto, preceduto da uno “sciopero dei banchieri” il primo agosto, è stato principalmente una mobilitazione di studenti, avvocati, contabili, insegnanti e altri professionisti. Molti datori di lavoro hanno incoraggiato il personale a prendersi la giornata libera e a partecipare. La città è rimasta paralizzata perché i manifestanti hanno bloccato il traffico e fermato i trasporti pubblici, minacciando i lavoratori dei trasporti. Lavoratori che sono stati minacciati anche durante l’occupazione dell’aeroporto del 12-13 agosto, che ha bloccato centinaia di voli in uno degli aeroporti più frequentati al mondo. I manifestanti hanno anche vandalizzato gli uffici della Federazione dei sindacati di Hong Kong, che sostiene Pechino.

Sostenendo la rivendicazione di elezioni libere, della riscrittura della costituzione e del “diritto all’autodeterminazione” di Hong Kong che mira a rovesciare l’amministrazione locale leale a Pechino, Scr si trova saldamente nel campo della controrivoluzione. Lì si ritrova in compagnia di gente che chiede che l’enclave diventi un protettorato dell’imperialismo statunitense oppure torni ai tempi del dominio coloniale britannico, al tempo in cui la gran parte della popolazione cinese viveva in squallidi bassifondi ed era schiavizzata come una massa di lavoratori poverissimi, mentre i comunisti e i militanti sindacali venivano sistematicamente repressi. Solo nel periodo immediatamente precedente al passaggio del potere alla Cina, i governanti britannici concessero un minimo di diritti democratici, per poterli usare come arma contro lo Stato operaio cinese.

Il programma di Scr per Hong Kong e Cina è in linea con la squallida storia della Tmi, che ha sostenuto assiduamente le campagne degli imperialisti contro lo Stato operaio degenerato sovietico. Nell’agosto-settembre 1991, gli antenati della Tmi nella tendenza Militant si unirono ai contro-rivoluzionari capitalisti sulle barricate di Boris Eltsin a Mosca. Al contrario, la nostra tendenza trotskista internazionale ha combattuto in difesa dello Stato operaio, distribuendo decine di migliaia di volantini che chiamavano i lavoratori sovietici a schiacciare le forze controrivoluzionarie guidate da Eltsin e sostenute dalla Casa Bianca di Bush Sr.

La questione posta dalla crisi di Hong Kong non è “dittatura o democrazia”, ma “quale classe governerà?” Nella loro campagna per distruggere l’Unione Sovietica e gli Stati operai burocraticamente deformati dell’Europa centrale e orientale, gli imperialisti hanno sostenuto ogni tipo di forze reazionarie, comprese quelle che sventolavano la bandiera della “democrazia” contro il “totalitarismo” stalinista. Lo scopo era quello di rovesciare i regimi comunisti in un modo o nell’altro, compreso l’uso di elezioni in cui contadini, altri strati piccolo-borghesi e lavoratori politicamente arretrati potevano essere mobilitati contro gli Stati operai.

Per capire il destino che attende le masse lavoratrici cinesi se la Rivoluzione del 1949 dovesse essere rovesciata, basta guardare ai Paesi dell’ex blocco sovietico. Gli standard di vita sono stati drasticamente ricacciati indietro e la “democrazia” che esiste è una sottile facciata che maschera la dittatura di classe che caratterizza tutte le società capitalistiche. Un quarto di secolo dopo la controrivoluzione capitalista in Unione Sovietica, la Cina è il più grande Paese rimanente in cui il dominio capitalista è stato rovesciato. La controrivoluzione capitalista in Cina sarebbe un’ulteriore colossale vittoria per l’imperialismo mondiale e una sconfitta per i lavoratori e gli oppressi in tutto il mondo.

L’appello alla democrazia borghese è un appello alla controrivoluzione. Siamo per la democrazia proletaria, un governo dei consigli in cui lavoratori, contadini e soldati eletti prenderebbero decisioni sullo sviluppo dell’economia e sull’organizzazione della società. Sotto la guida della enorme classe operaia cinese, settori non proletari come i contadini e gli impiegati di Hong Kong avrebbero di fatto molta più voce in capitolo su come viene gestita la società che in qualsiasi repubblica capitalista. Come spiegò Lenin rispetto alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 che portò la classe operaia al potere in Russia:

“Tutto l’apparato burocratico è stato spezzato, non ne è stato lasciato pietra su pietra. Tutti i vecchi giudici sono stati rimossi, il parlamento borghese è stato sciolto e appunto agli operai e ai contadini è stata data una rappresentanza molto più accessibile; i loro Soviet hanno sostituito la burocrazia o i loro Soviet sono stati messi al di sopra dei funzionari, ai loro Soviet è stata data la facoltà di eleggere i giudici. Questo solo fatto è bastato perché tutte le classi sfruttate riconoscessero il potere dei Soviet, cioè quella forma della dittatura del proletariato mille volte più democratica della più democratica repubblica borghese.” (La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, 1918)

La vera eredità di Tienanmen

Scr e l’insieme dei manifestanti sostenuti dalla Cia collegano falsamente i loro sforzi controrivoluzionari con lo spettro del “4 giugno”, il sollevamento proletario del 1989 incentrato su piazza Tienanmen a Pechino, che fu sanguinosamente represso dal regime del Pcc guidato da Deng Xiaoping. Scr e soci presentano il sollevamento del 1989 come un movimento di massa per la democrazia (borghese). Non era niente del genere! Gli eventi iniziarono con studenti che chiedevano più libertà politiche e protestavano contro la corruzione dei principali burocrati del Pcc. Alle proteste si unirono prima singoli lavoratori, poi i contingenti delle fabbriche e di altri luoghi di lavoro. I lavoratori furono spinti ad agire a causa dell’alta inflazione e della crescente disuguaglianza che accompagnava il programma del Pcc di costruire il “socialismo” tramite riforme di mercato. Mentre alcuni giovani volgevano lo sguardo alla democrazia capitalista di tipo occidentale, le proteste erano dominate dal canto dell’Internazionale, l’inno internazionale della classe operaia, e da altre espressioni di coscienza pro-socialista.

Varie organizzazioni operaie apparse durante le proteste avevano il carattere di organi embrionali di potere operaio. I “corpi di picchetti operai” e i gruppi di “arditi” di fabbrica, organizzati per proteggere gli studenti dalla repressione, sfidarono la proclamazione della legge marziale da parte di Deng. Gruppi di lavoratori iniziarono ad assumersi la responsabilità della sicurezza pubblica quando il governo di Pechino uscì di scena quasi completamente e la polizia scomparve dalle strade. Fu l’ingresso del proletariato cinese nelle proteste, a Pechino e in tutto il Paese, a mostrare che un’incipiente rivoluzione politica proletaria era in corso. Dopo settimane di paralisi, il 3-4 giugno, il regime del Pcc diede il via a una sanguinosa repressione a Pechino, spinto dalla paura non degli studenti che protestavano, ma della classe operaia mobilitata. Anche dopo il massacro, milioni di lavoratori in tutta la Cina continuarono a scioperare e protestare.

I lavoratori diedero prova di enorme coraggio e volontà di combattere e crearono legami con i soldati, che si consideravano i difensori del socialismo. Sette alti comandanti dell’Epl firmarono una petizione contro la legge marziale ordinata contro la popolazione. Da sola, tuttavia, la classe operaia non fu in grado di comprendere la necessità di una rivoluzione politica per rovesciare il potere deformato della burocrazia. Per dare alla classe operaia una tale consapevolezza serve l’intervento di un partito rivoluzionario d’avanguardia marxista. Noi onoriamo la memoria degli eroi proletari del 1989, la cui lotta ha dimostrato vividamente il potenziale rivoluzionario della classe operaia.

Scr e i suoi simili sputano sull’eredità di Tienanmen mentre servono la campagna imperialista per la controrivoluzione capitalista in Cina. Settant’anni dopo la sua rivoluzione, la Cina non è il Paese che era nel 1949, una società disperatamente arretrata, prevalentemente contadina, saccheggiata dalle potenze imperialiste e devastata da decenni di guerra civile. Eppure, nonostante gli enormi progressi compiuti nel frattempo, la Cina rimane sotto molti aspetti economicamente arretrata rispetto ai paesi imperialisti che dominano l’economia mondiale. Con il suo programma di pacificazione nei confronti degli imperialisti e della borghesia cinese e la soppressione politica del proletariato, la burocrazia del Pcc mina costantemente le conquiste della Rivoluzione del 1949.

La realizzazione del socialismo, una società senza classi basata sull’abbondanza materiale, richiede un’economia pianificata a livello internazionale che si avvalga della tecnologia e della capacità produttiva dei paesi capitalisti più avanzati di oggi e vada ben oltre. La strada verso il socialismo passa attraverso delle rivoluzioni proletarie in tutto il mondo capitalista, compresi i centri imperialisti degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Europa occidentale. Questa prospettiva è necessariamente legata alla lotta per mobilitare il proletariato cinese al fine di spazzare via il malgoverno burocratico. Ma la lotta rivoluzionaria ha bisogno di una leadership rivoluzionaria. Il nostro modello storico è il Partito bolscevico che, sotto V.I. Lenin e Leon Trotsky, guidò la Rivoluzione russa dell’ottobre 1917 concependola come l’inizio della lotta per la rivoluzione proletaria mondiale. La Lci si impegna a riforgiare la quarta internazionale di Trotsky per portare avanti la bandiera bolscevica.

[Adattato da Workers Vanguard n.1160, 6 settembre 2019]

 

Spartaco N. 84

Spartaco 84

Novembre 2019

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