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Spartaco n. 80

Settembre 2017

La Rivoluzione russa e l’emancipazione delle donne

(Donne e Rivoluzione)

Per celebrare il centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, riproduciamo di seguito un articolo, inizialmente apparso nelle pagine Women and Revolution di Spartacist (edizione inglese) n.59, primavera 2006.


“La ‘liberazione’ è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata da condizioni storiche, dallo stato dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, delle relazioni” (Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca,1846).

Oggigiorno milioni di donne, anche nelle “democrazie” capitaliste più avanzate, vivono vite dure e violente, fatte di miseria e di abbrutimento. Negli Stati Uniti, solo per fare due esempi di fanatismo misogino, il diritto d’aborto è sotto-posto ad attacchi crescenti e l’assistenza ai bambini è inaccessibile alla maggior parte delle lavoratrici. Nel Terzo mondo le condizioni delle donne sono enormemente peggiori. Ma solo 15 anni fa, in Unione Sovietica, le donne godevano di molti vantaggi, come delle istituzioni statali per la cura dei bambini, il pieno diritto d’aborto, l’accesso ad un ampio spettro di lavori e di professioni ed un maggior grado di eguaglianza economica con i loro colleghi uomini: insomma di una condizione per molti aspetti migliore di quella delle odierne società capitaliste.

Fu la rivoluzione bolscevica del 1917 che rese possibili queste conquiste. La Rivoluzione russa non si limitò ad un maquillage superficiale, ma fu, nelle parole dello storico Richard Stites una:

“classica rivoluzione sociale. Non un singolo evento ma un processo, un fenomeno che non può essere scatenato, innescato o avviato da un semplice avvicendamento al potere centrale e racchiuda la sua attività in leggi e decreti che enunciano i principi dell’eguaglianza. Una vera rivoluzione sociale in una società sottosviluppata non finisce con la ridistribuzione della proprietà, così come non può finire con la ridistribuzione dei portafogli ministeriali: è il risultato di una mobilitazione sociale. In parole povere, si tratta di corpi che escono in mezzo alla gente con in mente dei piani prestabiliti, con la capacità di realizzarli, e con l’euforia della rivoluzione. Significa insegnare, spingere, stimolare, martellare gli ostinati, gli ignoranti e gli arretrati con il mezzo supremo di tutta la propaganda rivoluzionaria: il messaggio e la convinzione che la rivoluzione è importante per la vita di tutti i giorni” (The Women’s Liberation Movement in Russia: Feminism, Nihilism, and Bolshevism, 1860-1930; Princeton University Press, 1978).

Questo tentativo di ricostruire la società da cima a fondo fu reso possibile dal rovesciamento del dominio zarista e capitalista e dalla presa del potere da parte dei soviet (consigli di operai e contadini) guidati dai bolscevichi nell’ottobre del 1917. Le tenute della nobiltà fondiaria vennero abolite, le terre vennero nazionalizzate e presto anche l’industria fu collettivizzata. Il nuovo Stato operaio mosse i primi passi verso la pianificazione dell’economia nell’interesse dei lavoratori. Ciò determinò enormi conquiste per le donne lavoratrici. La Rivoluzione russa cercò di consentire la più completa partecipazione delle donne alla vita economica, sociale e politica.

Da quando la controrivoluzione ha restaurato il capitalismo nel 1991-92, le donne dell’ex Unione Sovietica hanno conosciuto un peggioramento drammatico delle loro condizioni, che per certi versi somigliano oggi a quelle del Terzo mondo. La disoccupazione di massa, il crollo dell’aspettativa di vita e la rinascita dell’oscurantismo religioso (sia russo ortodosso che musulmano) sono solo tre esempi. Tra il 1991 e il 1997 il prodotto interno lordo è diminuito più dell’80 percento secondo le statistiche ufficiali (riduttive), l’investimento di capitali è crollato di più del 90 percento. Alla metà degli anni Novanta, il 40 percento della popolazione della Confederazione russa viveva al di sotto della soglia ufficiale di povertà, e il 36 percento appena al di sopra. Milioni di persone facevano la fame.

La liberazione delle donne e la rivoluzione socialista mondiale

I bolscevichi sapevano che la liberazione delle donne sarebbe rimasta una fantasia utopica se non ci fosse stato un sostanziale sviluppo economico. Il primo regime bolscevico lavorò per massimizzare le risorse disponibili e fece tutto il possibile per tradurre in pratica la promessa dell’emancipazione delle donne, istituendo tra l’altro uno speciale dipartimento del partito volto ad affrontare le necessità delle donne, lo Zhenotdel. Ma i loro sforzi si scontrarono ad ogni passo con la realtà: senza un massiccio investimento di risorse, i risultati erano limitati in tutti i sensi. Lev Trotsky, che guidò insieme a V.I. Lenin la Rivoluzione russa, spiegò che sin dall’inizio i bolscevichi sapevano che:

“Le risorse reali dello Stato non corrispondevano ai piani e alle intenzioni del partito comunista. La famiglia non può essere abolita: bisogna sostituirla. L’emancipazione vera e propria della donna è impossibile sul piano della ‘miseria socializzata’. L’esperienza rivelò ben presto questa dura verità formulata da Marx ottant’anni prima”. (La rivoluzione tradita, 1936)

L’estrema povertà del primo Stato operaio del mondo derivava in primo luogo dall’arretratezza economica e sociale ereditata dal vecchio impero zarista. Gli investimenti stranieri avevano creato fabbriche moderne nelle principali città, generando un proletariato potente e compatto, capace di fare una rivoluzione in un paese a maggioranza contadina. La maggior parte degli operai rivoluzionari erano figli o nipoti di contadini. Gli operai appoggiarono i loro cugini nelle campagne quando questi occuparono le proprietà terriere e divisero le terre tra chi le lavorava. L’alleanza tra operai e contadini (smychka) fu fondamentale nel determinare la vittoria della rivoluzione. Ma la massa di piccoli proprietari contadini era anche un bacino di arretratezza sociale ed economica.

Alle devastazioni determinate dalla Prima guerra mondiale si sommò la sanguinosa guerra civile (1918-20) che il governo bolscevico fu costretto a condurre contro gli eserciti della controrivoluzione e l’intervento imperialista, rigettando l’economia del paese indietro di decenni. Gli imperialisti imposero anche un blocco economico che isolò l’Unione Sovietica dall’economia mondiale e dalla divisione mondiale del lavoro. I marxisti sono sempre stati coscienti del fatto che l’abbondanza materiale necessaria a sradicare la divisione in classi della società e le forme di oppressione che essa genera, può derivare solo dal massimo livello di tecnologia e di scienza, nel contesto di un’economia pianificata a scala internazionale. La devastazione economica e l’isolamento in cui si venne a trovare lo Stato operaio sovietico determinarono enormi pressioni nel senso della burocratizzazione. Negli ultimi anni della sua vita Lenin, spesso in alleanza con Trotsky, lanciò una serie di battaglie nel partito contro le espressioni politiche di queste pressioni burocratiche. I bolscevichi sapevano che il socialismo poteva essere costruito solo su delle fondamenta di estensione mondiale, e si batterono per estendere la rivoluzione a scala internazionale, specialmente nei paesi capitalisti economicamente più sviluppati d’Europa. L’idea che si possa costruire il socialismo in un solo paese fu una perversione introdotta più tardi per cercare di giustificare la degenerazione burocratica della rivoluzione.

All’inizio del 1924, il partito comunista e lo Stato sovietico vennero ad essere dominati da una casta burocratica capeggiata da Stalin. L’uguaglianza delle donne voluta dai bolscevichi non fu completamente realizzata. La burocrazia stalinista abbandonò la lotta per la rivoluzione internazionale e ridusse i grandi ideali del comunismo a menzogne e falsificazioni burocratiche, tanto che alla fine, nel 1991-92, la classe operaia non lottò contro la distruzione della rivoluzione e la restaurazione del capitalismo avvenute con Boris Eltsin.

La Rivoluzione russa segnò l’inizio della grande ondata di lotte rivoluzionarie che percorse il mondo in opposizione alla carneficina della Prima guerra mondiale. La Rivoluzione d’Ottobre fu una potente ispirazione per la classe operaia internazionale. Nel 1918-19 la Germania, il paese capitalista più potente e sviluppato, era nel pieno di una situazione rivoluzionaria e quasi tutto il continente era in rivolta. I bolscevichi dedicarono una quantità di risorse non indifferente dello Stato sovietico alla lotta per la rivoluzione socialista mondiale, creando con questo obiettivo l’Internazionale comunista (Ic). Ma i giovani partiti dell’Ic in Europa avevano rotto soltanto da poco con le direzioni riformiste delle organizzazioni operaie di massa che avevano appoggiato i loro governi borghesi nella Prima guerra mondiale, e non furono dunque in grado di agire come partiti rivoluzionari d’avanguardia come avevano fatto i bolscevichi. La direzione riformista, filo capitalista e ultra sciovinista del Partito socialdemocratico tedesco (Spd) riuscì a soffocare la possibilità di una rivoluzione proletaria in Germania nel 1918-19 con l’aiuto delle forze dell’esercito e della polizia.

Furono proprio i partiti socialdemocratici come la Spd tedesca e il Partito laburista britannico i responsabili storicamente fondamentali della degenerazione della Rivoluzione russa. Adesso gridano insieme ai loro padroni capitalisti che il primo regime bolscevico di Lenin conduceva inevitabilmente al dispotismo stalinista, che il comunismo è fallito e che la “democrazia” capitalista è infinitamente preferibile al comunismo. Gli fanno eco molti giovani di sinistra, che fanno coincidere il comunismo con la degenerazione stalinista dello Stato operaio sovietico. La gioventù influenzata dagli anarchici pensa che ogni gerarchia sia implicitamente oppressiva e che la soluzione siano la piccola produzione, il decentramento e il vivere individualmente una “vita liberata”. In realtà è un vicolo cieco.

Nonostante il trionfo della casta burocratica nel 1924 e la successiva degenerazione della Rivoluzione russa, restarono le conquiste fondamentali della rivoluzione, che si concretizzavano nel rovesciamento dei rapporti di proprietà capitalisti e nell’istituzione di un’economia pianificata. Queste conquiste erano evidenti per esempio nella posizione materiale delle donne. E’ per questo che noi della Lega comunista internazionale, basandoci sull’eredità dell’Opposizione di sinistra di Trotsky che combatté Stalin e la degenerazione della rivoluzione, ci siamo schierati per la difesa militare incondizionata dell’Unione Sovietica dagli attacchi imperialisti e per una lotta intransigente contro tutte le minacce di controrivoluzione capitalista, interne ed esterne. Nello stesso momento sapevamo che la casta burocratica dominante costituiva una minaccia mortale per l’esistenza stessa dello Stato operaio. Facevamo perciò appello ad una rivoluzione politica nell’Urss per cacciare la burocrazia, restaurare la democrazia operaia nei soviet e continuare la lotta per la rivoluzione proletaria internazionale, necessaria alla costruzione del socialismo.

L’eredità del lavoro dei bolscevichi tra le donne

Negli ultimi quindici anni sono stati pubblicati molti libri che testimoniano le enormi conquiste delle donne a seguito della Rivoluzione russa. I bolscevichi iniziarono immediatamente con l’introduzione di un Codice civile che spazzò via d’un sol colpo secoli di leggi sulla proprietà e di privilegi degli uomini. Il prezioso libro di Wendy Goldman: Women, the State and Revolution: Soviet Family Policy and Social Life, 1917-1936, (Cambridge University Press, 1993), si concentra sui tre Codici della famiglia promulgati nel 1918, nel 1926 e nel 1936, considerandoli come punti di svolta della politica sovietica e come indici del programma dello Stato e del partito in relazione alla questione femminile. Il Codice del 1918, “la legislazione famigliare più progressista mai vista al mondo”, venne sostituito dal Codice del 1926, che entrò in vigore in un periodo d’intensa lotta politica tra la burocrazia stalinista e le correnti dell’opposizione che la contrastavano, soprattutto l’Opposizione di sinistra di Trotsky. Il Codice della famiglia del 1936, che riabilitò la famiglia nell’ideologia stalinista ufficiale e rese illegale l’aborto, codificò una pesante ritirata dalla lotta per l’uguaglianza delle donne sotto Stalin.

Il libro della Goldman è solo una delle molte pubblicazioni che, a partire dal 1991, sono state stimolate dalla possibilità di accedere agli archivi dell’ex Unione Sovietica. Un altro libro, Bolshevik Women (Cambridge University Press, 1997) di Barbara Evans Clements, è una biografia corale centrata su di una serie di militanti di lunga data del partito. Clements ha raccolto i dati relativi a diverse centinaia di quadri donne, vecchie bolsceviche (iscritte al partito prima del 1917), analizzandoli in base alle origini, al tipo di educazione ricevuta e all’attività svolta nel partito.

Bolshevik Women si concentra su alcune militanti di primo piano del partito come Elena Stassova, che fu membro del Comitato centrale e segretaria del Cc di Pietrogrado nel 1917. Un’altra è Evgeniia Bosh, che Victor Serge (che fu per un periodo militante dell’Opposizione di sinistra per poi rompere con Trotsky), descrisse come “rivelatasi una dei capi militari più capaci del primo periodo della guerra civile” (Bolshevik Women). Bosh si suicidò nel gennaio del 1925 quando la fazione di Stalin tolse a Trotsky la carica di Commissario del popolo alla guerra. Un’altra ancora era Inessa Armand, amica personale e collaboratrice di Lenin, che fu per prima a capo dello Zhenotdel e vi rimase fino alla morte avvenuta nel 1920.

Meno note sono le figure di Konkordiia Samoilova, quadro di lunga data del partito, che dopo il 1917 si dedicò principalmente all’attività pratica dello Zhenotdel; oppure Klavdiia Nikolaeva, che fu rimossa dalla direzione dello Zhenotdel nel 1925 per il suo appoggio all’Opposizione contro la burocrazia; o Rozaliia Zemliachka, che diventò invece una burocrate inamovibile e fu l’unica donna a far parte del Consiglio dei commissari del popolo sotto Stalin; o, per finire, Alexandra Artiukhina, che fu a capo dello Zhenotdel dal 1925 fino a quando Stalin ne decretò lo scioglimento nel 1930.

Il lavoro della Lega comunista internazionale tra le donne si rifà alle tradizioni sviluppate dai bolscevichi di Lenin. Nei primi numeri di Women and Revolution (W&R) pubblicammo una ricerca originale sulla Rivoluzione russa e il lavoro dei bolscevichi tra le donne scritta da Dale Ross, la prima caporedattrice di W&R, che si basava sulla sua tesi di dottorato del 1973: The Role of the Women of Petrograd in War, Revolution and Counter-Revolution, 1914-1921. Il secondo ed il terzo numero di W&R (settembre-ottobre 1971 e maggio 1972) pubblicarono le risoluzioni del Terzo congresso dell’Internazionale comunista (1921) sui “Metodi per il lavoro tra le donne del Partito comunista” dei bolscevichi. Le nuove informazioni disponibili hanno ulteriormente confermato ed arricchito la nostra solidarietà con la via bolscevica verso l’emancipazione delle donne.

I numeri successivi di W&R indagarono altri aspetti della lotta per la liberazione delle donne dell’Urss. Tra i più importanti c’è “Le origini del lavoro dei bolscevichi tra le donne dell’Oriente sovietico” (W&R n.12, estate 1976). Questo articolo descrive in dettaglio gli eroici sforzi intrapresi dal governo sovietico per trasformare la condizione delle donne orribilmente oppresse dell’Asia centrale musulmana, dove persino le attiviste dello Zhenotdel erano costrette ad indossare il velo per poter raggiungere queste donne recluse. Lo studio di questo aspetto importantissimo non rientra però tra gli obiettivi di questo articolo.

Marxismo contro femminismo

Per i marxisti la speciale oppressione delle donne deriva direttamente dalla divisione in classi della società e può essere estirpata solo con la distruzione della proprietà privata dei mezzi di produzione. L’afflusso delle donne nelle file del proletariato apre la strada della liberazione: la loro posizione sul punto della produzione gli conferisce il potere sociale, analogo a quello dei loro compagni di lavoro, per cambiare il sistema capitalista e porre le basi per l’indipendenza sociale delle donne fuori dai confini dell’istituzione della famiglia. Il marxismo si distingue dal femminismo principalmente sulla questione di quale è la principale divisione della società: mentre per le femministe è il conflitto tra uomini e donne, per i marxisti, è la divisione in classi, il conflitto tra sfruttati e sfruttatori. Una donna operaia ha molte più cose in comune con i suoi compagni di lavoro dell’altro sesso che con una donna capitalista, e l’emancipazione delle donne è compito dell’intera classe operaia nel suo insieme.

La concezione marxista per cui la famiglia è la sorgente principale dell’oppressione delle donne risale alla Ideologia tedesca, opera in cui Marx ed Engels formularono per la prima volta l’idea che la famiglia non sia un’istituzione immutabile ed eterna, ma una relazione sociale sottoposta a cambiamenti storici. Nel suo classico libro L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) Engels, basandosi sul materiale disponibile all’epoca, tracciò l’origine delle istituzioni della famiglia e dello Stato, facendole risalire alla divisione in classi della società. Con lo sviluppo della capacità sociale di produrre un surplus che andava oltre quello della mera sussistenza, poté svilupparsi una classe dominante che non lavorava e che si basava sull’appropriazione privata del surplus, facendo uscire l’umanità dal primitivo egualitarismo dell’Età della pietra. La centralità della famiglia derivava dal suo ruolo nella trasmissione ereditaria della proprietà, che richiedeva la monogamia delle donne e la loro subordinazione sociale. Engels la definì “la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile”.

Un’economia collettivizzata e pianificata cerca di impiegare in maniera produttiva tutti gli adulti al fine di rendere massima la ricchezza disponibile per tutti (incluso il tempo libero). Al contrario, nei continui cicli di crescita e crisi dell’economia capitalista, ogni impresa capitalista cerca di rendere massimo il suo tasso di profitto. Le aziende capitaliste cercano inevitabilmente di ridurre i costi (e aumentare i profitti) diminuendo sia i salari sia i posti di lavoro, rendendo più povera la classe operaia, generando un bacino di operai cronicamente disoccupati e facendo lavorare più a lungo quelli che un lavoro ce l’hanno. Le donne, isolate nella famiglia, costituiscono un’importante componente dell’esercito di riserva dei disoccupati, vengono assunte durante le fasi di crescita economica e “ricacciate in cucina” nei periodi difficili. Quando le donne affluiscono in gran numero nella forza lavoro, i capitalisti cercano allora di ridurre i salari reali degli uomini, in modo che sia necessario il lavoro di due adulti per mantenere una famiglia.

Il ruolo necessario della famiglia, la funzione che deve essere sostituita e non si può semplicemente abolire, è la crescita delle future generazioni. Sotto al capitalismo, le masse dei giovani sono destinate al lavoro salariato e a fare da carne da cannone negli eserciti borghesi, e la famiglia svolge un ruolo importante nell’insegnargli ad obbedire all’autorità. E’ anche una delle principali sorgenti tramite cui viene inculcato l’oscurantismo religioso che serve da freno ideologico alla coscienza sociale.

Sebbene molti aspetti del sistema capitalista non facciano altro che minare e corrodere la famiglia (per fare due esempi, il lavoro delle donne e l’educazione pubblica), il capitalismo non può fornire una soluzione sistematica al doppio fardello che le donne sono costrette a portare e deve cercare di puntellare la stessa istituzione che contribuisce ad indebolire. Le femministe borghesi, per le quali l’unico problema del sistema capitalista è che le costringe ad un ruolo subordinato, affrontano la questione chiedendo una diversa divisione dei compiti domestici all’interno della famiglia, in modo che gli uomini si prendano maggiore responsabilità nei lavori domestici. I marxisti cercano invece di trasportare completamente nella sfera pubblica tutto l’insieme delle attività domestiche. Come disse il dirigente bolscevico Evgeny Preobrazhensky (che più tardi sarebbe stato un alleato di Trotsky), “Il nostro compito non è di lottare per la giustizia nella divisione del lavoro tra i sessi. Il nostro compito è di liberare gli uomini e le donne dai meschini lavori della casa” (Women, the State and Revolution). Perciò uno dei compiti della rivoluzione socialista è la totale sostituzione dell’istituzione della famiglia con la cura collettiva dei figli, mense e lavanderie, congedi pagati di maternità, sanità gratuita, e misure speciali per coinvolgere appieno le donne nella vita sociale e politica.

In Russia il movimento femminista faceva parte di una vasta corrente democratico borghese che si opponeva allo zarismo ed aspirava a modernizzare la Russia e a farne una società capitalista industriale. Per esempio, nel 1906, nel mezzo del fermento provocato dalla prima Rivoluzione russa, le tre principali organizzazioni femministe, l’Unione per l’uguaglianza dei diritti delle donne, il Partito progressista delle donne e la Mutua società filantropica delle donne, indirizzarono i loro sforzi all’approvazione di una legge per i pari diritti e il suffragio delle donne da parte della Duma, il parlamento da poco istituito. Quando l’autocrazia sciolse la prima e la seconda Duma, che erano state dominate dai liberali, il movimento femminista entrò in una fase di declino.

Nel 1917 la principale “questione femminile” agli occhi delle operaie era l’opposizione alla sanguinosa guerra imperialista che continuava ormai da tre anni. La guerra fu la scintilla che innescò la rivolta di febbraio, iniziata con una gigantesca manifestazione di donne per la Giornata internazionale delle donne. Dopo l’abdicazione dello Zar e la formazione del Governo provvisorio democratico borghese, la maggior parte dei partiti considerati di sinistra o riformisti, tra i quali anche le femministe russe, pensavano che i principali obiettivi della rivoluzione fossero ormai stati raggiunti. Abbandonarono perciò la loro opposizione alla guerra e appoggiarono la ripresa della carneficina imperialista in nome della “democrazia”.

I bolscevichi si batterono invece affinché i soviet dei deputati operai e contadini diventassero organismi di potere degli sfruttati e degli oppressi, comprese le donne, e per la fine immediata della guerra senza annessioni di altri paesi. I migliori combattenti per la liberazione delle donne erano i bolscevichi, che capivano che la liberazione delle donne non può essere separata dalla liberazione della classe operaia nel suo insieme. Non può neppure essere realizzata, soprattutto in un paese arretrato, anche dal miglior governo rivoluzionario, nell’isolamento politico, sociale ed economico dal resto del mondo.

Le origini del lavoro dei bolscevichi tra le donne

La società russa era pervasa dal più grottesco sciovinismo contro le donne. Nel 1917 i contadini, che erano usciti dalla servitù della gleba da poco più di cinquant’anni, costituivano l’85 percento della popolazione. I villaggi vivevano in un sistema basato su di una rigida gerarchia patriarcale, senza che esistesse alcuna infrastruttura moderna, senza sistemi fognari, elettricità né strade asfaltate. L’ignoranza e l’analfabetismo erano la regola, e imperversavano superstizioni di ogni tipo. Le antiche istituzioni del dvor [l’unità famigliare allargata che viveva e lavorava in una fattoria, sotto l’autorità del patriarca, ndt.] e della comunità di villaggio, determinavano la proprietà della terra e le condizioni di vita e imponevano la degradazione delle donne. Queste forme estreme di oppressione erano il corollario inevitabile della bassa produttività dell’agricoltura russa, che utilizzava ancora tecniche vecchie di secoli. Le donne contadine erano considerate bestie da soma. Per esempio le batrachka erano braccianti agricole che venivano assunte come “mogli” per una stagione e poi sbattute fuori appena rimanevano incinte. Ecco come una contadina descrive la sua vita: “In campagna pensano che le donne siano cavalli da tiro. Lavori tutta la vita per tuo marito e per tutta la sua famiglia, prendi le botte e subisci ogni tipo di umiliazione, ma non conta, non hai altro posto dove andare: sei incatenata al matrimonio” (ibid.).

Tuttavia già nel 1914 le donne formano un terzo della piccola ma potente forza lavoro industriale della Russia. Il programma dei bolscevichi si occupava delle loro esigenze principali con rivendicazioni come quella di uguale paga per uguale lavoro, di congedi di maternità pagati e di strutture per l’assistenza ai bambini nelle fabbriche, la cui assenza influiva fortemente sulla mortalità infantile. Circa due terzi dei bambini delle operaie di fabbrica morivano prima di compiere un anno. Il partito faceva degli sforzi particolari per difendere le donne dagli abusi e dai pestaggi dei mariti, e si opponeva a tutte le forme di discriminazione e di oppressione, ovunque comparissero, agendo come un tribuno del popolo in base alla concezione leninista spiegata in Che fare (1902). Un esempio fu la battaglia lanciata nei sindacati dopo la Rivoluzione di febbraio contro la proposta di affrontare la disoccupazione a partire dal licenziamento delle donne sposate il cui marito aveva un lavoro.

Questa politica fu applicata tra l’altro nelle fabbriche di munizioni Putilov e nelle acciaierie di Vyborg, e i bolscevichi vi si opposero vedendovi una minaccia all’unità politica del proletariato. Prima della rivoluzione, centinaia di donne erano militanti del Partito bolscevico e partecipavano a tutti gli aspetti del lavoro del partito, sia legali che clandestini, lavorando anche come funzionarie per i comitati locali del partito, corrieri, agitatrici e scrittrici.

Molte donne, confinate alla casa e alla famiglia, si trovano isolate da ogni interazione sociale e politica e possono essere pertanto un serbatoio di coscienza arretrata. Ma come disse Clara Zetkin di fronte al Congresso dell’Internazionale comunista del 1921: “O la rivoluzione conquisterà le masse femminili, o le conquisterà la controrivoluzione” (Protokoll des III.Weltkongresses der Kommunistischen Internationale) [nostra traduzione]. Nel periodo antecedente la Prima guerra mondiale, i social-democratici tedeschi condussero un lavoro pionieristico di costruzione di “organizzazioni transitorie” per le donne: organismi speciali, legati al partito tramite i suoi quadri più coscienti, che si occupavano della battaglia per i diritti delle donne e di altre questioni politiche cruciali, svolgevano un lavoro di educazione e pubblicavano un giornale. I bolscevichi russi si sollevarono sulle spalle dei loro compagni tedeschi, in particolare svolgendo un importante lavoro di partito tra le donne nelle fabbriche. Grazie alla costruzione di organizzazioni di transizione, alla fondazione del giornale Rabotnitsa (L’operaia) e, dopo la rivoluzione, allo Zhenotdel, i bolscevichi riuscirono a mobilitare masse di donne sia tra la classe operaia che tra i contadini, che altrimenti il partito non avrebbe potuto raggiungere.

Rabotnitsa organizzò riunioni di massa e manifestazioni a Pietrogrado contro la guerra e il carovita, le due principali questioni che galvanizzavano le donne operaie. La prima conferenza cittadina delle operaie di Pietrogrado, organizzata da Rabotnitsa nell’ottobre del 1917, dovette essere sospesa anticipatamente per consentire alle delegate di partecipare all’insurrezione. Fu riconvocata solo più tardi. Tra i suoi risultati vi furono delle mozioni che chiedevano una giornata lavorativa standard di otto ore e il divieto del lavoro al di sotto dei 16 anni. Uno degli scopi della conferenza era quello di mobilitare le operaie che non appartenevano al partito per l’insurrezione e conquistarle agli obiettivi che il governo sovietico aveva in programma di realizzare dopo l’istituzione della dittatura del proletariato.

Il debutto della rivoluzione in Russia fu possibile in larga misura grazie al risveglio politico delle donne sfruttate delle città e dei villaggi, che presero parte a questa missione storica. Anche i più acerrimi avversari della Rivoluzione d’Ottobre, come i menscevichi russi, i “socialisti” che proponevano di tornare al dominio capitalista, dovettero riconoscere a malincuore il successo dei bolscevichi. Il leader menscevico Yuri Martov, scrisse così al suo compagno Pavel Axelrod, dimostrando tra l’altro il suo disprezzo per le masse proletarie:

“Faresti fatica ad immaginare che nel recente passato (appena prima della mia partenza) c’era un forte, autentico fanatismo verso i bolscevichi, una vera adorazione di Lenin e di Trotsky ed un odio isterico nei nostri confronti, in una massa importante di operaie di Pietrogrado, sia nelle fabbriche che nelle officine. Ciò si spiega in larga misura col fatto che il proletariato femminile russo, a causa dell’analfabetismo e dell’impotenza, poteva essere attratto in massa alla ‘politica’ solo grazie al meccanismo statale (gli infiniti corsi d’educazione e le istituzioni per l’agitazione ‘culturale’, le celebrazioni e le manifestazioni ufficiali e, last but not least, i privilegi materiali). Perciò le parole che si trovano ogni tanto nelle lettere delle operaie alla Pravda, del genere ‘solo dopo l’insurrezione d’Ottobre noi operaie abbiamo visto il sole’ non sono solo vuota retorica”. (“Lettera a P. B. Axelrod”, 5 aprile 1921, Yu. O.Martov, Letters 1916-1922, Chalidze Publications, 1990).

Il primo governo sovietico e il Codice della famiglia del 1918

La rivoluzione suscitò una folata d’ottimismo e aspettative di una società costruita in base a principi socialisti. Tra i giovani divampavano discussioni sulle relazioni sessuali, la crescita dei figli e il carattere della famiglia nel periodo di transizione al socialismo. L’energia creativa si riversò anche nel campo della cultura, le cui priorità cambiarono a riflettere l’idea diffusa che la famiglia si sarebbe rapidamente estinta (si veda “La pianificazione della vita collettiva alle origini dell’Unione Sovietica: l’architettura come mezzo di trasformazione sociale”, W&R n. 11, primavera 1976).

La legislazione sovietica dell’epoca dava alle donne russe un livello d’uguaglianza e libertà che non è stato raggiunto ancora oggi neppure nei paesi capitalisti “democratici” economicamente più sviluppati. Ma c’era un problema, catturato in poche parole da A.T. Stelmakhovich, il presidente del tribunale provinciale di Mosca: “La liberazione delle donne (…) è un mito senza una base economica che garantisca ad ogni operaia la piena indipendenza materiale” (Women, the State and Revolution).

Meno di un mese dopo la rivoluzione, due decreti sancirono il matrimonio civile e consentirono il divorzio su richiesta di uno dei due partner, superando d’un colpo tutto ciò che avessero mai fatto e nemmeno tentato il ministero della giustizia prerivoluzionario, i giornalisti progressisti, le femministe o la Duma. I divorzi si moltiplicarono immediatamente. Il Codice sul matrimonio, la famiglia e l’affidamento, ratificato nell’ottobre del 1919 dall’organismo di governo dello Stato, il Comitato esecutivo centrale dei soviet (Cec), spazzò via secoli di potere patriarcale e clericale, istituendo una nuova dottrina basata sui diritti individuali e sull’uguaglianza dei sessi.

I bolscevichi inoltre abolirono tutte le leggi contro gli atti omosessuali ed altre attività sessuali consensuali. La posizione dei bolscevichi fu spiegata da un opuscolo di Grigorii Batkis, il direttore dell’Istituto moscovita di igiene sociale, intitolato La rivoluzione sessuale in Russia (1923): “La legislazione sovietica si basa sul seguente principio: ‘ Dichiara l’assoluta non interferenza dello Stato e della società nelle questioni sessuali, nella misura in cui nessuno ne è danneggiato e non interferiscono con gli interessi di nessuno’” (John Lauritsen e David Thorstad, The Early Homosexual Rights Movement (1864-1935), Times Change Press, 1974).

Al fine di redigere il nuovo Codice della famiglia, nell’agosto del 1918 venne istituito un comitato presieduto da A.G. Goikhbarg, professore di legge ed ex menscevico. I giuristi descrissero il Codice come una “legislazione che non è socialista, ma del periodo di transizione”, analogamente allo stesso Stato sovietico che, in quanto dittatura del proletariato, rappresentava un regime transitorio di preparazione che doveva portare dal capitalismo al socialismo (Goldman, op. cit.).

Come disse Goikhbarg, con eccessivo ottimismo, i bolscevichi prevedevano la possibilità di “eliminare il bisogno di determinate registrazioni, come la registrazione dei matrimoni, e di sostituire a breve la famiglia con una differenziazione più razionale e ragionevole, basata sugli individui presi separatamente”. Aggiunse anche che “il potere proletario sviluppa i suoi codici e leggi in maniera dialettica, in modo che la loro esistenza quotidiana renda inutile la loro stessa esistenza”. Quando “gli orpelli dello stato di marito e di moglie” sarebbero “diventati obsoleti”, la famiglia si sarebbe dissolta e sarebbe stata sostituita da relazioni sociali rivoluzionarie basate sull’eguaglianza delle donne. Solo allora, nelle parole del sociologo sovietico S. Ia. Volfson, la durata del matrimonio sarebbe stata “definita esclusivamente dalla reciproca inclinazione degli sposi” (ibid.). Allora il divorzio sarebbe stato deciso chiudendo una porta, prevedeva l’architetto L. Sabsovich.

Le nuove leggi sul matrimonio e sul divorzio godettero di grande popolarità. Tuttavia, data la tradizionale responsabilità femminile nei confronti dei bambini e la maggior difficoltà per le donne di trovare e tenere un posto di lavoro, il divorzio si rivelava spesso più difficile per loro che per gli uomini. Per questa ragione venne istituita la clausola degli alimenti per i poveri e i disabili di ambo i sessi, resa necessaria dall’incapacità dello Stato in quel periodo di fornire lavoro a tutti. Il Codice del 1918 eliminò la distinzione tra figli “legittimi” e “illegittimi”, ricorrendo alla terminologia accuratamente scelta di “figli di genitori che non sono registrati in matrimonio”. In questo modo le donne potevano pretendere un sostegno per i figli anche da uomini con cui non erano sposate. Il Codice sanciva anche il diritto di tutti i figli ad un sostegno da parte dei genitori sino all’età di 18 anni, e il diritto di ogni coniuge a disporre di una sua proprietà. Nell’attuazione delle misure stabilite dal Codice, i giudici pendevano di solito dalla parte della donna e del bambino, per il fatto che il sostegno ai figli era prioritario rispetto alla protezione degli interessi finanziari dell’uomo nei processi. In almeno un caso, un giudice divise in tre il mantenimento del figlio dato che la madre era stata a letto con tre uomini diversi.

Nel corso dei dibattiti che accompagnarono la scrittura del Codice, Goikhbarg dovette difenderlo dai critici che volevano la totale abolizione del matrimonio. Per esempio, N. A. Roslavets, una delegata ucraina, chiese che il Cec dei soviet respingesse la sezione del Codice relativa al matrimonio, sostenendo che si allontanava “dalla libertà nelle relazioni matrimoniali che è una delle condizioni della libertà individuale”. “Non capisco perché questo Codice sancisca la monogamia obbligatoria” disse. Si oppose anche alla clausola sui (limitatissimi) alimenti definendoli “nient’altro che un pagamento per l’amore” (ibid.). Più tardi Goikhbarg raccontò: “Ci gridavano: ‘registrazione del matrimonio, matrimonio formale, che razza di socialismo è mai questo?’” La sua tesi principale era che la registrazione civile del matrimonio era decisiva nella lotta contro la presa medievale della chiesa ortodossa russa. Senza matrimonio civile, la popolazione avrebbe fatto ricorso alle cerimonie religiose e la Chiesa sarebbe rifiorita. Definì le critiche della Roslavets “radicali a parole” ma “reazionarie nei fatti”. Goikhbarg evidenziò il fatto che gli alimenti erano limitati ai disabili indigenti e che era impossibile abolire tutto d’un sol colpo. Disse: “Dobbiamo accettarlo [il Codice] sapendo che non si tratta di una misura socialista, perché col socialismo resterà ben poco in termini di legislazione. Resteranno solo delle normative estremamente limitate” (ibid.).

Sviluppo combinato e diseguale

La Rivoluzione d’Ottobre consegnò il potere nelle mani di una classe operaia numericamente esigua in un paese relativamente sottosviluppato. I bolscevichi perciò si trovarono a dover affrontare dei problemi che Marx ed Engels non avrebbero potuto ipotizzare, avendo previsto che la rivoluzione proletaria avvenisse prima nei paesi più industrializzati. I bolscevichi si aspettavano che la Rivoluzione russa stimolasse gli operai dei paesi d’Europa economicamente più sviluppati a rovesciare le rispettive borghesie e che queste nuove rivoluzioni sarebbero a loro volta accorse in aiuto del proletariato russo. Questi Stati operai non avrebbero condotto immediatamente a delle società socialiste, ma sarebbero stati dei regimi di transizione che avrebbero posto le fondamenta del socialismo sulla base di un’economia pianificata a scala internazionale, in cui non vi sarebbero state più distinzioni di classe e in cui anche lo Stato si sarebbe estinto.

In Russia la presa del potere avvenne dopo tre anni di guerra mondiale, che avevano distrutto i rifornimenti alimentari, spingendo le città alla fame. Alla fine della guerra civile il paese era in rovina. Il sistema dei trasporti era crollato, petrolio e carbone non arrivavano più nelle aree urbane. Bambini affamati e senza tetto, i besprizorniki, si aggiravano in bande nelle campagne e nelle città. Lo scrittore Viktor Shklovsky scrisse che, nel terribile inverno russo, per la mancanza di combustibile “coloro che vivevano in edifici con riscaldamento centralizzato morivano come mosche. Morivano congelati interi appartamenti” (ibid.).

Il crollo delle forze produttive superò ogni precedente storico. Il paese e il suo governo erano sospesi sull’orlo dell’abisso. Anche se i bolscevichi vinsero la guerra civile, il reddito nazionale russo era crollato nel frattempo ad un terzo del livello precedente alla guerra e la produzione industriale a meno di un quinto. Alla fine del 1921 Mosca aveva perso metà della popolazione, Pietrogrado due terzi. Poi il paese fu colpito da due anni di carestia, da una tempesta di sabbia e un’invasione di locuste che portarono la fame nelle regioni meridionali e occidentali. In queste zone morirono dal 90 al 95 percento dei bambini al di sotto dei tre anni. Quelli che sopravvissero si ritrovarono abbandonati, senza cibo e senza casa, essendo morti uno o entrambi i genitori. Si verificarono episodi di cannibalismo.

Il prezzo pagato da tutti gli strati della società fu terribile. Il 13 percento dei quadri bolscevichi femminili studiati dalla Clement morirono tra il 1917 e il 1921, quasi tutti di malattie infettive. Inessa Armand, il capo dello Zhenotdel e la Samoilova morirono entrambe di colera. Samoilova contrasse la malattia mentre lavorava come attivista del partito sul fiume Volga. Inorridita dalle condizioni che si incontravano sul delta, passò i suoi ultimi giorni spingendo il comitato locale del partito perché facesse qualcosa.

Come disse Marx, “il diritto non può mai essere superiore alla struttura economica della società ed al livello culturale che essa determina” (Critica del programma di Gotha, 1875). I bolscevichi sapevano che, dati i secoli d’oppressione e la devastazione subita dal paese, anche le leggi più democratiche non avrebbero potuto proteggere le donne più vulnerabili, operaie ma soprattutto contadine, che continuavano a subire miseria e degradazione. Finché la famiglia non fosse sostituita da una vita collettiva e dall’educazione in comune dei bambini, le leggi sulle effettive condizioni sociali restava parte necessaria della lotta politica per una nuova società.

La protezione della madre e del bambino

Subito dopo la rivoluzione, il governo lanciò una campagna per fornire strutture sociali e culturali e servizi comuni alle lavoratrici e per coinvolgerle nei programmi di addestramento e di educazione. Il Codice del lavoro del 1918 consentiva degli intervalli pagati di 30 minuti ogni tre ore almeno per l’allattamento. Alle donne incinte e in allattamento era vietato, per proteggerle, il lavoro notturno e straordinario. Questo richiedeva continue lotte con alcuni manager di Stato che vedevano queste misure come un peso finanziario aggiuntivo.

La misura legislativa che rappresentò la massima conquista per le donne operaie fu il programma di assicurazioni per la maternità del 1918, elaborato e voluto da Alexandra Kollontai, il primo Commissario del popolo all’assistenza sociale, che fu anche a capo dello Zhenotdel dal 1920 al 1922. Questa legge garantiva un congedo di maternità a pieno stipendio di otto settimane, delle pause per l’allattamento e delle strutture per riposare nelle fabbriche, assistenza prima e dopo il parto e contributi economici. Fu gestita tramite la Commissione per la protezione della madre e del bambino, collegata col Commissariato alla salute e capeggiata da un medico bolscevico, Vera Lebedeva. Questo programma, con le sue reti di cliniche di maternità, cliniche pediatriche, consultori, centri di alimentazione, asili, case per le madri e i bambini, rappresentò probabilmente la più popolare tra le donne russe di tutte le innovazioni introdotte dal regime sovietico.

Negli anni Venti e Trenta le donne potevano comunemente prendere diversi giorni di permessi retribuiti dal lavoro sotto forma di congedi mestruali. L’Urss fu probabilmente l’unico paese del mondo ad aver preso una misura del genere nella storia della protezione delle operaie. Specialisti condussero delle ricerche sugli effetti dei lavori pesanti sulle donne. Una studiosa scrisse che “il mantenimento della salute delle operaie sembra essere stata la preoccupazione principale delle ricerche condotte in questo periodo nel campo della protezione dei lavoratori” (Melanie Ilic, Women Workers in the Soviet Interwar Economy: From “Protection” to “Equality”; St. Martin’s Press, 1999). Lavori faticosi potevano determinare la perdita o il ritardo nel ciclo, specialmente tra le contadine. La soluzione di questo problema, con l’introduzione di macchine e tecnologie che limitassero al minimo gli sforzi ed ogni potenziale pericolo legato al lavoro industriale e agricolo per tutti i lavoratori, uomini e donne, andava all’epoca molto al di là delle capacità dell’economia sovietica.

Aborto: gratuito e su richiesta

Nel 1920 il governo sovietico emanò un decreto che cancellava le sanzioni legali contro l’aborto. Fu il primo governo al mondo a farlo:

“Poiché l’eredità del passato e le difficili condizioni economiche del presente spingono alcune donne a praticare l’aborto, il Commissariato del popolo alla salute e all’assistenza sociale e il Commissariato del popolo alla giustizia ritengono inappropriato il ricorso a misure penali e pertanto, al fine di proteggere la salute delle donne e proteggere la prole da approfittatori avidi o ignoranti, si decide che: I. Gli aborti, le interruzioni con mezzi artificiali della gravidanza, saranno liberi e gratuiti e verranno praticati in ospedali di Stato, dove le donne si vedranno garantire operazioni condotte nella massima sicurezza” (“Decreto del Commissariato del popolo alla salute e all’assistenza sociale e del Commissariato del popolo alla giustizia della Russia sovietica”, tradotto da Die Kommunistische Fraueninternationale, aprile 1921, in W&R n. 34, primavera 1988).

Anche l’attuazione di questo decreto si scontrò con la mancanza di risorse. La carenza di anestetici, a fronte di un’enorme richiesta, provocò l’orribile conseguenza che l’aborto veniva praticato senza anestesia. La legge prevedeva che tutti gli aborti fossero praticati da medici in strutture ospedaliere, ma nel paese non c’erano strutture adeguate. Si diede priorità alle operaie. Nelle campagne molte donne non avevano nemmeno accesso alle strutture pubbliche. Di conseguenza le mammane continuarono a praticare aborti rischiosi e migliaia di donne dovettero essere ricoverate negli ospedali per le conseguenze di queste pratiche pericolose.

Dottori e funzionari sanitari sostenevano la necessità impellente di una contraccezione di qualità, che nell’arretrata Russia era praticamente inaccessibile. Alla metà degli anni Venti, la Commissione per la protezione della madre e del bambino proclamò ufficialmente che tutte le stazioni ginecologiche e i consultori dovevano fornire informazioni sui metodi di controllo delle nascite. La mancanza di contraccettivi era dovuta in parte alla carenza di materie prime come la gomma, diretta conseguenza del blocco imperialista dell’Unione Sovietica. Pur riconoscendo che l’Unione Sovietica fu il primo paese al mondo a garantire alle donne l’aborto gratuito e legale, Goldman sostiene che i bolscevichi non riconobbero mai l’aborto come diritto delle donne, ma solo come una necessità per la salute pubblica. Certamente il fatto che il decreto si riferisca all’aborto come ad “un male” suona strano alle orecchie del Ventunesimo secolo, abituate a sentir usare parole del genere solo dai bigotti religiosi. Ma l’aborto era molto più pericoloso negli anni Venti, prima dello sviluppo degli antibiotici ed in un paese in cui persino l’igiene di base restava un grave problema. I bolscevichi si preoccupavano soprattutto di migliorare la protezione delle madri e dei bambini, che consideravano responsabilità dello Stato proletario e scopo principale della sostituzione della famiglia con metodi comunitari.

La tesi di Goldman è contraddetta tuttavia dall’affermazione di Trotsky che, al contrario, l’aborto è uno dei “diritti civili, politici e culturali più importanti” delle donne. Trotsky attaccò con forza la vile burocrazia stalinista per aver criminalizzato l’aborto nel 1936, dimostrando una “filosofia da curato che dispone in sovrappiù del pugno del gendarme”:

“Questi signori hanno evidentemente dimenticato che il socialismo dovrebbe eliminare le cause che spingono la donna all’aborto e non ricorrere a un odioso intervento poliziesco nella vita intima della donna per imporle le ‘gioie della maternità’”(La Rivoluzione tradita).

Lo Zhenotdel mobilita le masse femminili

Fondato nel 1919, lo Zhenotdel infuse nuova energia nelle gracili e disperse commissioni femminili. Svolse un ruolo decisivo nella mobilitazione delle donne russe per il socialismo. Saimoilova raccontò che nel 1920 si sentiva parlare di una “seconda Rivoluzione d’Ottobre” tra le donne (citata da Carol Eubanks Hayden, Feminism and Bolshevism: The Zhenotdel and the Politics of Women’s Emancipation in Russia, 1917-1930, tesi di dottorato inedita, Università della California, Berkeley, 1979). Il concetto organizzativo fondamentale dello Zhenotdel era “l’agitazione coi fatti”. Lo storico Richard Stites lo descrisse come “il tentativo cosciente e faticoso di centinaia di donne ‘libere’ di inoculare le loro idee, i loro programmi e la loro fiducia in sé stesse nel sangue della Russia contadina e proletaria” (The Women’s Liberation Movement in Russia). L’ingresso di tante donne nel governo sovietico e nel partito illustra la straordinaria mobilità sociale che veniva incoraggiata dal partito.

Un importante strumento di questo lavoro fu il sistema delle “assemblee di delegate”, sviluppato dallo Zhenotdel per farne una scuola di politica e di liberazione. In ogni fabbrica le operaie eleggevano una di loro come delegata allo Zhenotdel per un periodo da tre a sei mesi. Già le elezioni rappresentavano un passo in avanti nella presa di coscienza. La delegatka, che indossava una sciarpa rossa come contrassegno, faceva da osservatrice e apprendista in vari rami dell’attività pubblica, dalle fabbriche, ai soviet, ai sindacati, a scuole, ospedali o mense. Fatta questa esperienza nel mondo della politica pratica, riportava allo Zhenotdel e alle sue compagne di lavoro ciò che aveva imparato nell’azione come politica eletta, amministratrice, propagandista e critica. Un osservatore descrisse le delegatki come “una vera minaccia per i burocrati, gli ubriaconi, i kulaki e i mezzi kulaki, insomma per tutti quelli che si opponevano alle leggi sovietiche” (ibid.).

Oltre al giornale Kommunistka, che pubblicava articoli sui più importanti aspetti teorici e pratici della questione femminile, lo Zhenotdel pubblicava pagine per le donne (stranichki) in molti giornali locali e nazionali del partito. Le operaie erano incoraggiate a diventare corrispondenti e a mandar lettere e rapporti alla stampa. Numerose conferenze e congressi riunivano donne di ogni tipo provenienti dalle regioni più diverse. L’ultima importante riunione fu il Congresso delle deputate dei soviet del 1927, una colossale testimonianza del lavoro fatto nel decennio precedente, dove le donne mostrarono “un senso di potere e di realizzazione” (ibid.).

Vita in comune: sostituire il focolare domestico

Le prime misure volte ad istituzionalizzare la vita in comune nella Russia sovietica furono pesantemente influenzate dalla guerra civile. Nel tentativo di mobilitare la popolazione per combattere in guerra, i bolscevichi istituirono il “comunismo di guerra”, che comprendeva il razionamento statale, delle mense collettive e la distribuzione gratuita di cibo ai bambini e di salari in natura. Già nel gennaio del 1920 a Pietrogrado si servivano pasti ad un milione di persone nelle mense pubbliche. A Mosca il 93 percento della popolazione era servita in questo modo. Il cibo era scadente, ma l’ottimismo rivoluzionario del momento lo faceva considerare un problema temporaneo. Negli anni seguenti molti avrebbero espresso nostalgia per il futuro idealistico promesso dalla vita in comune durante il “comunismo di guerra” rispetto alla cruda realtà che avrebbero conosciuto. Un dirigente del partito, I. Stepanov, lo fa capire molto bene:

“Tutti noi adulti avevamo una fame terribile, pazzesca, ma potevamo dire in tutta giustizia al mondo intero: i bambini sono i primi cittadini, i privilegiati della nostra repubblica. Potevamo dire che stavamo marciando verso la realizzazione della liberazione dell’amore (…) liberazione dai vincoli economici, liberazione delle donne dalla schiavitù domestica” (Goldman, op. cit.).

Una componente cruciale della liberazione delle donne dalla prigione domestica era la socializzazione della crescita dei figli. Il programma bolscevico si basava sulla concezione per cui tutti gli individui dovrebbero avere accesso a tutti i vantaggi culturali e sociali della società, senza le restrizioni imposte dalla condizione economica e sociale. Nel 1919 fu convocato il Congresso panrusso per la protezione dell’infanzia. I delegati discussero le teorie pedagogiche e di cura e il livello di intervento relativo dello Stato e dei genitori nell’educazione dei giovanissimi. Le parole di uno dei membri della Presidenza del congresso, Anna Elizarova, descrive l’abito mentale della maggioranza dei partecipanti: “Non deve mai più esservi un bambino sfortunato che non appartiene a nessuno. Tutti i bambini sono figli dello Stato” (ibid.).

Una norma del Codice della famiglia pubblicata l’anno precedente vietava completamente l’adozione, favorendo l’assunzione da parte dello Stato della responsabilità e della cura degli orfani. Questa misura rivestiva particolare importanza perché in Russia l’adozione era tristemente conosciuta per l’uso che ne facevano i contadini come fonte di lavoro a buon mercato. Doveva essere invece il governo ad assumersi il compito di crescere tutti i bambini e garantire loro una vita decente.

Restava però la colossale contraddizione tra i desideri e la realtà. Lo Stato non era in grado di occuparsi dei milioni di orfani senza tetto di tutta la Russia, i besprizorniki. Questo problema esisteva già prima della rivoluzione. Sette anni di guerra seguiti dalla carestia ne avevano fatto crescere il numero, che nel 1922 era arrivato a circa 7 milioni e mezzo. Il governo autorizzò la distribuzione di cibo gratuito a tutti i minori di 16 anni. Furono istituite mense e abitazioni e le dimore della vecchia nobiltà vennero trasformate con un certo successo in case per gli orfani. Goldman descrive efficacemente il circolo vizioso provocato dalla mancanza delle risorse per soddisfare i bisogni: “Senza asili, molte madri sole non potevano cercare lavoro e senza lavoro non potevano mantenere i figli, che scappavano dalla povertà della casa e si univano ai besprizorniki per strada” (ibid.). Pur diminuendo di numero nel decennio successivo alla carestia del 1921, i besprizorniki restarono un problema per il governo sovietico fino agli anni Trenta.

Ritirata temporanea: la Nuova politica economica

Sul finire della guerra civile, alla fine del 1920, emersero chiaramente i limiti della politica del “comunismo di guerra”. L’industria era praticamente crollata. Gli operai politicamente più coscienti erano stati uccisi nella guerra civile o inglobati nell’amministrazione dello Stato e del partito. Molti degli operai rimasti erano tornati in campagna per cercare di sopravvivere come contadini. Nel sud i contadini iniziavano a ribellarsi contro le requisizioni forzate di grano (si veda “Kronstadt 1921: bolscevismo o controrivoluzione” in Spartacist n.59, ed. inglese, primavera 2006).

Per rilanciare la produzione e mantenere l’alleanza con i contadini, all’inizio del 1921 Lenin propose la Nuova politica economica (Nep), che sostituiva alle requisizioni forzate di grano una tassa sui prodotti agricoli, consentendo ai contadini di vendere gran parte dei loro cereali sul mercato libero. Il governo cercò di stabilizzare la valuta. Si sospese il razionamento del cibo e dei pochi beni di consumo disponibili e fu consentita la piccola produzione e la vendita privata di beni di consumo. Se da un lato queste concessioni alle forze di mercato contribuirono molto alla ripresa dell’economia, tendevano però anche ad esacerbare gli squilibri preesistenti, poiché ben pochi investimenti venivano fatti nell’industria pesante mentre i contadini che erano più ricchi di partenza (kulaki) si arricchivano ulteriormente a spese degli strati più poveri dei villaggi. Si sviluppò tutto un nuovo strato di piccoli produttori e commercianti arricchiti (nepmen).

Com’era prevedibile, la Nep ebbe un impatto negativo sulle condizioni delle donne e dei bambini. La disoccupazione femminile conobbe un aumento generalizzato fino al 1927 e le donne si videro respingere nei settori “tradizionali” dell’industria tessile e dell’industria leggera in generale. Le pratiche di “libero mercato” determinavano anche discriminazioni contro le donne per quanto riguardava le assunzioni e i licenziamenti, specialmente in virtù delle spese legate ai congedi di maternità retribuiti e alla protezione delle donne incinte e in allattamento sul posto di lavoro.

I servizi pubblici che prima erano gratuiti, come ad esempio le mense collettive, divennero ora a pagamento. Metà dei centri di assistenza ai bambini e delle case per madri singole si videro costretti a chiudere, minando ogni tentativo di liberare le donne: le madri avevano ben poche possibilità di studiare, di qualificarsi professionalmente o di partecipare alla vita sociale e politica.

La conseguenza forse più tragica della Nep per le donne fu il ritorno della prostituzione. La prostituzione non era illegale nella Russia sovietica, ma il governo cercava di “ricondurre la prostituta al lavoro produttivo, di assegnarle un posto nell'economia sociale”, per usare le parole che Lenin disse a Clara Zetkin (“Lenin e il movimento femminile”, 1934). Nel 1921 una commissione governativa ribadì l’opposizione a qualsiasi interferenza da parte dello Stato nelle faccende private:

“Nella battaglia contro la prostituzione il governo non intende in alcun modo intromettersi nella sfera delle relazioni sessuali, perché in questo campo ogni influsso normativo e costrittivo può portare soltanto alla distorsione dall’auto-determinazione sessuale da parte di cittadini economicamente liberi e indipendenti” (Elizabeth A. Wood, The Baba and the Comrade: Gender and Politics in Revolutionary Russia; Indiana University Press, 1997).

Nelle città, negli anni della Nep, i due gruppi principali di prostitute erano le disoccupate e le besprizorniki.

Goldman osservò che le delegate ad una riunione sul lavoro femminile nel 1922 richiamarono rabbiosamente l’attenzione sulle “condizioni disastrose dei servizi che dovrebbero proteggere le madri e i bambini, provocata dalle pressioni sul budget dovute alla Nep” (Women, the State and Revolution). Le delegate sottolinearono che i problemi delle donne erano “strettamente legati alla condizione generale della classe operaia e non dovrebbero mai essere a nessun costo considerati separatamente dallo Stato proletario”. Il governo cercò di sostituire le risorse perdute con contributi e lavoro volontario e i commissariati emanarono dei decreti volti a fermare le discriminazioni contro le donne.

Ma tutte queste misure ebbero ben poco effetto. All’inizio del 1923 si scatenò un dibattito sulla necessità di prendere ulteriori misure, che coinvolse i quadri femminili dirigenti, tra cui Vera Golubeva e Alexandra Kollontai, che sostenevano che si doveva espandere il raggio dell’azione del partito tra le donne. Golubeva, vicedirettrice dello Zhenotdel, sosteneva che al crescere della disoccupazione tra le donne, anche il partito doveva estendere la sua presa penetrando in settori della popolazione che andavano oltre alla classe operaia, coinvolgendo le donne disoccupate e contadine in organismi di lavoro speciali (“di transizione”), legati al partito. La questione fu discussa al congresso del partito dell’aprile del 1923. Alla fine il governo sovietico, non avendo altra scelta, dovette ricorrere alla Nep. L’alternativa, vale a dire il mantenimento della politica del comunismo di guerra in condizioni di vero collasso sociale, avrebbe avuto come conseguenza una vasta rivolta contadina e la controrivoluzione. Ma anche la Nep non era immune da pericoli. Come disse Trotsky, “Con la Nep le tendenze borghesi beneficiarono di un terreno più favorevole” (La rivoluzione tradita). Ma anche nei limiti imposti dall’isolamento nazionale e dalla debolezza economica, il peggioramento della condizione delle donne non era inevitabile, ma determinato da una lotta politica per un orientamento governativo che era possibile cambiare.

Infatti il vasto programma politico invocato dall’Opposizione di sinistra avrebbe potuto gettare le basi per un reale miglioramento della condizione delle donne anche nel contesto delle condizioni materiali date. L’attuazione di un piano di sistematica industrializzazione come quello elaborato dall’Opposizione nel 1923 avrebbe minato le tendenze borghesi alimentate dalla Nep, facendo crescere al contempo e in maniera qualitativa il livello di occupazione delle donne nell’industria e trasformando il ruolo degli amministratori di fabbrica. Le discriminazioni ai danni delle donne operaie in termini di occupazione e salariali erano una manifestazione di degenerazione burocratica nell’apparato di gestione industriale che era possibile contrastare e arrestare.

Il “mare di stagnazione contadina”

Era nelle campagne che il conflitto tra gli obiettivi di liberazione delle donne della rivoluzione bolscevica e le reali condizioni della società russa si manifestava nella maniera più acuta. Il Codice sulla terra del 1922 aboliva la proprietà privata sulla terra, l’acqua, le foreste e le risorse minerarie e consegnava tutte le terre allo Stato. Per legge tutti i cittadini, indipendentemente dal sesso, dalla religione o dalla nazionalità, avevano diritto alla terra e tutti gli adulti avevano diritto di parola allo skhod, l’assemblea di villaggio. Il Codice della famiglia dava a ciascun individuo il diritto di vivere separatamente dal coniuge, di divorziare e di ricevere alimenti e sostegno per i figli. Ma l’estrema povertà tendeva ad allargare il divario tra la legge e la vita reale, cosicché per molte famiglie contadine era quasi impossibile pagare alle donne ciò che era loro dovuto. Fino a che la famiglia restava l’unità fondamentale della produzione, ed era il patriarcato a determinare le istituzioni intorno cui ruotava la vita nei villaggi, la libertà individuale promessa dal Codice civile sovietico era destinata a rimanere sulla carta per i contadini e le contadine.

La legge da sola non poteva risolvere queste contraddizioni. Il problema era connaturato alla Rivoluzione russa stessa. Il proletariato, pur essendo relativamente piccolo, era riuscito ad instaurare la sua dittatura rivoluzionaria perché aveva fatto sua la lotta dei contadini contro la barbarie feudale. Ma una volta giunto al potere il proletariato doveva spingersi oltre i compiti democratico-borghesi posti dall’abolizione dell’assolutismo zarista. Come aveva previsto Trotsky, già prima dello scoppio della rivoluzione del 1905, una volta che fosse passato ad affrontare questioni come la durata della giornata lavorativa, la disoccupazione e la protezione del proletariato agricolo, “l’antagonismo tra i diversi settori contadini crescerà man mano che la politica del governo operaio si definirà ulteriormente e cesserà di essere una politica democratica, nel senso generale del termine, per diventare una politica di classe” (Bilanci e prospettive, 1906). Il vasto processo volto ad estirpare le relazioni sociali feudali nelle campagne richiedeva un gigantesco investimento di risorse per costruire le necessarie infrastrutture (scuole, strade, ospedali) oltre che per meccanizzare l’agricoltura. I bolscevichi facevano affidamento sulla rivoluzione operaia nei paesi capitalisti europei più sviluppati, che avrebbe potuto fornire le risorse tecniche necessarie al proletariato russo per dimostrare alle masse contadine i vantaggi dell’agricoltura collettivizzata.

Il Commissariato alla giustizia istituì diverse commissioni per studiare gli intricati problemi delle donne e dei bambini nelle campagne. I giuristi mantennero salda la loro dedizione all’uguaglianza di diritti nonostante la dura opposizione dei contadini. Per esempio la proprietà della terra si basava tradizionalmente sull’unità famigliare dominata dal capofamiglia (dvor), e gli alimenti venivano riconosciuti in base al reddito famigliare. Quando erano costretti a pagare gli alimenti, i contadini escogitavano diversi trucchi per evitarlo, ad esempio creando delle suddivisioni famigliari fittizie per ridurre la porzione di proprietà che il tribunale poteva assegnare alla donna divorziata. I funzionari dei Commissariati per la terra e la giustizia rifiutarono ripetutamente di cedere alla richieste dei contadini di abolire il divorzio e gli alimenti e continuarono a sostenere i diritti degli elementi più deboli e vulnerabili e delle contadine senza terra. I Codici sulla terra e sulla famiglia sancivano diritti delle donne che potevano avere come risultato un’ulteriore suddivisione degli appezzamenti e un calo della produzione, proprio in un periodo in cui la priorità dello Stato era l’aumento della produzione. La commissione di Mosca dichiarò: “Accettare che lo dvor non sia responsabile del pagamento degli alimenti significa sommergere la legislazione sovietica in un mare di stagnazione contadina” (Goldman, op. cit.).

Nonostante le difficoltà, le leggi applicate dallo Stato sovietico ebbero un impatto effettivo. Malnikova, una batrachka poverissima, scacciata dal dvor del marito, si presentò davanti al giudice dicendo: “al villaggio ho sentito dire che adesso c’è una legge che non lascia più insultare le donne in questo modo” (ibid.). Pur persistendo molte resistenze, spesso basate sulla paura, sull’ignoranza e sulla forza d’inerzia della tradizione, una volta avviate le istituzioni e i cambiamenti introdotti nella vita quotidiana nella prima metà degli anni Venti, suscitarono un crescente appoggio da parte dei contadini, specialmente delle donne.

Una piccola ma importante minoranza di contadine ebbe la vita trasformata dalle campagne educative del partito, dalle attività dello Zhenotdel e dai nuovi diritti legali. Le delegate ad un congresso di donne raccontarono con orgoglio la loro lotta perché le donne singole potessero conservare la loro parte di terra, partecipare alle riunioni degli skhod e organizzare cooperative agricole femminili. Le madri di figli illegittimi e le contadine divorziate sfidarono secoli di tradizione patriarcale portando la famiglia davanti al tribunale per ottenere il diritto ad un sostegno economico e agli alimenti.

Problemi della vita quotidiana

Nel 1923 nel partito bolscevico si sviluppò una discussione sul modo per migliorare la qualità della byt (la vita quotidiana), una questione apparentemente banale, ma che tocca il cuore della lotta per creare delle relazioni economiche e sociali completamente nuove. Si tratta fondamentalmente della questione dell’emancipazione delle donne, che è il prisma politico attraverso cui si guarda alle “relazioni quotidiane” in senso sociale più ampio. Nessun’altra questione interessa altrettanto profondamente la vita quotidiana delle masse, schiacciata sotto il peso di tradizioni secolari, dell’abitudine alla deferenza sociale e alla reazione religiosa, specialmente nei paesi più poveri e arretrati com’era la Russia all’inizio del Ventesimo secolo (e come sono oggi, per esempio, l’Iran o l’India). Come disse Trotsky due anni dopo, “Il modo più preciso per misurare i nostri progressi sono le misure pratiche adottate per migliorare le condizioni della madre e del bambino (...). La profondità della questione della madre si esprime nel fatto che lei è, in pratica, un punto vitale dove si incrociano tute le correnti dell’economia e dell’attività culturale (“Costruire il socialismo significa emancipare le donne e proteggere le madri”, in Women and the Family, dicembre 1925).

A volte, persino dei militanti del partito deridevano vergognosamente lo Zhenotdel come “babkom” o “tsentrobaba” (baba è un termine dispregiativo russo per donna). Zetkin raccontò che Lenin una volta disse: “Il nostro lavoro di comunisti tra le donne, il nostro lavoro politico, comporta una buona dose di lavoro educativo tra gli uomini. Dobbiamo sradicarla del tutto la vecchia idea del ‘padrone’! Nel partito e tra le masse. É un nostro compito politico non meno importante del compito urgente e necessario di creare un nucleo direttivo di uomini e donne, ben preparati teoricamente e praticamente per svolgere tra le donne un'attività di partito”. (Zetkin, “Lenin e il movimento femminile”, 1925)

Non esistevano ancora né le condizioni materiali, né il livello di riorganizzazione sociale necessari ad instaurare un ordinamento nuovo e superiore nella vita famigliare, la cui evoluzione in ogni caso richiederebbe diverse generazioni. Infatti l’uguaglianza delle donne nel suo senso sociale sarà probabilmente l’ultima emancipazione a realizzarsi pienamente in una società senza classi, riflesso speculare del fatto che l’oppressione della donna fu la prima forma di oppressione sociale non di classe sviluppatasi nella storia.

Trotsky iniziò a scrivere una serie di articoli sulla questione della byt, come “Dalla vecchia alla nuova famiglia” e “Vodka, Chiesa e cinema” (entrambi del luglio 1923), che vennero poi raccolti in un libro intitolato Problemi della vita quotidiana. In essi naturalmente enfatizzava l’importanza dell’abbondanza materiale ai fini della “cultura”, non definita nel suo senso stretto restrittivo di letteratura ed arte, ma come l’insieme di tutti i campi dell’attività umana. Solo in una società comunista sviluppata si sarebbe potuto parlare davvero di “libertà” e di “scelta”. Nel frattempo però, sosteneva Trotsky, si dovevano incoraggiare le iniziative volontarie nella vita di ogni giorno.

Gli scritti di Trotsky provocarono il netto rifiuto di Polina Vinogradskaia, una militante dello Zhenotdel, che sosteneva che i problemi si riducevano ad una mancanza d’iniziativa da parte del governo e si opponeva all’apertura di un’ampia discussione sulla byt. Ma Trotsky insistette che questa discussione era parte integrante e necessaria dello sviluppo sociale:

“La fondazione materiale ereditata dal passato è parte del nostro modo di vivere, ma altrettanto lo è una nuova attitudine psicologica. L’aspetto culinario-domestico delle cose è parte del concetto di famiglia, ma ugualmente lo sono le mutue relazioni tra marito, moglie e figli, così come prendono forma nelle circostanze della società sovietica – con nuovi compiti, obiettivi, diritti, ed obblighi per mariti e figli. (…) L’obiettivo di acquisire conoscenza cosciente della vita quotidiana è precisamente lo stesso di svelare graficamente, concretamente e con forza davanti agli occhi delle masse lavoratrici stesse la contraddizione tra l’ingombrante guscio materiale del modo di vivere e le nuove relazioni e bisogni che sono sorti”. (“Contro la burocrazia, progressiva e non”, agosto 1923, Problemi della vita quotidiana).

Le masse non dovevano essere solo un oggetto passivo, ma protagoniste necessarie del processo rivoluzionario. Trotsky suggerì ad esempio che le persone più consapevoli “si unissero già da ora a formare delle unità per la gestione collettiva delle abitazioni”, vedendovi una “prima, ancora molto incompleta approssimazione di un nuovo modo di vivere comunista” (“Dalla vecchia alla nuova famiglia”). Pur non essendo un elemento centrale della lotta politica contro la degenerazione stalinista del partito e dello Stato, queste iniziative in direzione del socialismo erano del tutto realizzabili nella difficile realtà della Russia sovietica degli anni Venti.

La degenerazione della rivoluzione

I dibattiti del 1923 sul modo di affrontare l’intricata contraddizione tra il programma comunista per la liberazione delle donne e le terribili ristrettezze materiali del paese, si inserirono al culmine della battaglia decisiva riguardo alla degenerazione della rivoluzione. La povertà del paese esercitava poderose pressioni nel senso delle deformazioni burocratiche. Durante la Nep, le disuguaglianze sociali non fecero che esacerbare queste pressioni. Come ebbe modo di spiegare Trotsky, nella sua originale opera sulla degenerazione stalinista:

“L’autorità burocratica ha per base la penuria di generi di consumo e la lotta di tutti contro tutti, che ne deriva. Quando ci sono in bottega merci sufficienti, i compratori possono venire quando vogliono. Quando le merci sono scarse, sono costretti a fare la coda. Non appena la coda diviene molto lunga, la presenza di un agente di polizia è necessaria al mantenimento dell’ordine. Questo è il punto di partenza della burocrazia sovietica. Essa ‘sa’ a chi dare e chi debba pazientare” (La rivoluzione tradita).

Alla fine, com’era inevitabile, le pressioni materiali trovarono espressione anche all’interno del Partito bolscevico. Stalin, che era stato nominato Segretario generale del partito nel marzo 1922, aumentò considerevolmente i salari, i vantaggi e i privilegi materiali dei funzionari di partito, diventando il portavoce degli interessi del nuovo strato burocratico. Poco tempo dopo la nomina di Stalin, Lenin fu colpito da un grave ictus. Poté ritornare al lavoro solo per pochi mesi alla fine del 1922, quando chiese a Trotsky di lanciare una lotta decisa contro l’influsso del crescente strato burocratico del partito (si veda: “Trotsky e l’Opposizione di sinistra russa: un bilancio critico”, Spartacist n. 56, ed. inglese, primavera 2001). In seguito, una serie di ictus che iniziarono a dicembre misero fuori gioco Lenin fino alla sua morte nel gennaio del 1924.

Assieme ad altri due membri dell’Ufficio politico, Lev Kamenev e Grigorii Zinoviev, Stalin formò un “triumvirato” segreto in seno alla leadership sovietica, che lavorava instancabilmente per impedire l’ascesa di Trotsky. Trotsky era cosciente che l’alleanza tra operai e contadini era condannata ad essere precaria finché il governo sovietico non fosse stato in condizione di fornire a questi ultimi beni industriali e di consumo a basso prezzo. Perciò chiese l’aumento degli investimenti nell’industria pesante e l’introduzione di una pianificazione centralizzata da parte del governo. La burocrazia si oppose, preferendo lasciare che la Nep facesse la sua strada e piegandosi sempre più alle pressioni economiche dei kulaki e dei nepmen.

Nell’estate del 1923 il malcontento crescente per le condizioni economiche si concretizzò in una serie di scioperi a Mosca e Pietrogrado. In una serie di lettere inviate al Comitato centrale, Trotsky chiese che il partito lanciasse una campagna immediata contro il burocratismo e che elaborasse un piano di investimenti nell’industria. Una dichiarazione analoga venne firmata anche da quarantasei dirigenti di spicco del partito (tra di essi vi era anche il comandante militare donna Evgeniia Bosh). Le pagine del giornale del partito, la Pravda, si riempirono di lettere che appoggiavano la vasta ed eterogenea opposizione antiburocratica e il “Nuovo corso” che proponeva.

Negli stessi giorni, la crisi rivoluzionaria che stava percorrendo la Germania poneva la possibilità concreta di una rivoluzione operaia, suscitando la speranza che l’isolamento in cui versava lo Stato operaio sovietico volgesse ormai alla fine. Dopo che l’Internazionale comunista, sotto la direzione di Zinoviev, e il Partito comunista tedesco si lasciarono sfuggire l’occasione rivoluzionaria sviluppatasi nell’estate del 1923, revocando vergognosamente l’insurrezione ormai già stabilita per la fine di ottobre, la demoralizzazione dilagò in tutta la Russia (si veda: “Una critica trotskista sulla Germania del 1923 e sul Comintern”, Spartacist n.56, ed. inglese, primavera 2001).

Nella successiva discussione in seno al partito il triumvirato ricorse a tutti i mezzi disponibili per distruggere l’Opposizione. Le elezioni per la tredicesima conferenza del partito, che si tenne nel gennaio del 1924, erano talmente truccate che Trotsky e i suoi sostenitori riuscirono ad ottenere soltanto 3 delegati su 124, nonostante il forte sostegno di cui godevano nelle organizzazioni del partito di Pietrogrado, Mosca e di altre città minori. La vittoria del triumvirato a questa conferenza segnò il punto decisivo della degenerazione della rivoluzione. Quello stesso mese, dopo la morte di Lenin, il triumvirato lanciò una campagna di iscrizioni in massa (la “Leva Lenin”) che consentì l’ingresso nel partito ad operai politicamente arretrati, carrieristi vari, nepmen e altri elementi inadeguati. Fu l’inizio del processo che avrebbe trasformato il partito da avanguardia proletaria cosciente in un apparato burocratico capriccioso seduto al vertice dello Stato sovietico.

Alla fine del 1924, la vittoria della burocrazia assunse contorni programmatici con la proclamazione, da parte di Stalin, dell’assurda idea che l’Urss avrebbe potuto costruire da sola il socialismo, senza che vi fossero rivoluzioni in altri paesi. Nei quindici anni successivi, la burocrazia sovietica compì una serie di zigzag, oscillando tra l’aperta riappacificazione con varie potenze imperialiste e l’avventurismo destinato alla sconfitta, ma la teoria del “socialismo in un solo paese” rimase sempre la premessa dell’evoluzione del dogma stalinista. L’Internazionale comunista venne trasformata, da un partito che lottava per la rivoluzione operaia internazionale, in un’agenzia diplomatica del Cremlino.

Anche nei confini dell’Unione Sovietica, la burocrazia allentò le leggi originarie della Nep, le quali, pur consentendo il libero commercio dei prodotti agricoli, avevano severamente limitato l’assunzione di manodopera e l’acquisto delle terre. Adesso, per usare le parole di Nikolai Bukharin, ormai alleato di Stalin, il socialismo in Urss doveva essere costruito “a passo di lumaca”. Le aperture nei confronti dei piccoli commercianti della Nep e dell’arretratezza contadina del dvor ebbero ripercussioni gravi e dannose sulle donne e i bambini sovietici. Nell’aprile del 1924 fu promulgato l’ordine di far lavorare gli adolescenti nei campi. Le misure contro le adozioni vennero sovvertite nella pratica. Nel 1926, circa 19 mila orfani vennero espulsi dalle case per bambini e ragazzi finanziate dallo Stato e affidati a famiglie contadine allargate, che aravano con arcaici aratri di legno e mietevano a mano, con la falce e la roncola.

Tra la metà del 1926 e la fine del 1927, Trotsky si unì a Zinoviev e Kamenev, che avevano rotto con Stalin in risposta alla loro base proletaria di Leningrado (la vecchia Pietrogrado) e di Mosca. L’Opposizione unificata (Ou) si batteva contro la politica del “socialismo in un solo paese” e per la prospettiva della rivoluzione internazionale. Oltre che per l’imposizione di una tassa che colpisse i kulaki per finanziare gli investimenti nell’industria pesante, l’Ou si batteva per una politica di collettivizzazione volontaria delle campagne e per “l’introduzione sistematica e graduale del gruppo più numeroso dei contadini [i contadini medi] ai vantaggi dell’agricoltura collettiva, meccanizzata e a vasta scala” (“La piattaforma dell’Opposizione”, settembre 1927, in Trotsky, The Challenge of the Left Opposition [1926-27]; Pathfinder Press, 1980).

Dal 1924 in poi lo Zhenotdel fu direttamente coinvolto nelle lotte di frazione del partito. Molte attiviste di spicco, tra cui il capo dello Zhenotdel Klavdiia Nikolaeva, appoggiavano l’Opposizione. Per questo venne sostituita nel 1925 da Alexandra Artiukhina, una sostenitrice di Stalin. Durante la battaglia contro Zinoviev e la sua organizzazione di Leningrado, la Artiukhina mobilitò le attiviste dello Zhenotdel in appoggio alla frazione di Stalin per mantenere un “partito leninista unito, solido e disciplinato” (Hayden, op.cit.). La Artiukhina affermò che la parola d’ordine della “eguaglianza” poteva far credere alle operaie che dovevano avere lo stesso salario dei lavoratori più qualificati e sostenne che lo Zhenotdel doveva impegnarsi a spiegar loro la necessità di differenze salariali. Al contrario l’Opposizione unificata chiedeva che le donne ricevessero “ugual paga ad uguale lavoro” e l’introduzione di “misure affinché le operaie apprendano mansioni qualificate” (“La piattaforma dell’opposizione”).

Il saldo controllo sull’apparato del partito e dello Stato consentì a Stalin di avvilire e schiacciare l’Opposizione unificata, i cui elementi dirigenti vennero quasi tutti espulsi dal partito alla fine del 1927. Anche se Zinoviev e Kamenev capitolarono a Stalin, Trotsky e molti altri dirigenti dell’Opposizione furono mandati in esilio interno. La burocratizzazione della vita interna del partito ebbe un effetto demoralizzante sullo Zhenotdel. Già nel 1927 la partecipazione alle assemblee di delegate era crollata: fino al 40-60 percento delle potenziali partecipanti rispetto all’80-95 percento del periodo precedente.

Il Codice della famiglia del 1926

La burocratizzazione del partito e dello Stato sovietico non fu un processo rapido e uniforme. Alla burocrazia occorsero anni per soffocare del tutto la coscienza rivoluzionaria, indebolita a sua volta dalla devastazione del paese. Il dibattito appassionato sul Codice della famiglia del 1926 è solo un esempio dell’intensa discussione pubblica che continuava ad attraversare alcuni settori della vita politica sovietica. I bolscevichi erano consapevoli del fatto che le relazioni sociali avrebbero continuato ad evolversi dopo la rivoluzione. Il Codice della famiglia del 1918, concepito deliberatamente come un insieme di leggi transitorie, non fu mai considerato definitivo. I dibattiti e le discussioni sulla politica per la famiglia continuarono ad imperversare durante tutto il periodo della guerra civile e della Nep. Nel 1923 fu costituito un comitato incaricato di redigere un nuovo codice. Dopo molte bozze e un intenso dibattito pubblico, il testo fu presentato al Cec nell’ottobre del 1925. Ne seguì un altro anno di discussione a scala nazionale.

Il Codice della famiglia del 1926 rappresenta una tappa intermedia nella degenerazione della politica famigliare sovietica, che portò dal fermento liberatorio dei primi anni della rivoluzione alla riabilitazione stalinista dell’istituzione della famiglia nel 1936. Nel 1925-26 le tesi a sostegno dell’abolizione di ogni legislazione matrimoniale erano ormai rifluite. Ora i sostenitori di politiche più rilassate, come il riconoscimento dei matrimoni “di fatto” (secondo il Codice civile), si dovevano scontrare con forze ancor più conservatrici. Tra i sostenitori di un codice civile più restrittivo, provenienti in gran parte dai contadini, vi erano anche alcune donne operaie che esprimevano la vulnerabilità delle donne e dei bambini in una società in cui la completa sostituzione della famiglia con metodi socializzati non era ancora possibile.

Tra i cambiamenti introdotti dal Codice della famiglia del 1926 rispetto alla legge del 1918 vi era la richiesta del pagamento di alimenti anche alle donne disoccupate abili al lavoro, non più solo a quelle disabili, e il riconoscimento del diritto di proprietà comune sui beni acquisiti nel corso del matrimonio, a differenza della legge precedente che stabiliva che le mogli avrebbero potuto trattenere solo ciò che gli apparteneva. Il Codice del 1926 rese il divorzio ancora più semplice: il “divorzio via posta” consisteva nella semplice espressione scritta della volontà di sciogliere il matrimonio da parte di uno dei contraenti, senza più bisogno di presentarsi in tribunale. La controversia principale riguardò il riconoscimento da parte del governo dei matrimoni di fatto, che garantiva alle persone che vivevano assieme in relazioni non registrate la stessa condizione legale delle coppie ufficialmente sposate.

Sul piano giuridico le difficoltà ruotavano attorno al problema della definizione del matrimonio, oltre che della sua registrazione civile, perché, ovviamente, una volta entrati in tribunale, l’uomo e la donna potevano non essere d’accordo sull’esistenza o meno di un matrimonio. Il quarantacinque percento delle cause per ottenere il pagamento degli alimenti erano intentate da donne non sposate abbandonate perché incinte.

Per molte donne, specie per quelle con un livello di educazione o di specializzazione professionale minore, che avevano più difficoltà a trovare un lavoro decente, o persino un lavoro qualsiasi, la facilità con cui si otteneva il divorzio significava spesso la povertà per sé e per i figli, cui si vedevano condannate da mariti che esercitavano il loro diritto alla “libera unione”. Questa condizione di dipendenza non poteva essere risolta dalle leggi che facilitavano il divorzio, senza che esistessero posti di lavoro, istruzione e valide strutture statali di assistenza ai bambini. Come spiegava una di loro in un articolo su Rabotnitsa, “Nella maggioranza dei casi le donne sono meno istruite, meno qualificate, e perciò meno indipendenti degli uomini (…) Sposarsi, crescere dei figli, essere schiave in cucina, e poi vedersi gettare via dal marito, tutto ciò è molto doloroso per le donne. E’ per questo che sono contraria al divorzio facile”. Un’altra osservava: “Dobbiamo lottare per preservare la famiglia. Gli alimenti saranno una necessità fino a quando lo Stato non potrà porre sotto la sua protezione tutti i bambini” (Wendy Z. Goldman, “Le operaie e ‘l’estinzione’ della famiglia” in Russia in the Era of NEP, Indiana University Press, 1991). Queste acute contraddizioni sottolineano la cruda verità che la famiglia dev’essere sostituita e non la si può semplicemente abolire.

Le differenti opinioni sulla proposta di codice non rappresentavano una chiara demarcazione tra destra e sinistra, ma correvano parallele ai dibattiti che attraversavano il partito in generale e che a loro volta riflettevano le pressioni delle forze di classe. Coloro che si opponevano alla bozza di Codice tendevano a riflettere l’influenza dei contadini, fortemente contrari al riconoscimento del matrimonio di fatto e alla facilità di divorzio in cui vedevano una minaccia alla stabilità economica e all’unità del nucleo famigliare, causati dalle “donne intriganti”, dal “caos sociale e morale” e dalla “depravazione” (Women, the State and Revolution).

Per quanto ne sappiamo, l’Opposizione unificata non prese formalmente una posizione riguardo al Codice. Tuttavia molti oppositori parteciparono al dibattito. Alexander Beloborodov, che venne espulso dal partito nel 1927 insieme a Trotsky, aveva molte riserve sul Codice. In particolare lo preoccupavano gli effetti dell’instabilità familiare sui bambini, “nella misura in cui non siamo in condizione di provvedere ad un’educazione comune dei bambini e chiediamo che vengano cresciuti dalla famiglia (Rudolph Schlesinger, Changing Attitudes in Soviet Russia: The Family in the U.S.S.R.; Routledge and Kegan Paul, 1949). Trotsky attaccò in prima persona coloro che si opponevano al riconoscimento del matrimonio di fatto in un discorso del 7 dicembre 1925 alla terza conferenza panrussa per la protezione della madre e dei bambini:

“Compagni, questa [opposizione] è così mostruosa che viene da chiedersi: davvero viviamo in una società che si trasforma in direzione del socialismo…? Questo atteggiamento verso le donne non solo non è comunista, ma è reazionario e filisteo nel senso peggiore del termine. Chi può credere che nel nostro paese si possano difendere troppo i diritti delle donne, su cui gravano le conseguenze di tutte le unioni matrimoniali, per quanto transitorie? (…) E’ un sintomo e una testimonianza del fatto che nelle nostre idee, concezioni e abitudini tradizionali, sopravvive un’ottusità che dev’essere schiacciata con un gigantesco martello” (“La protezione della maternità e la lotta per la cultura”, Women and the Family).

La collettivizzazione forzata e il primo piano quinquennale

Nel 1928 la politica della burocrazia di incoraggiare i kulaki ad “arricchirsi” aveva ormai portato al disastro previsto dall’Opposizione: i contadini ricchi cominciarono ad ammassare il grano, non essendo stimolati a venderlo allo Stato, dato che non c’era molto da comprare con i proventi della vendita. Nell’impossibilità di procurare cibo alle città, Stalin fece una svolta di centottanta gradi. Si rivoltò contro il suo alleato Bukharin e collettivizzò la metà delle campagne del paese nel giro di quattro mesi. I contadini risposero col sabotaggio e con l’uccisione degli animali d’allevamento, tra cui più della metà dei cavalli. Nelle successive convulsioni sociali che durarono per tutta la prima metà degli anni Trenta, perirono più di tre milioni di persone.

Stalin abbandonò anche la politica della costruzione del socialismo “a passo di lumaca” adottando un piano di industrializzazione di cui c’era ormai disperato bisogno, ma accelerandolo ad un ritmo folle ed omicida. Lo sviluppo economico che ne derivò portò con sé un miglioramento qualitativo delle condizioni delle lavoratrici. Per consentire loro di lavorare sorsero da un giorno all’altro centri di assistenza ai bambini e mense nelle fabbriche e nei quartieri. “Abbasso la cucina!” gridava una propagandista:

“Distruggeremo queste piccole galere! Libereremo milioni di donne dal lavoro domestico. Esse vogliono lavorare come tutti noi. Nella mensa di una fabbrica una persona può preparare da cinquanta a cento pasti al giorno. Saranno le macchine a pelar patate, a lavare i piatti, ad affettare il pane, a mescolare la zuppa e a fare gelati”.

“La pentola è nemica della cellula di partito” e “Basta pentole e padelle” si fecero largo tra le parole d’ordine del partito (Women’s Liberation Movement in Russia).

Tuttavia la pianificazione economica dell’Urss non si basava sul contributo democratico dei lavoratori, ma sull’arbitrio burocratico. Pur essendo gigantesche, le conquiste portate dall’industrializzazione furono ottenute a spese della qualità dei prodotti e di una grande inefficienza burocratica. Nonostante i problemi però l’Unione Sovietica fu l’unico paese che nel Ventesimo secolo si trasformò da un paese arretrato e contadino in una potenza industriale avanzata. Ciò conferma l’enorme spinta verso il benessere umano, non ultima la condizione delle donne, che è il prodotto dell’abolizione del capitalismo e dell’istituzione di un’economia pianificata e collettivizzata, persino in un solo paese. Fu solo grazie a questo sviluppo industriale che l’Urss fu in grado di respingere l’assalto delle armate di Hitler nella Seconda guerra mondiale, anche se al prezzo di 27 milioni di morti sovietici. Allo stesso tempo la burocrazia ostruiva tutti i pori della società, determinando sprechi, repressione e arbitrio ed agendo in modo da impedire l’estensione internazionale della rivoluzione, che sarebbe stata l’unica vera difesa a lungo termine delle conquiste dell’Ottobre.

Nonostante il vero e proprio balzo in avanti compiuto dalle donne con l’industrializzazione, la burocrazia abbandonò l’impegno comunista a lottare per la liberazione delle donne. Per mascherare la sua ritirata, ricorse all’avventurismo retorico tipico del periodo. Nel 1930 il governo annunciò grottescamente che la questione femminile era stata ufficialmente risolta. Nello stesso periodo venne disciolto lo Zhenotdel, decisione che era stata preceduta nel 1926 dall’abolizione della Segreteria internazionale delle donne, degradata a dipartimento femminile del Comitato esecutivo del Comintern. Nel 1929 lo scioglimento dello Zhenotdel fu presentato come una “riorganizzazione” del partito volta a fare del lavoro tra le donne un lavoro dell’intero partito. Parole prese a prestito dagli anni rivoluzionari, che erano ormai divenute solo la maschera della passività e della retromarcia.

Il 1936 e il trionfo della “famiglia socialista”

Nel 1929 il Partito comunista sosteneva ancora l’estinzione della famiglia. Nel 1936-37, quando la degenerazione del Pc russo aveva ormai completato il suo corso, la dottrina stalinista la condannava come un “errore grossolano” e invocava la “ricostruzione della famiglia su nuove basi socialiste”. Il terzo Codice della famiglia, divenuto legge nel 1936, rendeva più difficile il divorzio, richiedendo la comparsa in tribunale, maggiori spese e la registrazione del divorzio sui passaporti interni dei divorziati, per impedire “l’uso irresponsabile e criminale di questo diritto, che disorganizza la vita della comunità socialista” (Schlesinger, The Family in the U.S.S.R.).

La glorificazione ufficiale della famiglia e l’abbandono delle politiche bolsceviche sul divorzio e sull’aborto furono parte integrante della controrivoluzione politica che usurpò il potere politico della classe operaia. Trotsky ne parlò estesamente:

“La riabilitazione solenne della famiglia, che ha luogo – coincidenza provvidenziale – nello stesso momento di quella del rublo, è la conseguenza dell’insufficienza materiale e culturale dello Stato. Invece di dire: ci siamo trovati troppo poveri e troppo incolti per stabilire relazioni socialiste tra gli uomini, i nostri figli e i nostri pronipoti lo faranno; i capi del regime incollano i cocci rotti della famiglia e impongono, con la minaccia dei peggiori rigori, il dogma della famiglia, fondamento sacrosanto del socialismo trionfante. E’ penoso constatare l’ampiezza di questa ritirata!” (La Rivoluzione tradita)

Col ripudio dell’impegno dei bolscevichi alla non interferenza nella vita personale degli individui, anche la teoria della “estinzione della famiglia” fu condannata come la via verso la depravazione sessuale e sin dalla metà degli anni Trenta cominciarono invece ad apparire sulla stampa sovietica le lodi alle “brave massaie”. Nel 1936 un editoriale della Pravda attaccò un piano edilizio privo di cucine individuali come una “deviazione di sinistra” e un tentativo di “introdurre artificialmente la vita in comune”. Come disse Trotsky, ormai “la marcia indietro riveste forme di scoraggiante ipocrisia e va molto più in là di quanto non esiga la dura necessità economica”.

Il Codice della famiglia del 1936 criminalizzò l’aborto e, tra la sofferenza delle donne sovietiche, il tasso di mortalità dovuto agli aborti si impennò. Contemporaneamente il governo si diede a premiare come eroine le donne che avevano molti figli, mentre i funzionari decretavano che in Unione Sovietica “la vita è felice” e che solo l’egoismo poteva spingere le donne ad abortire. Il Codice della famiglia del 1944 cancellò il riconoscimento dei matrimoni di fatto, reintrodusse il concetto umiliante della “legittimità” dei figli, abolì l’educazione mista e vietò di fare causa per il riconoscimento della paternità. Fu solo nel 1955 che l’aborto tornò ad essere legale in Unione Sovietica.

1991-92: la controrivoluzione capitalista marcia sui corpi delle donne

Negli anni Trenta, Trotsky aveva predetto che la burocrazia del Cremlino si sarebbe cacciata in un vicolo cieco sul fronte economico quando sarebbe diventato necessario passare dalla mera crescita quantitativa al miglioramento della qualità, da una crescita estensiva ad una intensiva. Sostenne che serviva “Revisione dell’economia pianificata da cima a fondo, nell’interesse dei produttori e dei consumatori” (Programma di transizione, 1938, in Spartaco n.13/14, maggio 1984). I nodi dei problemi economici, che riflettevano principalmente l’incessante pressione dell’imperialismo mondiale sullo Stato operaio sovietico, vennero al pettine negli anni Settanta ed Ottanta.

Nell’agosto del 1991 si impadronì del potere Boris Eltsin, che prese il posto del moderato Mikhail Gorbaciov quando quest’ultimo esitò a prendere le brutali misure necessarie alla restaurazione di un’economia completamente capitalista. Nell’anno successivo, in assenza di una resistenza operaia, la controrivoluzione capitalista trionfò in tutta la Russia: una sconfitta storicomondiale della rivoluzione proletaria. L’Urss si frantumò in una serie di regimi nazionalisti reciprocamente ostili. Da allora le cose sono peggiorate di parecchio per tutti, tranne che per la minuscola minoranza che comanda. Ma più di tutti sono peggiorate per le donne e i bambini. La stragrande maggioranza della popolazione è precipitata nella miseria più nera e nella disoccupazione cronica. Il vasto sistema di assistenza all’infanzia e di sostegno alla madri è scomparso, sono tornati i besprizorniki, fiorisce la prostituzione e in Asia centrale le donne sono precipitate indietro di secoli.

La Lega comunista internazionale accetta la dura realtà che la coscienza politica è arretrata di fronte a questa sconfitta senza precedenti. Uno dei nostri compiti principali è quello di lottare per spiegare e chiarire il programma marxista, liberandolo dalla lurida incrostazione dei tradimenti stalinisti e delle menzogne degli ideologi del capitalismo. Questo studio della lotta dei bolscevichi per l’emancipazione delle donne, che dimostra quanto poté essere fatto nonostante la povertà, il cappio imperialista e in seguito la degenerazione stalinista dell’Urss, testimonia della promessa che un’economia pianificata e collettivizzata a scala mondiale, nata da nuove rivoluzioni d’Ottobre, rivolge a tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo.

Il respiro della nostra idea storica del futuro socialista, di un nuovo modo di vivere che si potrà evolvere solo dopo aver smantellato da cima a fondo la profonda disuguaglianza e la tenace oppressione nate dallo sfruttamento capitalista, è spiegata bene dalle parole di Trotsky:

“Il marxismo considera lo sviluppo della tecnica come la molla principale del progresso, e fonda il programma comunista sulla dinamica delle forze produttive. Se una catastrofe cosmica distruggesse in un avvenire prossimo il nostro pianeta, saremmo costretti a rinunciare alla prospettiva del comunismo come a molte altre cose. A parte questo pericolo eventuale, problematico per il momento, non abbiamo la benché minima ragione scientifica di stabilire anticipatamente dei limiti, quali che siano, alle nostre possibilità tecniche, industriali e culturali. Il marxismo è profondamente imbevuto dell’ottimismo del progresso e ciò basta, sia detto di passata, a contrapporlo irrimediabilmente alla religione.

La base materiale del comunismo deve risiedere in uno sviluppo così elevato della potenza economica dell’uomo che il lavoro produttivo, cessando di essere un peso e una pena, non abbia bisogno di stimolo e che la distribuzione dei beni non richieda – come già oggi accade in una famiglia agiata o in una pensione ‘per bene’ – altro controllo se non quello dell’educazione, dell’abitudine, dell’opinione pubblica” (La Rivoluzione tradita)

 

Spartaco N. 80

Spartaco 80

Settembre 2017

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Dichiarazione dell'Ufficio politico della Spartacist League/U.S., sezione della Lega comunista internazionale (quartinternazionalista)