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Spartaco n. 72

Marzo 2010

La guerra contro gli immigrati è una guerra contro tutti i lavoratori

Movimento operaio e lotta contro l’oppressione razzista

Partito democratico e Rifondazione: retorica “antirazzista” all’opposizione, leggi razziste al governo

All’inizio di gennaio la cittadina calabrese di Rosarno, in una delle principali zone agricole della Calabria, è stata teatro di una sanguinosa caccia all’uomo, in cui decine di braccianti di origine africana sono stati feriti a fucilate e sprangate da squadracce razziste armate e sobillate dai proprietari locali e dai loro caporali. La violenza razzista è esplosa dopo che alcune centinaia di braccianti, stanchi di subire le violenze dei caporali degli agrari e dei sicari della 'ndrangheta, hanno coraggiosamente protestato per le strade della città rovesciando macchine e cassonetti e scontrandosi con i poliziotti in tenuta antisommossa. Circa duemila immigrati hanno poi manifestato di fronte al municipio con cartelli che dicevano “Siamo persone, non animali” e “Gli italiani sono razzisti”.

Col governo in prima fila a fomentare il linciaggio (il ministro leghista Maroni si è spinto a condannare la “troppa tolleranza con gli stranieri” mentre il Giornale della famiglia Berlusconi incoraggiava al linciaggio titolando “Anziché ai n---i, sparate ai mafiosi”), la polizia è intervenuta per soffocare le proteste dei lavoratori, mentre gli sgherri armati dei padroni hanno continuato ad agire indisturbati per quasi due giorni. Il terrore razzista contro i braccianti immigrati si è concluso con una specie di “pulizia etnica”, a tutto vantaggio delle sanguisughe capitaliste: appena finito il raccolto delle arance, nel momento in cui i padroni non avevano più bisogno di manodopera, la polizia ha “evacuato” circa millecento lavoratori, chiudendone centinaia nei Centri di identificazione e espulsione (Cie), da cui saranno deportati, e disperdendo quelli che hanno un permesso di soggiorno in varie città, senza alloggio né lavoro. Moltissimi hanno perso anche il misero salario per cui hanno versato sangue e sudore sotto il tallone dei caporali (peraltro quella di chiamare la polizia per arrestare e deportare i lavoratori immigrati “irregolari” è una tecnica rodata nei campi del Sud). Noi esigiamo: Liberazione immediata di tutti gli immigrati arrestati! No alle deportazioni! Chiusura immediata dei Centri di identificazione e espulsione! Ci battiamo perché chiunque vive in questo paese abbia pieni diritti di cittadinanza (e non solo il diritto al permesso di soggiorno e al voto amministrativo, che è il massimo che la sinistra riformista è disposta a “concedere”):  una elementare rivendicazione democratica della più completa uguaglianza di tutti di fronte allo Stato.

I sindacati devono difendere gli immigrati

Di fronte a violenze razziste di massa, come quelle avvenute a Rosarno, è vitale mobilitare il potere sociale dei sindacati. Il movimento operaio non deve permettere che un suo settore più isolato e ricattabile, sia lasciato solo di fronte alla violenza delle bande razziste. Di fronte alle violenze razziste di Rosarno, i sindacati dovevano organizzare azioni e scioperi di protesta, magari mandando qualche decina di pullman di operai a mettere fine alle sommosse razziste. Sarebbero servite delle guardie di autodifesa operaia, che comprendessero lavoratori immigrati e italiani. Anche se può essere difficile nell’attuale clima politico reazionario, si doveva imparare dalle tradizioni di solidarietà e di lotta di classe su cui si sono costruiti i sindacati in questo paese. Dopo l’eccidio dei braccianti calabresi di Melissa per mano della polizia nell’ottobre del 1949, scioperarono per protesta tutte le grandi fabbriche del Nord e gli operai dell’Om di Brescia e quelli di Torino respinsero le cariche della polizia. Nel 1972, la Cgil organizzò dei treni speciali per portare a Reggio Calabria più di 40 mila lavoratori, sfidando otto attentati dinamitardi, per tenere un’imponente manifestazione contro le sommosse capeggiate dai fascisti, in cui erano stati uccisi diversi militanti di sinistra.

Invece a Rosarno, i burocrati sindacali hanno agito come ausiliari della repressione poliziesca. La segreteria della Cgil calabrese ha scritto una lettera aperta al ministro leghista Maroni e alle “istituzioni”, chiedendo l’intervento della polizia (con la scusa di proteggere gli immigrati) e “la garanzia del mantenimento in Rosarno e nel territorio circostante delle Forze dell’Ordine in misura sufficiente per assicurare l’adeguato controllo della città” e “l’individua-zione di ‘aree attrezzate di accoglienza’ dentro cui far convergere, in piena sicurezza, gli immigrati che vivono nelle strutture di Rosarno condizioni indicibili di ‘annientamento della dignità umana’”. In questa situazione, l'intervento dell'apparato repressivo dello Stato porta necessariamente un aumento dell'oppressione razzista e deportazioni di massa nelle indegne galere etniche dei Cie!

I burocrati filocapitalisti che dirigono attualmente i sindacati, non si basano sulla prospettiva della lotta di classe, ma collaborano con i padroni perché questi possano essere competitivi con i loro rivali stranieri, sperando di ottenere in cambio qualche briciola dei loro profitti. Così parlando di Rosarno, il segretario della Cgil Epifani ha chiesto che le condizioni dei braccianti siano migliorate “con un impegno delle associazioni imprenditoriali e di tutte le istituzioni nazionali e locali, con una adeguata programmazione del fabbisogno di manodopera delle attività agricole, con l'impegno alla regolarità dei rapporti di lavoro e al rispetto dei contratti collettivi”. Fare appello alle “associazioni imprenditoriali” e alle “istituzioni” capitaliste, vale a dire alla classe delle sanguisughe che vivono sul lavoro degli operai, perché migliorino le condizioni dei braccianti immigrati, serve solo a ingannare gli operai e a mandare ai capitalisti un segnale inequivocabile della volontà dei vertici sindacali di collaborare per soddisfare il loro “bisogno di manodopera”.

Da parte sua, anche la sinistra riformista ha come unica prospettiva quella di dare un volto più umano al capitalismo. Così il direttore di Liberazione, Dino Greco, si è lamentato dell’assenza dello Stato a Rosarno, invocando “che lo Stato si allei con i migranti per promuovere un percorso di integrazione e di cittadinanza condivisa”. A Rosarno lo Stato capitalista è stato fin troppo presente, come forza di repressione dei lavoratori agricoli. Polizia, magistratura, esercito, sono il cuore dello Stato capitalista, uno strumento per la difesa della proprietà privata e del potere della classe dominante capitalista. Ogni sciopero, ogni lotta importante, si scontra inevitabilmente con questo braccio armato della classe dominante, basti pensare alle cariche della polizia contro gli operai della Innse la scorsa estate, o a quelle più recenti contro i lavoratori immigrati della Fiege e della Gls in Lombardia, o quelli della Fma-Fiat di Pratola Serra. Polizia e tribunali, sulla base delle leggi razziste approvate negli ultimi decenni sia dai governi di destra che dalle coalizioni di Unione/Ulivo e Rifondazione, perseguitano, imprigionano e deportano ogni giorno centinaia di immigrati, con un corollario di pestaggi e insulti. Nessuna illusione nella magistratura, nello Stato capitalista! Fuori i poliziotti dai sindacati!

Come scriveva il rivoluzionario russo V.I. Lenin, “La regola fondamentale, il primo comandamento di ogni movimento sindacale è: non fidarsi dello 'Stato', contare soltanto sulla forza della propria classe. Lo Stato è l’organizzazione della classe dominante. Non contare sulle promesse, contare solo sulla forza che sta nell’associazione e nella coscienza della propria classe” (“Sulla necessità di fondare un’associazione degli operai agricoli della Russia”, giugno 1917).

Al contrario di Lenin, il Partito comunista dei lavoratori (Pcl) vuole utilizzare la classe operaia organizzata non per rovesciare lo Stato borghese ma per aiutare il lavoro della polizia. a Milano, dopo l’uccisione di un immigrato egiziano in una rissa, la polizia ha messo sotto assedio il quartiere multietnico di viale Padova, con blindati a ogni angolo in stile coloniale. Il leghista Salvini ha fatto appello a rastrellare gli immigrati con “controlli ed espulsioni casa per casa, piano per piano”. In tutta risposta, il Pcl ha proposto di organizzare delle squadre di vigilantes contro “la criminalità”:

“Anche noi chiediamo pulizia. Ma non la pulizia delle retate poliziesche e squadriste contro i migranti come vorrebbe Salvini (Lega). Bensì l’azione organizzata di strutture miste di lavoratori italiani e migranti contro la criminalità del quartiere, qualunque sia il suo colore. Contro la criminalità dello spaccio di droga pesante, italiana o ‘straniera’. Ma anche contro la criminalità dei proprietari di casa (…) contro la criminalità degli italianissimi usurai che fanno ordinario strozzinaggio contro i piccoli esercenti del quartiere, specie se immigrati; contro la criminalità della malavita, italiana e ‘straniera’, che impone il pizzo sulle attività di quartiere. E infine naturalmente contro le provocazioni e aggressioni di bande razziste o di gang comunitarie, ai danni di lavoratori migranti o italiani” (pclavoratori.it, 17 febbraio).

In pratica, il Pcl offre i propri servigi alla classe dominante per imporre la “legalità” borghese nei quartieri immigrati. Noi ci opponiamo a strutture di questo tipo, che non sarebbero che ausiliari della polizia razzista e incoraggerebbero ancora di più l’isteria delle “ronde”. Il Pcl si accoda anche alla “lotta alla droga”, cavallo di battaglia di tutte le forze reazionarie contro gli immigrati e la sinistra. I comunisti si battono per la depenalizzazione di uso e vendita di tutte le sostanze stupefacenti.

Per la sindacalizzazione di tutti i lavoratori immigrati

L’esplosione di Rosarno ha riportato sotto i riflettori la condizione di più di 50 mila operai agricoli immigrati che si spostano in funzione delle esigenze dei raccolti, formando la spina dorsale di interi settori agricoli (al Sud e al Nord). Le condizioni bestiali in cui vivono sono state descritte da Fabrizio Gatti su L’Espresso:

“Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell'Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all'uomo raccontata da Alan Parker nel film 'Mississippi burning'. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l'hanno ucciso” (“Io, schiavo in Puglia”, 1 settembre 2006).

Queste condizioni non dipendono dal fatto che le regioni del Sud sono sotto il controllo delle associazioni mafiose, o dal fatto che al timone dello Stato capitalista ci sia un governo di destra particolarmente razzista, come vorrebbe far credere la sinistra riformista. Condizioni del genere esistono in interi settori industriali del Paese. Anzi si ritrovano in tutto il mondo, ovunque la borghesia importa manodopera ricattabile e a basso costo e riesce a dividere il proletariato lungo linee etniche e nazionali, come hanno dimostrato ad esempio le ripetute rivolte di immigrati e le violenze razziste nell’Andalusia spagnola. Il brutale sfruttamento cui sono sottoposti i braccianti immigrati è un frutto velenoso del sistema capitalista dei profitti: un sistema in cui i padroni di un intero ramo industriale (dai caporali fino ai signori dell’agribusiness, dell’industria alimentare, della logistica, della grande distribuzione e della finanza), si spartiscono i profitti derivanti dal lavoro proletario e tentano costantemente di aumentare il tasso di sfruttamento per competere sui mercati.

Caporalato e supersfruttamento non si limitano certo all'agricoltura. Di recente la Cub trasporti ha denunciato il fatto che all’aeroporto di Malpensa, ci sono migliaia di operai immigrati che lavorano in condizioni di caporalato, ed è solo un esempio. E’ fondamentale che i sindacati lancino una campagna di sindacalizzazione di tutti i lavoratori immigrati e in generale di tutti gli operai non sindacalizzati che rappresentano il settore più debole e ricattabile del proletariato. Bisogna lottare perché per tutti i lavoratori, italiani o immigrati, regolari o “clandestini”, con contratto o “in nero”, siano garantite uguale paga a uguale lavoro e una protezione sindacale in base alle condizioni contrattuali migliori.

Nelle terre del caporalato, ma anche nei cantieri edili e nei magazzini della Lombardia, come nelle “cooperative” dell’Emilia Romagna, questo richiederebbe una dura lotta di classe contro classe, fatta di scioperi, picchetti volanti e mobilitazioni dure. E’ stato proprio grazie a lotte dure e a volte sanguinose che generazioni di braccianti agricoli e contadini poveri del Sud hanno strappato migliori condizioni di vita ai latifondisti e agli agrari, i nonni degli attuali signori dell’agroalimentare.

Come ha fatto notare l’inchiesta de L’Espresso (1 settembre 2006), tra le zone dove sfruttamento e oppressione razzista sono più brutali, c’è “un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola”. In effetti, il fatto che a capo della piantagione pugliese ci sia in veste di “governatore” il leader di Sinistra ecologia libertà non ha cambiato neppure di una virgola, la schiavitù salariata dei braccianti agricoli immigrati. E’ servito solo a incatenare gli operai al carro dei padroni, rafforzando le illusioni nella possibilità di un capitalismo “dal volto umano”.

Gli ideologi della borghesia (in particolare i nuovi cantori della “lotta alla mafia”, come il giornalista Roberto Saviano, così alla moda tra la sinistra riformista) cercano di addossare la causa del brutale sfruttamento dei braccianti immigrati al potere delle mafie locali e si affannano a richiedere alle istituzioni repressive dello Stato capitalista (polizia, magistratura) di intervenire per imporre la “legalità”. Ma mafia, camorra o ‘ndrangheta sono componenti specifiche della classe capitalista che traggono origine dalle condizioni di capitalismo asfittico e ritardatario dell’Italia meridionale. A tutte le latitudini, i capitalisti, “onesti” o “criminali”, vivono dello sfruttamento del lavoro operaio. Non c’è bisogno della ‘ndrangheta perché gli operai siano soggetti a uno sfruttamento brutale, come ci ricordano le cooperative del Nord o gli sweatshop d’America. E i padroni non hanno sempre bisogno dei caporali della ‘ndrangheta per reprimere chi si ribella: dove non arrivano polizia o guardie private, hanno sempre trovato un bacino di forze antioperaie quando i loro profitti e proprietà erano a rischio.

Lo Stato capitalista, che vorrebbe detenere il monopolio della violenza organizzata per conservare lo status quo borghese, mal digerisce l’esistenza di bande armate che sfuggono al suo controllo. Ma nei momenti decisivi della lotta di classe, la mafia è stato uno strumento della borghesia nella sanguinosa repressione delle occupazioni delle terre in Sicilia nel secondo dopoguerra e per questo divenne parte integrante del potere capitalista italiano. Tra i servizi che la mafia “offre” agli imprenditori che accettano la sua “protezione” in cambio del pizzo, c’è sicuramente la garanzia di soffocare qualsiasi tentativo di organizzazione sindacale. Nel 1989, Jerry Maslo, un immigrato sudafricano fuggito dall’apartheid, fu ucciso dalla camorra perché cercava di sindacalizzare i braccianti immigrati in Campania. Il conflitto tra mafia e Stato (nei limiti in cui si combattono) riflette un conflitto all’interno della borghesia per la spartizione dei profitti che questa deriva dallo sfruttamento del lavoro operaio. Il problema non è quello di sostituire sfruttatori “disonesti” con altri che si pretendono “onesti”, ma di abolire l’intero sistema dello sfruttamento capitalista, espropriando le terre e le fabbriche dei padroni e gestendole in modo collettivizzato e centralizzato in un regime di potere operaio.

Lotta di classe e oppressione degli immigrati

La crisi capitalista degli ultimi due anni ha portato povertà e devastazione nella vita di milioni di operai in tutto il mondo. Solo in Italia, in meno di due anni hanno perso il lavoro più di 600 mila persone (per non parlare delle migliaia di lavoratori in nero ufficialmente esclusi dalle statistiche). La lista delle fabbriche che licenziano o chiudono si allunga ogni giorno e sono in corso dure lotte per impedire lo smantellamento di interi rami industriali, che spesso sono le ultime concentrazioni proletarie di intere regioni del Sud, come la Fiat a Termini Imerese o l’Alcoa a Portovesme. Tra le 12 regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione giovanile (superiore al 30 percento) sei sono nell’Italia del Sud.

Di fronte a questa carneficina, serve una mobilitazione massiccia della classe operaia, con scioperi che si estendano al di fuori delle fabbriche in crisi, e rivendichino la divisione di tutto il lavoro esistente tra tutta la manodopera disponibile senza nessuna riduzione salariale. Di fronte alla crisi, col suo carico di povertà e licenziamenti, i capitalisti cercano di dividere ulteriormente i lavoratori lungo linee etniche e nazionali per evitare che si battano insieme contro la causa reale delle loro sofferenze: il sistema dei profitti capitalisti. Ma non esistono soluzioni sindacali alle crisi cicliche del capitalismo. Di fronte alla disoccupazione di massa tra gli operai si sviluppano due tendenze. Una è quella reazionaria e perdente di mettersi in competizione reciproca per vendere la loro unica merce, la forza-lavoro. E’ la strada (spesso appoggiata dalla sinistra riformista) del protezionismo nazionalista che chiede di difendere i “posti di lavoro italiani” a scapito degli operai di altri paesi, o del razzismo contro gli immigrati accusati di “rubare il lavoro agli italiani”. Questa strada porta a schierare gli operai a fianco dei loro sfruttatori connazionali, minando la compattezza del proletariato e peggiorando le condizioni di tutti. L’altra strada è quella di unirsi in una lotta di classe contro i padroni capitalisti, che si basi non su quello che è possibile dal punto di vista dei profitti degli industriali e delle banche, ma su ciò che è indispensabile per il proletariato: un posto di lavoro e uno stipendio decente per tutti, nuove case, nuove strade, nuove fabbriche, istruzione e assistenza sanitaria di qualità e gratuite. Se il capitalismo non è in grado di garantire ciò di cui le masse dei lavoratori hanno bisogno, significa che deve essere rovesciato con una rivoluzione proletaria e sostituito da un’economia pianificata a scala internazionale. Ma per poter percorrere questa seconda strada, la classe operaia ha bisogno di un partito rivoluzionario, basato sul programma internazionalista del leninismo e del trotskismo. Gli interessi degli operai e degli immigrati, o avanzano insieme o vengono sconfitti separatamente.

L’oppressione speciale della popolazione immigrata (o di origine immigrata, data la crescente presenza di una generazione di giovani nati in Italia, che la borghesia rifiuta di considerare italiani e che vorrebbe ghettizzare fin dall’asilo), va ben oltre il supersfruttamento economico.

I lavoratori immigrati impiegati in piccole e piccolissime imprese, spesso senza contratto né protezione sindacale, hanno pagato un prezzo durissimo per la crisi e sono stati tra i primi ad essere buttati in mezzo alla strada. Poiché la legge razzista Bossi-Fini lega il permesso di soggiorno ad un contratto di lavoro e ad un reddito minimo, per gli immigrati povertà e disoccupazione significano anche il rischio di arresto e di deportazione. Discriminazioni razziste si incontrano ad ogni angolo della società, con sindaci e governatori che fanno a gara per vietare phone center, moschee, e negozi di kebab. A Milano, il comune e l’Atm organizzano insieme dei rastrellamenti sugli autobus, durante i quali gli immigrati privi di documenti vengono rinchiusi su carrozzoni blindati e portati nei Cie. In provincia di Brescia, un’amministrazione leghista ha lanciato l’operazione “White Christmas”, per ripulire il paese dagli immigrati “illegali” in vista del Natale.

A questo si assomma la pervasiva violenza legale dello Stato, simboleggiata dagli inferni che sono le galere etniche dei Centri di identificazione e espulsione, ma che ha anche il volto delle prevaricazioni e delle violenze poliziesche. Incoraggiate dalle continue campagne e decreti razzisti sia dell’attuale governo Berlusconi, che dei precedenti governi di Unione e Rifondazione, sono in ascesa anche le violenze extralegali di squadracce di picchiatori fascisti, che hanno preso di mira immigrati, rom e omosessuali.

Noi appoggiamo e anzi rivendichiamo con forza la necessità che i sindacati organizzino azioni di lotta e scioperi dell’intera classe operaia in difesa dei diritti degli immigrati e contro ogni manifestazione di oppressione razzista. Scioperi di questo tipo rappresenterebbero un’azione di forza che avrebbe un valore tutt’altro che simbolico.

Dietro l’ombrello della “Associazione primo marzo” (e alla finta “neutralità politica” del giallo, storicamente il colore del Vaticano e dei crumiri), una coalizione di pesci piccoli del Partito democratico, dell’Arci e della Chiesa cattolica, hanno indetto la “giornata senza immigrati” (nome orribile, che potrebbe anche piacere alla Lega Nord), il cui obiettivo, nelle intenzioni degli organizzatori era “una grande manifestazione non violenta per far comprendere all'opinione pubblica quanto sia determinante l'immi-grazione per la nostra società e quanto la difesa dei diritti sia centrale per la tenuta della democrazia” (primomarzo2010.it, 10 gennaio).

Il messaggio che gli organizzatori del Primo marzo vogliono mandare all’opinione pubblica capitalista è questo: la nostra economia (capitalista) ha bisogno della manodopera immigrata. Se volete continuare a sfruttarla vantaggiosamente, senza provocare esplosioni sociali, bisogna che facciate qualche concessione. La borghesia è divisa in relazione alla politica da adottare sull’immigrazione. Da un lato ci sono gli ideologi razzisti che invocano segregazione, rastrellamenti e deportazioni. Dall’altro c’è uno spettro politico che va dalla sinistra riformista (Rifondazione e soci), al Partito democratico, fino alla Chiesa cattolica, che sono consapevoli del fatto che interi settori industriali dipendono dalla presenza di manodopera immigrata a basso costo e che sono disponibili ad una limitata estensione dei suoi diritti (ad esempio ad una gestione più razionale dei permessi di soggiorno o alla concessione del voto amministrativo agli immigrati “regolari”) e che vorrebbe tenere a freno gli eccessi razzisti. E’ a questo settore della borghesia e non alla classe operaia che si rivolge la “giornata senza immigrati”, sostenuta dal Partito democratico, Rifondazione e le sue code, che hanno usato come al solito la favola dell’antirazzismo in vista delle scadenze elettorali di fine marzo. Lo dimostra il fatto che tra le prime e più prominenti adesioni ci sia stata quella di Livia Turco, l’autrice della legge razzista che ha creato i Centri di permanenza temporanea e sancito decine di migliaia di deportazioni.

Le pratiche politiche e il programma promossi dagli organizzatori della “giornata senza immigrati”, sono antitetiche all’idea di una mobilitazione di lotta di classe in difesa degli immigrati, e sono destinate a perpetuarne l’oppressione. Cionononostante, il bisogno bruciante di una mobilitazione sociale in difesa dei propri diritti, ha raccolto molta simpatia in un vasto settore di immigrati, che percepisce di avere un peso e una forza sociale crescente ed è stanco di essere vittima di un assalto razzista a senso unico.

Invece di dare forma organizzata di classe alla rabbia e alla volontà di lotta dei lavoratori immigrati, le burocrazie sindacali (con l’eccezione della Cub sanità e di pochi sindacati “di base” a livello locale, in aziende dove gli immigrati sono maggioranza), si sono opposte ad indire uno sciopero, fosse pure per dare copertura sindacale alla “giornata senza immigrati”. Il responsabile degli immigrati della Cgil, Pietro Soldini, ha rifiutato di dichiarare sciopero sostenendo che potrebbe trasformarsi in “un boomerang” e proponendo invece di ricorrere “a uno sciopero dei consumi, a segni di riconoscimento da indossare, a una iniziativa da fare di sabato, quando la maggior parte della gente già non lavora” (l’Espresso, 21 gennaio 2010).

Senza una seria mobilitazione dei sindacati uno “sciopero degli immigrati” non può che essere una prova di debolezza e un imbroglio, perché molti lavoratori immigrati si vedrebbero costretti a lavorare in ogni caso e quelli con abbastanza coscienza di classe da scioperare rischierebbero di perdere il lavoro. E anche se avesse l’appoggio dei sindacati, uno sciopero che si limiti ai lavoratori immigrati non sarebbe che un riflesso capovolto della mentalità razzista stile Lega Nord, secondo cui i lavoratori “italiani” non si mobiliterebbero mai in difesa degli immigrati, e gli unici disposti a farlo sarebbero gli immigrati stessi più qualche filantropo nelle redazioni dei giornali e nelle parrocchie. Il principio su cui ci basiamo noi comunisti è quello di unità della classe operaia nei sindacati: quando sciopera uno, devono scioperare tutti!

Frutti amari della collaborazione di classe

Affinché i sindacati possano combattere efficacemente per la causa degli immigrati e dei poveri, serve una direzione di lotta di classe costruita in una lotta politica contro gli attuali dirigenti traditori delle principali organizzazioni sindacali, che se non fiancheggiano direttamente il governo, sono spesso legati al Partito democratico o a Rifondazione comunista (come nel caso dei dirigenti della Fiom o di molti sindacati “di base”). Questa lotta richiede a sua volta la costruzione di un partito rivoluzionario che sarà forgiato in opposizione alla politica di collaborazione di classe che accomuna le varie forze della sinistra riformista.

Il Partito democratico e Rifondazione comunista oggi versano più di una lacrima sulle sofferenze degli immigrati. Ma quando nel 1997 al governo c’era l’Ulivo di Prodi (un governo di fronte popolare capitalista, cioè una coalizione tra partiti della borghesia appoggiata da partiti operai riformisti come Rifondazione comunista), sono stati loro stessi ad approvare leggi razziste come la famigerata Legge Turco-Napolitano che introdusse i Centri di permanenza temporanea (Cpt, ribattezzati da Maroni Centri di identificazione e espulsione). Tornati al governo nel 2006, Unione e Rifondazione non hanno affatto abolito la razzista Legge Bossi-Fini, che lega il permesso di soggiorno ad un contratto di lavoro. Al contrario: il 31 ottobre 2007 una delle ultime imprese del governo Prodi fu quella di varare con decreto legge (e col voto in prima persona del ministro e segretario del Prc Ferrero), un pacchetto razzista contro rom e rumeni, accompagnato da sgomberi e deportazioni che ha peggiorato la Bossi-Fini e ha spianato la strada al successivo Pacchetto sicurezza del governo Berlusconi che nel 2009 ha introdotto il reato di clandestinità!

La “politica alternativa” sull’immigrazione che propongono il Pd e Rifondazione, anche se rigetta gli “eccessi” razzisti della Lega Nord e dei suoi amici, ha come obiettivo fondamentale quello di garantire che il rubinetto della manodopera immigrata, ricattabile e a basso costo, resti saldamente nelle mani dello Stato capitalista e venga usato per soddisfare le esigenze dei capitalisti italiani. Infatti, dopo le aggressioni a Rosarno, il Pd ha accusato il governo di non aver “affatto frenato l'immigrazione irregolare e [per] la mancanza di qualsiasi seria politica di governo dei flussi migratori che fosse capace di corrispondere alle esigenze del mercato del lavoro e delle imprese e alle possibilità di accoglienza” (partitodemocratico.it, 8 gennaio).

Il Partito democratico è un partito capitalista che si propone come una forza più razionale ed efficace per gestire gli interessi della borghesia italiana, e che (specialmente quando è all’opposizione) veste i panni posticci di “amico” dei lavoratori e degli immigrati. Rifondazione comunista, un partito con una base operaia e un programma borghese, brancola in una crisi interminabile dopo essersi discreditata con la sua partecipazione al governo antioperaio di Prodi ed essere stata emarginata dal Pd. Nonostante gli schiaffoni ricevuti, Rifondazione continua ad elemosinare delle alleanze elettorali con il Partito democratico e il suo segretario Ferrero è arrivato a proporre di mettere Pierferdinando Casini, l’ex ministro del governo Berlusconi, a capo di una nuova coalizione elettorale contro Berlusconi, battezzata da Ferrero: “Comitato di liberazione nazionale” (la Repubblica, 21 dicembre 2009). Noi della Lega trotskista d’Italia ci siamo sempre opposti a dare qualsiasi voto alle coalizioni di Rifondazione e Unione (o oggi di Rc e Pd), dei fronti popolari capitalisti che servono a legare gli operai ai loro sfruttatori. Queste coalizioni si basano sulla menzogna che gli operai possano gestire il capitalismo, insieme ad un’ala presuntamente progressista della borghesia, e in nome della coalizione gli operai vengono costretti ad accettare gli interessi dei loro sfruttatori.

I vari rottami di Rifondazione (Partito comunista dei lavoratori, Sinistra critica e Partito di alternativa comunista), condividono questa politica. Anche se al momento, non vogliono compromettersi direttamente con dei blocchi elettorali con Rifondazione, hanno appoggiato quel partito per 15 anni, votando le coalizioni di cui ha fatto parte e hanno come orizzonte politico la “cacciata di Berlusconi” (il minimo comune denominatore del cretinismo parlamentare odierno).

Il capo del Pcl, Marco Ferrando, ha sbandierato il suo entusiasmo per la disperata rivolta di Rosarno, ma la sua conclusione è inevitabilmente la richiesta di “una immediata mobilitazione unitaria di tutte le sinistre politiche e sindacali a fianco della rivolta contro la repressione dello Stato” (pclavoratori.it, 8 gennaio): cioè di quelle stesse forze che dal governo hanno contribuito a creare le condizioni dell’attuale oppressione razzista. Su di un piano politico più generale, il Pcl sostiene che: “Sarebbe ora pertanto che tutte le sinistre rompessero ovunque col PD e col centrosinistra per candidarsi a polo autonomo e alternativo al bipolarismo, in rappresentanza delle ragioni indipendenti del mondo del lavoro” (pclavoratori.it, 26 gennaio). Da più di dieci anni il Pcl (e i suoi precursori) fa appello ad un “polo autonomo” di “tutte le sinistre” (che al momento sembra limitarsi a Rifondazione comunista e Sinistra ecologia libertà, che a sua volta contiene vari rottami dei Ds e di partiti borghesi come i Verdi). Questo “polo autonomo” non serve a nient’altro che a dimostrare la disponibilità del Pcl ad essere l’ultimo anello di una catena sifilitica, in cui il Pcl tira per la giacca Rifondazione, che si incolla alle braghe di Di Pietro, che giura lealtà al Partito democratico. Nei 15 anni trascorsi nel Prc, i precursori dell’attuale Pcl (come anche del Pdac), hanno dato appoggio elettorale alle coalizioni antioperaie e anti-immigrati di Unione e Rifondazione.

Nel comunicato su Rosarno, il Pcl rivendica giustamente “l’abrogazione dell’intera legislazione antimmigrati degli ultimi 12 anni”. Dimenticano di dire dove erano nel corso di questi 12 anni: dentro Rifondazione, dove rimasero tranquillamente anche quando tutti i parlamentari del Prc votarono in blocco la legge Turco-Napolitano.

Operai di tutto il mondo unitevi!

Da quando l’Italia si è trasformata da una terra di emigrazione in un paese di immigrazione all’inizio degli anni Novanta, l’oppressione degli immigrati è divenuta uno degli aspetti centrali del dominio capitalista in questo paese. Oggi vivono in Italia più di 4,5 milioni di immigrati (il 7,2 percento della popolazione) che occupano i gradini inferiori del proletariato, svolgendo i lavori più duri e peggio pagati in condizioni di estrema ricattabilità. Questi operai, privi di diritti, possono essere sfruttati dai capitalisti fino al limite della resistenza fisica. Vengono assunti o licenziati solo in funzione di esigenze stagionali o momentanee.

Allo stesso tempo è cresciuto il potere sociale dei lavoratori immigrati, che rappresentano un settore crescente e rilevante della classe operaia di interi settori industriali, dall’edilizia alla metallurgia. Lo dimostra il milione di lavoratori immigrati iscritti ai sindacati, quasi tutti solo negli ultimi dieci anni. Il fatto che nel giro di pochi anni, centinaia di migliaia di lavoratori immigrati si siano iscritti ai sindacati e abbiano preso parte a duri scontri di classe, ne testimonia la coscienza e la combattività. Negli ultimi due anni sono stati spesso dei lavoratori immigrati delle cooperative (alla Bennett di Origgio, alla Fiege e alla Gls nel Sud milanese, solo per citare alcuni casi in Lombardia) i protagonisti di scioperi duri che sono riusciti a piegare l’arroganza dei padroni.

La lotta per i pieni diritti di cittadinanza per tutti gli immigrati e per eliminare l’oppressione razzista è indissolubilmente legata alla lotta per rovesciare il sistema dello sfruttamento capitalista. Come abbiamo scritto nella “Dichiarazione di principi e alcuni elementi di programma” della Lega comunista internazionale (supplemento a Spartaco, aprile 1998).

“Il capitalismo moderno, cioè l'imperialismo, mettendo radici in ogni area del pianeta, nel corso della lotta di classe e come richiedono le necessità economiche, porta negli strati più bassi del proletariato nuove fonti di lavoro a buon mercato, principalmente immigrati da regioni del mondo più povere e meno sviluppate - lavoratori con pochi diritti che sono ritenuti più disponibili nei periodi di contrazione economica. Così il capitalismo crea continuamente strati diversi tra gli operai, mentre allo stesso tempo amalgama operai di molti paesi diversi. Dappertutto, i capitalisti, aiutati dagli opportunisti dell'aristocrazia operaia, cercano di avvelenare la coscienza e la solidarietà di classe tra gli operai fomentando divisioni religiose, nazionali e etniche. La lotta per l'integrità e l'unità della classe operaia contro lo sciovinismo e il razzismo è quindi un compito vitale per l'avanguardia proletaria”.

Il nostro obiettivo nel difendere gli immigrati, è di conquistare i lavoratori alla consapevolezza che si devono opporre all’intero sistema capitalista. Non cerchiamo di rattoppare il sistema, proponendo una politica alternativa sull’immigrazione. Ci battiamo contro ogni forma di oppressione e discriminazione e per strappare qualsiasi miglioramento, anche minimo, ai capitalisti e al loro Stato. Ma solo quando la classe operaia e la sua direzione rivoluzionaria avranno strappato alla classe dominante il potere politico e le avranno sottratto il controllo sull’economia, potremo occuparci dei flussi e riflussi di manodopera. Oggi non ci prendiamo nessuna responsabilità per le politiche sull’immigrazione della borghesia. Non abbiamo consigli da darle. Cerchiamo di organizzare il proletariato per distruggere questo sistema e istituire il potere proletario. Il nostro ideale, come spiegò Lenin nel Che fare (1902):

“Non deve essere il segretario di una trade union, ma il tribuno popolare, il quale sa reagire contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si manifesti e qualunque sia la classe o la categoria sociale che ne soffre, sa generalizzare tutti questi fatti e trarne il quadro completo della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico; sa, infine, approfittare di ogni minima occasione per esporre dinanzi a tutti le proprie convinzioni socialiste e le proprie rivendicazioni democratiche, per spiegare a tutti l'importanza storica mondiale della lotta emancipatrice del proletariato".

Il nostro modello resta quello della Rivoluzione bolscevica del 1917. Essa sostituì al dominio dei capitalisti e dei proprietari terrieri, quello della classe lavoratrice, che sventolava la bandiera della rivoluzione socialista mondiale. Nonostante la degenerazione stalinista che alla fine spalancò le porte alla controrivoluzione capitalista nel 1991-92, l’Unione Sovietica dimostrò la capacità di un’economia collettivizzata e pianificata di dare lavoro, istruzione, assistenza sanitaria e condizioni di vita decenti per tutti. Noi portiamo avanti la battaglia per i principi emancipatori della Rivoluzione bolscevica. E per quanto riguarda l’uguaglianza universale, non semplicemente formale, degli operai, ecco cosa diceva la Costituzione del 1918 su cui si fondava lo Stato operaio sovietico:

“Articolo 20: In forza della solidarietà dei lavoratori di tutte le nazioni, la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa accorda tutti i diritti politici dei cittadini russi agli stranieri che risiedano sul territorio della Repubblica Russa per ragioni di lavoro e che appartengano alla classe operaia oppure ai contadini che non si avvalgano di lavoro altrui, e riconosce ai Soviet locali il diritto di accordare a tali stranieri i diritti della cittadinanza russa senza ulteriori difficoltose formalità” (Citata in La Costituzione sovietica del 1977, Giuffrè, Milano, 1990).

La classe operaia, sempre più multietnica, d’Italia, ha il potere sociale di liberare sé stessa e tutti gli oppressi con la rivoluzione socialista. Gli immigrati non sono solo delle vittime, ma sempre più una parte integrante del proletariato. Come gli operai emigranti dell’Italia meridionale svolsero un ruolo di primo piano nelle lotte prerivoluzionarie che scossero il potere capitalista nell’autunno caldo del 1969, così gli operai immigrati sono destinati a giocare un ruolo fondamentale quando la lotta di classe tornerà a scaldarsi in questo paese. Con l’aggiunta che i lavoratori immigrati rappresentano un ponte umano verso le masse oppresse dei paesi semicoloniali da cui sono originari, ponendo la questione della lotta per una rivoluzione proletaria internazionale. Come scrisse Lenin in un articolo del 1913, intitolato “Il capitalismo e l’immigrazione operaia”:

“Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna di popoli. La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania ecc.”

Perché prevalga l’unità di classe, è necessario costruire un partito rivoluzionario d’avanguardia, sul modello del Partito bolscevico che Lenin e Trotsky costruirono nell’impero zarista russo, un partito che lotti per la rivoluzione socialista e per un’economia pianificata, collettivizzata. Un partito che si batta per conquistare la classe operaia alla lotta contro ogni forma di oppressione, che sappia generalizzare ogni battaglia nella consapevolezza della necessità del rovesciamento della borghesia. Solo la rivoluzione proletaria, che instauri il potere di consigli operai, espropriando i mezzi di produzione (fabbriche, terre, mezzi di trasporto) e costruendo a scala internazionale un’economia pianificata volta a soddisfare gli interessi di masse di milioni di uomini e non di un pugno di sfruttatori, potrà creare una ricchezza sociale ed un’eguaglianza tali da eliminare guerre, crisi e discriminazioni razziste. E’ in questa direzione che lottano la Lega trotskista d’Italia e le sezioni della Lega comunista internazionale.

 

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Marzo 2010

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