|
|
Spartaco n. 65 (Donne e Rivoluzione) |
Febbraio 2005 |
|
|
Matrimonio e Stato capitalista
Per il diritto al matrimonio (e al divorzio) dei gay!
Negli ultimi mesi, il diritto al matrimonio gay e i diritti degli omosessuali sono stati nel mirino di una vera crociata reazionaria. Uno degli elementi chiave della vittoria di Bush alle presidenziali americane lo scorso novembre è stato il ricorso all’isteria sessuofoba. In 11 stati le elezioni sono state fatte coincidere con dei referendum per vietare i matrimoni gay, in modo da mobilitare le forze profonde della reazione religiosa d’America. Come ben descriveva il New York Times (26 ottobre 2004): “Quanto a politica, Bush ha fatto più di ogni altro presidente americano precedente per attuare i piani dei conservatori sociali cristiani. In politica interna si oppone al matrimonio gay, è favorevole a restringere il diritto d’aborto e a limitare la ricerca sulle cellule staminali. Inoltre ha istituito dei sussidi per le scuole religiose e dirottato i fondi destinati all’educazione sessuale e alle spese sanitarie per la riproduzione verso programmi a favore dell’astinenza”. Si capisce che molti guardassero a Kerry come unica alternativa, un sentimento riassunto nello slogan “chiunque piuttosto di Bush”. Ma non bisogna dimenticare che Kerry ha votato a favore della guerra in Iraq, che voleva aumentare di 40.000 soldati il contingente militare dispiegato in quel paese e che inoltre ha votato a favore dell’Usa-Patriot Act. Nelle elezioni americane i nostri compagni hanno detto: “Rompere con il partito democratico! Serve un partito operaio rivoluzionario!” e non hanno dato nessun sostegno elettorale né al Partito democratico né ai Verdi, partiti borghesi che non rappresentano un’alternativa ai repubblicani.
In Italia, paese del Vaticano, ci sono continui attacchi violenti contro gli omosessuali. Il 18 aprile 2004 a Lucca una lesbica è stata aggredita e brutalmente stuprata da una “spedizione punitiva” di due uomini che volevano terrorizzare la sua compagna, una nota attivista lesbica che pochi mesi prima aveva parlato ad un comizio contro Forza nuova. A Roma nel novembre 2004, un esponente dell’Unione degli studenti è stato aggredito a insulti e spintoni perché dichiaratamente gay, dopo una lunga campagna discriminatoria di Azione giovani e del Movimento studenti cattolici contro gli omosessuali. La violenza e le discriminazioni omofobe vengono istigate dai massimi livelli dello stato capitalista e della chiesa cattolica, che continua a scomunicare l’omosessualità come “un peccato assoluto”. Emblema dell’odio contro gli omosessuali e le donne è la crociata dell’inquisitore Buttiglione, che ha accusato gli omosessuali di essere dei “peccatori” e le donne single delle “cattive madri”. Le gesta di questo fanatico oscurantista non sono nuove: nel 2000 e nel 2001 ha cercato di impedire le manifestazioni del gay pride a Roma e Milano definendole delle “provocazioni contro i sentimenti dei cattolici”. Nel 2000 ha presentato alla Convenzione europea incaricata di redigere la Carta dei Diritti fondamentali, un emendamento in cui proponeva di togliere l’“orientamento sessuale” dall’elenco dei motivi in base a cui non si devono fare discriminazioni. E non è sicuramente isolato! La sua esclusione dalla Commissione europea per la sua arrogante misoginia, ha provocato la bile a tutto il governo, il cui spirito è stato riassunto dagli schifosi insulti omofobi del ministro fascista Mirko Tremaglia.
Liberazione (5 dicembre 2004) ha descritto la condizione di discriminazione legale degli omosessuali in Italia:
“Nessun provvedimento che riconosca tutti i diritti di cittadinanza alle persone gay, lesbiche, trans/gender e queer [sic]. Nessuna legge che punisca i comportamenti discriminatori che vanno dagli insulti, al dileggio, al mobbing sul posto di lavoro fino al licenziamento vero e proprio. Nulla di specifico contro i ‘crimini d’odio’ che consistono in violenze di vario tipo e in molti ‘omocidi’ in serie come quelli che da oltre un decennio si verificano a Roma e che, spesso, riguardano omosessuali anziani che comprano prestazioni sessuali da ‘marchette’ senza scrupoli. In compenso è da sottolineare che l’orrenda legge sulla riproduzione assistita discrimina apertamente chi non è eterosessuale”.
Vi sono molte illusioni tra gli omosessuali, i giovani e i lavoratori, sul fatto che un governo “di sinistra” sarebbe un male minore rispetto ad un governo di destra come quello Berlusconi. Come ha scritto Liberazione (5 dicembre 2004):
“Ormai da mesi la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sta esaminando le varie proposte di legge per le unioni civili presentate nel corso degli ultimi anni: l’iter è lungo e le prospettive di qualche risultato positivo sono praticamente nulle in questa legislatura. Alla comunità glbtq italiana non resta che sperare nel prossimo auspicato governo di centrosinistra anche se i primi segnali non sono confortanti”.
Questo sentimento è incoraggiato dalla vittoria del candidato di Rifondazione Nichi Vendola, un militante per i diritti dei gay, alle primarie della Gad (L’Unione) in Puglia, oltre che dalla presenza in seno a Rifondazione e Ds di molti militanti del movimento omosessuale.
Il movimento operaio dovrebbe battersi per i pieni diritti democratici per tutti gli omosessuali, compreso il diritto a sposarsi e crescere dei figli o ad avere accesso alle tecniche di riproduzione assista. Bisogna difendere il diritto d’aborto dall’attacco reazionario che oggi si esprime nella legge oscurantista e vendicativa sulla riproduzione assistita. Aborto libero, gratuito e assistito per tutte le donne, anche le minorenni e le immigrate! La legge sulla riproduzione assistita dev’essere abolita e la riproduzione assistita garantita gratuitamente, secondo le tecniche migliori, a tutte le donne che la richiedano, come parte di un’assistenza medica di qualità per tutti. Queste rivendicazioni democratiche di base richiedono una lotta a tutto campo contro la Chiesa cattolica, che in questo paese è un baluardo della reazione. Stato e Chiesa fuori dalle camere da letto! Totale separazione dello Stato dalla Chiesa! Abolire il Concordato! Espropriare tutti i beni del Vaticano!
Invece la ricerca continua da parte di Rifondazione e Ds di un’alleanza con una pretesa ala “progressista” della borghesia italiana e di conseguenza con partiti cattolici antiabortisti e antigay, è destinata a mutilare e minare qualsiasi misura a favore degli omosessuali o delle donne e a sacrificarne ad ogni passo gli interessi fondamentali a vantaggio dei profitti dei capitalisti e dei diktat reazionari del Vaticano.
Lo si è già visto. Il 9 febbraio Prodi ha ribadito che “Non c’è alcun dubbio: io sono contrario al matrimonio fra i gay (…) Famiglia e matrimonio non si usano per persone dello stesso sesso”. Come ha ricordato la stampa (9 febbraio), che Prodi sia clericale e antiabortista non è una novità: “la novità è che invece i gay gli rispondono: ‘benissimo, bravo Prodi’, come fa Franco Grillini, deputato diessino rappresentante dell’Arcigay”. Anche Nichi Vendola si è inchinato a Prodi ammettendo che è “estremo forse anche per me l’uso di una terminologia con la quale il vocabolario cattolico indica delle cose precise”, gettando immediatamente a mare la rivendicazione del matrimonio gay e proponendo come “minimo comune denominatore” il “riconoscimento civile delle coppie di fatto”. Il fondamentale sostegno all’ordine capitalista dei Ds e di Rifondazione significa inevitabilmente un sostegno al ruolo economico centrale della famiglia borghese, la radice dell’oppressione delle donne e della discriminazione degli omosessuali. Pubblichiamo di seguito una versione leggermente adattata di un articolo sul matrimonio gay tradotto da Workers Vanguard n.824 (16 aprile 2004) giornale della Spartacist League, sezione americana della Lega comunista internazionale.
* * *
“Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti. Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia. Ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di questo suo complemento, e ambedue scompariranno con lo sparire del capitale” (Manifesto del Partito comunista, 1848).
Fino al bel giorno in cui sparirà il capitalismo, la famiglia monogamica resta il modello sociale imposto dalla legge, almeno nelle società occidentali, attorno a cui è organizzata la vita privata nei suoi aspetti più intimi: l’amore, il sesso, la riproduzione e la crescita dei figli. E’ l’istituzione sociale centrale nell’oppressione delle donne, ed il fanatismo antigay deriva dalla necessità di punire tutte le “deviazioni” da questa struttura patriarcale. La ragione per cui qualcuno che non sia costretto da pressioni sociali o economiche ad assoggettarsi volontariamente ai legami del matrimonio rimane uno dei misteri della vita. Sembra però che di questi tempi, gli unici che vogliano veramente sposarsi siano anche gli unici cui il presidente Bush cerca di impedirlo: i gay e le lesbiche.
Hanno assolutamente il diritto di sposarsi. Ma anche i socialisti hanno assolutamente il diritto di lottare per una società in cui nessuno debba essere costretto in una camicia di forza legale per ottenere assistenza sanitaria, diritto di visita, custodia dei figli, permessi di soggiorno o uno qualsiasi dei molti privilegi che la società capitalista concede a coloro, e solo a coloro, che si integrano nella struttura legale tradizionale di “un uomo e una donna per tutta la vita”.
La controversia sul “matrimonio gay” negli Usa è scoppiata lo scorso novembre, quando la Corte suprema giudiziaria del Massachusetts ha stabilito l’incostituzionalità della limitazione delle coppie gay alle sole “unioni civili”, sancendo così il diritto al matrimonio gay nel Massachusetts. A febbraio, il sindaco di San Francisco ha ordinato che venissero emesse autorizzazioni di matrimoni tra individui dello stesso sesso e 4.037 coppie gay e lesbiche di 46 stati e 8 diversi paesi si sono sposate prima che le cerimonie venissero di nuovo sospese l’11 marzo. A New Palts, New York, il sindaco del Partito dei verdi, ha colto la palla al balzo, officiando 25 matrimoni omosessuali. Quando il tribunale glielo ha vietato, ci hanno provato due sacerdoti unitari locali, che a loro volta si sono visti fare causa dal procuratore distrettuale della Contea di Ulster, per la celebrazione di “matrimoni senza autorizzazione”.
Nel 1996, Clinton firmò la legge per la difesa del matrimonio che stabilisce che “la parola ‘matrimonio’ vale solo nel senso di un’unione legale tra un uomo e una donna come marito e moglie”. Con zelo del tutto profano, i fondamentalisti cristiani di tutte le specie ora stanno spingendo per un emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che vieti agli stati di riconoscere il matrimonio gay (già 39 stati hanno rifiutato di riconoscerlo). Altri delirano che adesso sono caduti gli argini che frenavano la più terribile immoralità. Ad esempio la poligamia. Il giudice della Corte suprema Antonin Scalia, che si è opposto alla decisione della Corte suprema di cancellare le leggi contro la sodomia nel Texas, sostiene che la decisione potrebbe eliminare non solo il divieto ai matrimoni omosessuali, ma anche “di incesto tra adulti, prostituzione, masturbazione, adulterio, fornicazione, bestialità e oscenità”.
Il presidente Bush, che appoggia l’emendamento costituzionale contro i gay, ha intonato: “L’unione di un uomo e una donna è la più antica istituzione umana, onorata e incoraggiata da tutte le culture e fedi religiose”, e si è lamentato che “Dopo (…) millenni di esperienza umana, qualche giudice e autorità locale pensi di cambiare la più fondamentale istituzione della civiltà”. Il Wall Street Journal invece, lo sguardo fisso al grafico dei profitti, ha pubblicato un articolo su come “Arricchirsi con il matrimonio gay” (11 marzo), mentre i venditori pubblicizzavano “Loveland”, una “Fiera dei matrimoni omosessuali” al centro congressi Jacob Javits di New York.
Quest’improvvisa ondata di delirio ipocrita che passa oggigiorno per dibattito politico, specialmente quando si parla di sesso, ha anche la sua dose di umorismo nero e bizzarro. Ciò si deve in parte alla realtà incasinata della vita di molta gente, che ha poco a che vedere con i rigidi ritratti ufficiali della rettitudine morale cristiana, che il governo assurge a modelli di comportamento sociale. Ma le questioni sociali coinvolte più in profondità sono dannatamente serie: dalle questioni personali più intime alle vaste aree della responsabilità per l’educazione delle nuove generazioni, a come prendersi cura degli altri, siano essi familiari, amici o amanti. In breve, il modo in cui è organizzato e definito il complesso della “vita privata”.
I lavoratori devono lottare per i diritti democratici dei gay
E’ ovvio che le previsioni apocalittiche sulla fine della civiltà se si consente ai gay di sposarsi non sono nient’altro che fantasie isteriche. Allo stesso tempo però il matrimonio gay non potrà, di per sé, porre fine ai pregiudizi spesso omicidi e alle sofferenze che gay, lesbiche, bisessuali e transessuali conoscono nella vita di tutti i giorni, in questa società omofoba e sessualmente repressiva. Sono proprio queste sofferenze a rendere così importante la lotta per strappare tutti i diritti democratici possibili e ogni specie di eguaglianza sociale e politica in questa società.
Un compito vitale dell’avanguardia rivoluzionaria della classe operaia è quello di combattere per i pieni diritti democratici dei gay, che oggi includono il diritto al matrimonio, e di lottare per conquistare la classe lavoratrice a questa causa. La Spartacist League lo ha fatto fin dalle sue origini. Come spiegò Lenin nel suo scritto del 1902, Che fare:
“La coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se gli operai non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la classe che ne è colpita. (...) Perché mai l’operaio russo esplica ancora un’attività rivoluzionaria così ridotta di fronte alle violenze bestiali della polizia contro il popolo, alle persecuzioni contro le sette religiose, alle bastonature dei contadini, agli abusi della censura, ai maltrattamenti dei soldati, alla repressione delle più innocue iniziative culturali ecc.? (...) Se non abbiamo saputo organizzare vaste, clamorose, rapide denunce di tante infamie, la colpa è nostra, è del nostro ritardo sul movimento delle masse. Se lo faremo (e dobbiamo e possiamo farlo), l’operaio, anche il più arretrato, comprenderà o sentirà che lo studente e chi appartiene ad una setta religiosa, il contadino e lo scrittore sono oppressi e perseguitati dalla stessa forza tenebrosa che lo avvolge, l’opprime in ogni momento della vita”.
Qui, negli Stati Uniti, uno dei paesi capitalisti “avanzati” più arretrati del mondo dal punto di vista politico, schiacciato dal peso di un puritanesimo e un fondamentalismo religioso pervasivi, c’è molta arretratezza sulla questione dei gay.
I pregiudizi omofobi sono diffusi anche tra gli operai neri, che sono uno dei settori storicamente più combattivi del proletariato e che di solito hanno meno illusioni nelle “buone intenzioni” di questo marcio ordinamento sociale capitalista. In gran parte questi sono alimentati dalle forze conservatrici della chiesa nera, anche se persino le chiese sono molto divise sulla questione. Come abbiamo scritto nell’articolo “Per il diritto dei gay al matrimonio!”: “Ad un estremo, c’è il fenomeno di un sacerdote battista nero, il Rev. Gregory Daniels, che ha dichiarato: ‘se il Kkk si oppone al matrimonio gay, cavalcherò con loro’ (New York Times, 1 marzo 2004). Forse riuscirà a montare in sella, ma la cavalcata sarà corta: il primo bersaglio di questa tetra accozzaglia di fascisti nativisti e antioperai è la gente di colore” (Workers Vanguard n.821, 5 marzo 2004).
In contrasto a questi miopi pregiudizi antigay c’è la compassione che molti neri provano per aver conosciuto sulla propria pelle i tormenti e i pericoli dell’oppressione e della discriminazione. Un senatore di Roxbury, nello stato del Massachusetts, lo ha spiegato bene: “conosco il dolore che si prova ad essere meno che uguali e non posso e non voglio imporre questo stato a nessun altro. C’è solo una generazione tra me e l’esistenza della schiavitù. Non potrei mai, in coscienza, votare per mettere qualcuno nella posizione da cui è fuggita la mia famiglia”. Altri non capiscono che un attacco ad uno è un attacco a tutti e finiscono così per appoggiare sottobanco il campo dei bigotti razzisti antigay. Adrian Walker, un editorialista nero del Boston Globe (12 febbraio), ha citato le parole di un prete: “Pensate ad Emmet Till, agli Scottsboro Boys, e a quei cani di poliziotti di Birmingham, e ditemi che hanno conosciuto ciò che hanno conosciuto. Questo non c’entra nulla con i diritti civili”. Questo argomento riflette in parte la dannosa politica del “settorialismo” del Partito democratico, in cui ciascun settore degli oppressi si trova contrapposto ad un altro nella lotta per ottenere l’aiuto di uno Stato che difende il dominio capitalista.
E’ chiaro che ci sono molte differenze, differenze qualitative, tra l’oppressione dei neri e quella dei gay in questa società. Il razzismo è il sostrato del capitalismo americano, la grande faglia di demarcazione della politica americana fin dalla fondazione della nazione sulle spalle degli schiavi neri. La classe dominante manipola coscientemente il razzismo per indebolire il proletariato. La lotta per la libertà dei neri sarà un aspetto centrale della rivoluzione proletaria negli Usa. Perché questa rivoluzione avvenga, la classe operaia, compresa la sua strategica componente nera, deve capire il suo compito storico di abolire la società divisa in classi per aprire la strada alla libertà umana per tutti. Compresi certamente i gay e tutti coloro che, comunque si definiscano, si ribellano alla camicia di forza dei ruoli sociali imposti dalla classe dominante capitalista.
Inoltre, la violenza contro i gay, le lesbiche e i transessuali è una costante omicida nelle strade d’America e nel repressivo sistema di ingabbiamento a tempo perso che passa sotto il nome di scuola pubblica. L’orribile omicidio di Laramie del 1998, in cui Matthew Shepard, uno studente gay di 21 anni del Wyoming fu rapito, picchiato, bruciato e poi lasciato morire legato ad una staccionata, ha sconvolto la nazione. Anche se mancano statistiche accurate, sia perché molte vittime non sporgono denuncia per timore di ulteriori molestie da parte della polizia, delle autorità scolastiche e dei genitori, sia perché le statistiche ufficiali non sempre elencano in maniera accurata i “crimini d’odio”, ogni anno vengono riportati ben più di 1.000 casi di violenza, a volte letale, ai danni di gay, lesbiche, e altri considerati sessualmente “devianti”.
I gay non hanno ancora pieni diritti civili: per esempio non possono arruolarsi apertamente nell’esercito. Secondo la rete per la difesa legale dei soldati, un gruppo per i diritti dei gay, dieci anni dopo l’adozione della tristemente famosa dottrina di Bill Clinton “non chiedere e non dire”, quasi 10.000 soldati sono stati espulsi perché apertamente gay. Come scrivemmo all’epoca: “I gay e le lesbiche dichiarati hanno lo stesso diritto di chiunque altro di far parte delle forze armate”, pur ricordando il vecchio slogan marxista “né un uomo né un soldo” per l’esercito (“Gays in the Military” Workers Vanguard n.569, 12 febbraio 1993). Questa è la tradizione di opposizione alla guerra imperialista del marxismo militante. Allo stesso tempo, l’esercito è un microcosmo della società nel suo insieme, perciò lottiamo contro le atrocità razziste e le discriminazioni nelle forze armate come nel resto della società. La lotta per integrare appieno i soldati neri nelle forze armate alla fine della seconda guerra mondiale creò una possibile base di forza per le lotte per l’emancipazione dei neri e in effetti all’epoca gli attivisti per i diritti civili dei neri lottavano anche per i diritti degli omosessuali nelle forze armate.
Governo e controllo sociale delle donne
Molti penseranno: è giusto che i gay abbiano diritti democratici, ma perché il matrimonio? I politicanti capitalisti che corrono per la Casa Bianca fanno un balletto intorno alle “unioni civili”, prive di ogni significato, accodandosi in pratica al voto dei reazionari religiosi. Ma il matrimonio non è in un certo senso “speciale”, più privato e “sacro”? Per niente. Il matrimonio monogamico è una creatura della società, non di Dio (che non esiste) ed è stato storicamente usato dalle classi dominanti come mezzo di controllo sociale reazionario. Noi sosteniamo il consenso effettivo in tutte le relazioni sessuali e pensiamo che quello che la gente fa a letto, in qualsiasi combinazione di individui, è affare esclusivo dei partecipanti, finché resta consensuale. Pur difendendo il diritto dei gay a sposarsi, sosteniamo anche che la “matrimoniomania” esprime un impulso fondamentalmente conservatore dell’ambiente gay piccolo-borghese e benestante. C’è una bella differenza tra il “libero amore” e la Rivolta di Stonewall del 1969 e le attuali cerimonie matrimoniali, le riunioni dell’associazione genitori-insegnanti e le campagne di raccolta di fondi per i democratici e i repubblicani. Nella speranza di ottenere “rispettabilità” borghese, gli organizzatori del gay pride hanno oscenamente escluso il Nambla (North American Man-Boy Love Association) dalle loro manifestazioni, alimentando così l’isteria “antipedofila” che prende di mira tutti i gay, mentre danno il benvenuto a gruppi di poliziotti gay che passano gran parte del tempo a dare la caccia ai “criminali sessuali”.
Ma continuiamo, come abbiamo fatto nel caso delle forze armate, ad opporci all’esclusione di qualsiasi categoria di persone dall’accesso ai privilegi e ai vantaggi che queste istituzioni offrono nella società. Allo stesso tempo, nel corso della lotta per questi diritti, cerchiamo di convincere gli attivisti che per risolvere davvero l’oppressione dei gay e delle donne bisogna creare una società socialista, in cui le funzioni attuali della famiglia borghese vengano socializzate, attraverso la cura dei figli da parte della comunità, cucine comunitarie, assistenza sanitaria gratuita e di qualità e liberando in molti modi le donne dal fardello dell’educazione dei figli e della schiavitù domestica.
Un’analisi della storia del matrimonio monogamico negli Stati Uniti rivela il modo in cui è stato usato come strumento di controllo governativo. Un libro prezioso al riguardo è quello di Nancy F. Cott: Voti pubblici: una storia del matrimonio e della nazione (Harvard University Press, 2000). Il libro sostiene che: “La struttura del matrimonio (…) facilita il controllo del governo sulla popolazione (…) Grazie alla legge e alle imposizioni, lo Stato decide i termini del matrimonio, dice chi può o non può sposarsi, chi può celebrare il matrimonio, quali obblighi e diritti sono legati all’accordo, se può essere rescisso, quando e come”. I passaggi che seguono sono tratti in gran parte da questo libro, a meno che non siano riportate fonti diverse.
Uno dei temi centrali del libro è il modo in cui intere categorie di persone, specialmente quelle considerate “inferiori” si sono viste negare in molti stati il diritto legale di sposarsi.
Tra queste erano compresi gli schiavi neri che ovviamente non avevano alcun diritto. E per decenni dopo la guerra civile, ai neri e agli asiatici fu proibito sposare dei bianchi. Inoltre, come spiega Cott, “nella politica pubblica la proibizione dei matrimoni divergenti ha avuto la stessa importanza del sostegno al modello prescelto”. Perciò ai mormoni e ai nativi americani, che erano poligami, fu vietato di praticare la loro forma di “matrimonio” e i tentativi di formare delle comuni utopistiche negli anni immediatamente precedenti alla guerra civile furono soggetti ad un massiccio attacco dopo la vittoria del Nord e il consolidamento della nazione americana sotto la presa crescente del capitalismo industriale.
Fin dall’inizio in America il matrimonio, per quanto infuso di dottrina cristiana, fu una questione di controllo governativo e non tanto un’istituzione religiosa, dato che gli Usa furono costituiti sulla base della separazione formale tra Stato e Chiesa. Alla fine del diciottesimo e all’inizio del diciannovesimo secolo, il matrimonio veniva considerato di per sé, sulla base della vecchia legge comune, come una “forma di governo (…) La posizione di comando nella famiglia, la responsabilità su una moglie e dei figli dipendenti, qualificavano l’uomo ad essere membro dello Stato (…) Sotto la legge comune, la donna, una volta sposata, veniva assorbita dalla persona legale ed economica del marito, e il marito conquistava il titolo civile che questa perdeva”. Questa concezione in effetti è proseguita anche per tutto il ventesimo secolo ed ha ricevuto un colpo decisivo, almeno sul piano dei diritti civili pubblici, solo con la conquista del diritto di voto delle donne, su scala nazionale, nel 1920. Ma ancora nel 1922 il Congresso stabilì che una donna avrebbe perso la cittadinanza se sposava uno straniero e risiedeva per due anni nel suo paese. Tra le altre ragioni di perdita della cittadinanza per le donne vi erano il matrimonio con un asiatico, un poligamo o… un anarchico!
All’interno degli stretti confini del rapporto matrimoniale, la supremazia maschile rimase assolutamente intatta. Cott descrive tre sentenze della Corte suprema degli Usa, nel 1904, 1908 e 1911, che sostengono tutte il diritto del marito a controllare il corpo della moglie. La sentenza del 1904 stabilì il diritto del marito a esigere i “danni” dall’amante della moglie in caso d’adulterio, affermando persino che il diritto “esclusivo” del marito ad avere rapporti sessuali era “un diritto dei più alti, su cui… si basa l’intero ordinamento sociale” (è ovviamente un’esagerazione retorica: se fosse vero alla lettera, l’ordinamento sociale sarebbe crollato da un pezzo). La sentenza del 1908 giustificava il divieto posto dal Congresso all’introduzione di donne negli Usa per “scopi immorali”, impedendo così l’ingresso ad un uomo e alla sua amante e sancendo l’autorità del governo ad imporre la monogamia e punire le donne che la trasgredivano. La sentenza del 1911 riguardava il tentativo di una donna di perseguire legalmente il marito per aggressione e lesioni. La Corte suprema rifiutò di interferire tra l’uomo e la moglie, respingendo “l’idea radicale e pericolosa” secondo cui una donna poteva perseguire il marito per le sue offese “come se fossero estranei” e affermando che era “meglio calare il sipario, allontanare lo sguardo del pubblico”, per dirla con le parole di una decisione precedente del tribunale del North Carolina, sulle prerogative della brutalità maschile nella cerchia familiare. Ci vollero massicce esplosioni sociali e un’ondata di attivismo femminista lanciata dalla nuova sinistra negli anni Settanta per spezzare finalmente il diritto effettivo del marito a stuprare la moglie. Fu solo nel 1984 che un tribunale di New York rovesciò finalmente l’esenzione dei mariti dall’accusa di stupro, una decisione che fu poi seguita da altri stati.
Nativi americani, neri, asiatici e immigrati: matrimoni forzati e matrimoni vietati
La creazione della nazione americana si è appoggiata sulle schiene degli schiavi neri e sullo sterminio quasi completo dei nativi indiani, popoli di agricoltori e di cacciatori-raccoglitori, portando alla creazione di una democrazia borghese per i soli proprietari bianchi maschi. Quanto di più avremmo potuto imparare sulla storia antica della nostra specie da questi popoli indigeni, massacrati continuamente e confinati nelle “riserve”, è una questione cui i marxisti americani devono essere molto sensibili. Dopo tutto l’opera di Friedrich Engels, L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), si ispirò alle pionieristiche ricerche dell’antropologo americano Lewis H. Morgan sulle strutture familiari delle tribù nordamericane. Furono in gran parte queste ricerche a condurre i marxisti alla comprensione del fatto che gli esseri umani erano vissuti “per millenni” in rapporti non patriarcali, in seno a società matrilineari in cui le donne non erano costrette nella camicia di forza del matrimonio monogamico e in cui la cura dei bambini era responsabilità sia degli uomini che delle donne. Il matrimonio monogamico è un’ invenzione della società, ed è stato importato in Nord America dai coloni, insieme alle malattie, agli schiavi e alla “sacra famiglia”.
Perciò, quando non furono semplicemente sterminate, le popolazioni native americane si videro offrire un’alternativa “illuminata” dai loro vincitori: marcire nelle riserve o abbandonare le loro tradizioni “pagane”. Come spiega Cott, “A differenza dei protestanti, molti gruppi, in particolare gli irochesi che dominavano la parte orientale del Nord America, non consideravano la famiglia nucleare un’unità economica e psicologica così fondamentale, e in genere non riconoscevano neppure la proprietà privata in quanto tale… Il governo federale incoraggiò costantemente e spesso costrinse gli indiani ad adottare la monogamia sul modello cristiano, come condizione sine qua non della civiltà e della morale”. In alcuni casi si pensava di poter “civilizzare” gli indiani convertendoli al cristianesimo, e il matrimonio tra donne indiane e uomini bianchi era tollerato, anche se in alcune decine di stati i matrimoni tra indiani e bianchi erano dichiarati nulli. La Legge Dawes del 1887 sottrasse le terre di proprietà delle comunità indiane, minando il modo di vivere tribale e imponendo “cognomi” familiari maschili agli indiani (contrariamente a quanto avveniva nella cultura tradizionale indiana) e stabilendo il “diritto di proprietà-possesso individuale, cosa che sovvertì ancor più il ruolo delle donne native americane nell’agricoltura, dato che questo presupponeva che a possedere e coltivare le terre fossero i maschi indiani”. Scrive Cott: “Il governo impose agli indiani, esattamente come aveva fatto con gli ex schiavi e gli ex poligami, l’adozione della monogamia come ‘legge della vita sociale’ per diventare cittadini”.
D’altro canto, per gli schiavi neri d’America, la possibilità di sposarsi legalmente era fuori discussione, anche se i proprietari di schiavi incoraggiavano in pratica la procreazione in modo da riprodurre ed allargare la popolazione degli schiavi, specialmente dopo il 1808, data in cui fu vietato importare schiavi. “Il concubinaggio, che tra gli schiavi è volontario ed è consentito da parte del padrone… è il rapporto cui sono sempre state costrette queste persone”, scrisse il Giudice capo della Corte suprema del North Carolina nel 1838. Perciò la lotta per il diritto al matrimonio, in quanto affermazione del diritto di controllo del proprio corpo e di stabilire un libero contratto con un altro essere umano, fu sempre considerata parte integrale della lotta per la libertà dei neri.
Come avviene sempre in America, il razzismo è profondamente intrecciato alle leggi sul matrimonio. I tentativi di impedire il “mescolamento” della “razza bianca” furono una caratteristica esclusiva, fin dalla nascita, delle colonie americane (col peculiare risultato che persone con origini e carnagione dalle tonalità più disparate, vengono considerate automaticamente “nere” se hanno persino l’ombra di un antenato nero). Fin dai tempi antichi, quando si svilupparono per la prima volta la famiglia e il matrimonio monogamici, delle leggi contro i matrimoni misti tra classi diverse hanno cercato di conservare alla classe dominante i suoi privilegi. Ad esempio la Spagna si diede delle leggi di questo tipo nel 1776, così come fecero in Irlanda gli imperialisti inglesi nel quattordicesimo secolo. Ma l’America, in virtù della sua storia schiavista, fu unica nel modo in cui sviluppò l’illogicità del razzismo fino al punto che in molti stati il matrimonio tra bianchi e neri continuava ad essere vietato persino dopo la vittoriosa Guerra civile, che liberò gli schiavi. Nel Mississippi la pena era l’ergastolo. Nell’Alabama la legge sui matrimoni misti fu cancellata solo nel 2000!
Il rapporto intercorrente tra la schiavitù e la subordinazione delle donne nel matrimonio fu sempre percepito ed usato, da ambo le parti. I sacerdoti evangelici del Sud, che prima della Guerra civile scrissero più della metà dei trattati a favore della schiavitù, citavano immancabilmente la Bibbia. Un argomento tipico era che Dio “ha incluso la schiavitù come elemento organizzativo di quell’ordinamento familiare che è fondamento stesso della Chiesa e dello Stato”. Sul lato opposto, quegli abolizionisti della schiavitù e i primi sostenitori dei diritti delle donne che si rifacevano agli ideali liberali della libertà individuale e del concetto per cui la “proprietà di sé stessi” era un diritto naturale, vedevano che sia le donne sposate sia gli schiavi erano privi di questo diritto. Nelle parole di Lucy Stone: “Il matrimonio è per la donna uno stato di schiavitù. La priva del diritto di proprietà e la rende in tutto e per tutto soggetta al marito”.
Dopo la Guerra civile, una serie di ondate d’immigrazione alimentò la crescita dell’industrializzazione americana. Anche in questo caso le politiche matrimoniali del governo mirarono al controllo sociale. Sulla costa occidentale, i primi immigrati cinesi, arrivati all’epoca della corsa all’oro, erano molto ricercati come manodopera per le miniere e i cantieri ferroviari, ma al completamento della ferrovia transcontinentale nel 1869, scoppiò un’ondata di razzismo anticinese. La prima misura federale di restrizione dell’immigrazione, il Page Act del 1875, era rivolto contro le donne asiatiche, trattate come fossero tutte prostitute, e chiedeva al “consolato Usa di accertarsi che tutte le immigrate che sbarcano da un paese asiatico non fossero sotto contratto per ‘scopi turpi e immorali’”. Nel 1913 c’erano già leggi contro il matrimonio dei bianchi con giapponesi o cinesi in otto stati.
Le utopie del “libero amore” e la poligamia
Negli anni tempestosi che portarono a quella grande esplosione sociale che fu la Guerra civile americana, l’ultimo soprassalto progressista della borghesia (l’analogo delle rivoluzioni del 1848 in Europa), in Nord America fiorirono molti tentativi socialisti utopisti di sperimentare delle alternative al matrimonio monogamico. Negli Usa furono create molte comunità che praticavano il “libero amore”, ispirate da visionari utopisti come Robert Owen, Claude Saint-Simon e Charles Fourier, la cui profonda comprensione del fatto che lo stato delle donne era un indice decisivo del progresso sociale avrebbe ispirato le successive teorie marxiste su questo argomento. La comunità di Oneida a New York, fondata nel 1849 con un opuscolo intitolato Schiavitù e matrimonio: un dialogo, eliminò le relazioni esclusive di coppia, anche se all’interno di una struttura molto formalizzata. Questi gruppi, pur essendo fatti oggetto di ludibrio e condanna, non vennero in generale perseguitati prima della Guerra civile, ma solo dopo, quando nel nome del “consolidamento” della nazione fu dato un giro di vite a tutte le forme di “deviazione sociale”.
Tra tutti, spicca un gruppo interessante che esiste tuttora: la Chiesa di Gesù Cristo e i santi dell’ultimo giorno, cioè i mormoni, che hanno tra i loro dogmi fondamentali il diritto alla poligamia maschile, la possibilità di sposare più donne contemporaneamente. Oggi la destra inorridisce all’idea del matrimonio gay, ragliando che il passo successivo sarà la poligamia. Ma guarda caso esiste già, da più di un secolo, nello Utah e negli stati dell’Ovest, dove un numero di mormoni tradizionalisti stimato a 30.000 continua a praticare i vecchi insegnamenti della setta, anche se la chiesa “ufficiale” li ha abbandonati formalmente da molto tempo. Noi pensiamo che i mormoni abbiano diritto di essere lasciati in pace, di seguire la loro religione e vivere in privato come gli pare. La nostra posizione a favore del diritto dei gay al matrimonio, come quello dei mormoni di praticare la poligamia, deriva dalla nostra opposizione a qualsiasi interferenza del governo col diritto degli individui di seguire qualsiasi combinazione consensuale desiderino. Abbiamo evidenziato che i mormoni americani, donne incluse, scelgono in maniera essenzialmente libera la loro pratica, a differenza di quei paesi dove non vi sono state rivoluzioni borghesi e in cui le donne sono considerate poco più che una proprietà dei loro padroni patriarcali, in cui ci si deve opporre instancabilmente ai sistemi sociali poligamici. Come abbiamo scritto in: “Libertà per Tom Green! Mormoni poligami: lasciateli in pace!” (Workers Vanguard n.764, 14 settembre 2001), in difesa di un uomo condannato per bigamia:
“La struttura della famiglia, sia essa monogamica o poligamica, opprime necessariamente le donne. Ma non tutti riconoscono l’origine della propria oppressione, e le persone fanno un sacco di cose che sono senz’altro dannose per sé stesse, ma per le quali lo Stato non ha alcun diritto di sbatterle in galera. Come marxisti sappiamo che la famiglia svolge un ruolo sociale reale e che non può essere semplicemente ‘abolita’, neppure in uno stato operaio, ma deve essere sostituita da istituzioni sociali alternative”.
La liberazione delle donne, i diritti individuali e la lotta per il socialismo
Per dirla con le parole del giornalista radicale Alexander Cockburn “non c’è motivo di esultare quando Stato e Chiesa rafforzano la loro presa, che è quello che in fondo avviene col matrimonio” (“Sidestep on Freedom’s Path”, CounterPunch, 20/21 marzo). A questo proposito Cockburn cita anche l’attivista di Act Up Jim Eigo: “Come mai oggi le principali organizzazioni gay si battono per stabilire un accordo con la società etero che renderebbe alcuni omosessuali meno uguali degli altri?... Il matrimonio ha altrettanto valore nel tentativo di raggiungere l’uguaglianza di quanto ne abbiano avute la schiavitù o il diritto divino dei re. In questo momento della storia, non avrebbe più senso per noi cercare un modo per liberare gli eterosessuali dagli antiquati vincoli del matrimonio?”
Lo avrebbe senz’altro. Ed è il moderno movimento marxista che ha trovato il modo di spezzare questi legami, abolendo il sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione, e con esso la necessità stessa della struttura della famiglia borghese come strumento per la trasmissione della ricchezza privata. Come spiegava Leon Trotsky, che diresse con Lenin la rivoluzione russa del 1917, rispondendo ad una domanda della rivista Liberty (14 gennaio 1933) che gli chiedeva “il bolscevismo sta deliberatamente distruggendo la famiglia? ”
“Se per ‘famiglia’ s’intende un’unione obbligatoria basata sul contratto matrimoniale, sulla benedizione della Chiesa, sui diritti di proprietà, sul passaporto rilasciato solo al marito, il bolscevismo ha distrutto dalla radice questa famiglia poliziesca.
Se per ‘famiglia’ s’intende il dominio illimitato dei genitori sui figli e l’assenza di diritti legali della moglie, allora il bolscevismo non ha, purtroppo, ancora distrutto completamente questo residuo della barbarie della vecchia società.
Se per ‘famiglia’ si intende la monogamia ideale, non in senso legale ma in senso concreto, allora i bolscevichi non avrebbero potuto distruggere ciò che non esiste né è mai esistito sulla faccia della terra, con qualche fortunata eccezione”.
|
|
|
|
|