Spartaco n. 81 |
Aprile 2018 |
La lotta contro lidra sciovinista
Documento della Settima conferenza internazionale della Lega comunista internazionale (quartinternazionalista)
I. Introduzione
L’obiettivo di questa conferenza è dare alla Lega comunista internazionale un quadro leninista sulla questione nazionale e dissociarsi dallo sciovinismo da grande potenza che ha segnato alcuni aspetti della politica e del funzionamento dell’Internazionale. Una battaglia in Canada, iniziata nell’autunno del 2016, ha rivelato che, fin dalla sua fondazione, la sezione canadese aveva un programma di assimilazione anglosciovinista del Quebec. Questa lotta ha suscitato una forte opposizione in uno strato anglofono dei quadri storici del Comitato esecutivo internazionale che erano all’origine di questa linea sulla questione nazionale in Canada e altrove. Soprattutto a partire dalla caduta dell’Unione Sovietica, parte della direzione internazionale si è adattata all’imperialismo statunitense riproducendo l’atteggiamento dominante che questi mantiene nei confronti dei paesi neocoloniali sotto il suo tallone. Lo scopo di questa conferenza è quello di effettuare una fusione con i compagni del Quebec ed eleggere una nuova direzione internazionale che segnerà una netta rottura con la politica dello sciovinismo degli oppressori.
Subito dopo aver fondato la nostra tendenza, Jim Robertson e Geoff White cercarono delle estensioni internazionali. Ma nel 1974, sebbene fosse stata firmata la “Dichiarazione per l’organizzazione di una tendenza trotskista internazionale” (Spartacist edizione francese, n. 7, autunno 1974), alcuni quadri americani adottarono un orientamento sciovinista sulla questione nazionale. Questa perversione del leninismo fu facilitata ed esacerbata dalla preponderanza della sezione americana nell’Internazionale. Questa linea venne stabilita in opposizione al compagno Robertson che già nel 1976 aveva proposto di rivendicare l’indipendenza del Quebec, proposta respinta all’unanimità. La conferenza si impegna a riprendere la pratica rivoluzionaria leninista e a lottare per riforgiare la Quarta internazionale.
A causa dei profondi sconvolgimenti provocati da questa battaglia internazionale, la conferenza è a tutti gli effetti una conferenza d’urgenza, anche se formalmente è stata convocata come conferenza ordinaria. Il presente documento si concentra quindi sulle conclusioni chiave degli ultimi mesi piuttosto che sui grandi cambiamenti nella situazione politica globale, che sono caratterizzati dall’ascesa delle forze populiste di destra in diversi paesi, dall’elezione di Trump negli Stati Uniti, dall’aumento delle rivalità interimperialiste e dalla possibilità di grandi conflitti militari, specialmente con gli Stati operai deformati. Il problema principale per la nostra organizzazione è quello di riarmarci programmaticamente e forgiare una nuova direzione che sarà in grado di far fronte a questi nuovi sviluppi. In sostanza, ci troviamo di fronte alla questione centrale del movimento operaio: quella della direzione rivoluzionaria.
II. Per la costruzione di una direzione leninista internazionale
“Sulla base di una lunga esperienza storica, si può affermare come fosse una legge che i quadri rivoluzionari che si rivoltano contro il proprio ambiente sociale ed organizzano partiti per guidare la rivoluzione possono, nel caso in cui la rivoluzione ritardi troppo, degenerare essi stessi sotto l’influsso e la pressione continui di questo stesso ambiente. (...) Ma la stessa esperienza storica mostra anche che vi sono delle eccezioni a questa legge. Le eccezioni sono costituite dai marxisti che rimangono marxisti, dai rivoluzionari che rimangono fedeli alla bandiera. Le idee fondamentali del marxismo, sulle quali soltanto si può costruire un partito rivoluzionario, hanno una continuità nella loro applicazione e l’hanno avuta per un secolo. Le idee del marxismo, che creano partiti rivoluzionari, sono più forti dei partiti che esse creano e riescono sempre a sopravvivere al loro tramonto. Esse non cessano mai di trovare dei rappresentanti nelle vecchie organizzazioni pronti a guidare il lavoro di ricostruzione”. (James P. Cannon, I primi dieci anni del Partito comunista americano, 1962)
La conferenza si trova infatti di fronte al compito di ricostruire la Lci. Per rompere veramente con l’anglosciovinismo nel partito, dobbiamo tornare alla nostra continuità programmatica sulla questione nazionale e quindi alle posizioni sviluppate da Marx e Lenin. Attraverso questa battaglia, cerchiamo di riappropriarci del programma rivoluzionario, proletario e internazionalista della Terza internazionale all’epoca di Lenin, incarnato nei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista (Comintern, o Ic).
La costruzione di una vera e propria Internazionale, un compito che era già difficile dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, divenne una sfida ancora più difficile per l’avanguardia operaia dopo la degenerazione della Rivoluzione russa e dell’Ic. Trotsky, di fronte a una situazione oggettiva estremamente difficile dovuta all’esilio, alla mancanza di risorse materiali e all’assassinio dei quadri trotskisti, non riuscì mai a consolidare veramente un collettivo internazionale. Quando Trotsky morì, il Socialist Workers Party americano (Swp, guidato da James P. Cannon) era la sezione più adatta a guidare la Quarta internazionale. Invece di dimostrarsi all’altezza del compito prendendo le redini dell’Internazionale, i trotskisti americani si ritrassero in un isolamento cui non erano in realtà costretti. Nel 1974 il compagno Robertson fece notare:
“Quindi Cannon fece un passo indietro lasciando il compito a noi. Ci ha incastrato due volte perché lui era molto meglio di noi e quando dico ‘lui’, intendo non solo Cannon personalmente, ma il gruppo dei suoi più stretti collaboratori che formavano il ‘regime di Cannon’ ( )
Beh, c’era un regime di Cannon, e hanno fatto il meglio che potevano. Ma non hanno accettato la sfida internazionale, che invece è un obbligo. Cioè, se sapete di non sapere nulla, andate avanti pazientemente, lentamente, con perseveranza. Lottate con la massima pazienza e con la massima attenzione nei confronti dei collaboratori internazionali. Questo è il modo in cui dobbiamo procedere, non ritirarci e attendere nell’isolamento nazionale fino a quando qualcun altro non arrivi e dica: ‘Io posso farlo’ per poi dirgli: ‘Molto bene, ti conferiamo la nostra autorità.’ Dobbiamo perseverare, dobbiamo intervenire”. (“Meeting in omaggio a James P. Cannon”, Spartacist ed. inglese, n. 38-39, estate 1986)
Fin dall’inizio della nostra tendenza, i nostri fondatori hanno tratto lezioni critiche dal Swp e hanno cercato attivamente di uscire dal loro isolamento negli Stati Uniti. Comprendevano che una tale situazione avrebbe inevitabilmente causato delle deformazioni. Essere internazionalisti richiede un altissimo livello di consapevolezza: bisogna comprendere le pressioni associate alle proprie origini sociali e nazionali per combatterle. L’arretratezza della classe operaia americana e il potere dell’imperialismo esercitano forti pressioni sulla Sl/Us. Il compagno Robertson ha lottato duramente per sviluppare tra i compagni di lingua inglese la consapevolezza dell’importanza di imparare altre lingue e di uscire dal loro territorio nazionale. Per esempio ha cercato per molto tempo di spostare il nostro centro internazionale da New York a Parigi, ma non è mai riuscito a causa della mancanza di risorse della sezione francese. Nonostante tutti gli sforzi del compagno Robertson, parte della leadership americana ha sviluppato una linea sciovinista e antinternazionalista in opposizione alle lotte di liberazione nazionale negli Stati multinazionali. Questa linea ci ha causato danni incalcolabili, limitando enormemente le nostre possibilità di espansione internazionale, in particolare nelle nazioni oppresse non anglofone. C’è un netto contrasto tra il nostro approccio quando il compagno Robertson era attivamente coinvolto nel lavoro, come nelle isole britanniche e a Ceylon (Sri Lanka), dove fu adottata una posizione leninista, e quando era molto poco coinvolto, come in Canada e Spagna, dove la nostra linea era apertamente sciovinista.
La posizione trotskista nei confronti dell’Unione Sovietica è stata un punto di riferimento programmatico centrale per la nostra tendenza. La caduta dell’Urss ha segnato una svolta sia nel periodo storico che nella vita interna della nostra organizzazione. Questo evento si è svolto dopo anni di ritirata della classe operaia nei paesi occidentali, e questi sviluppi oggettivi hanno coinciso con la partenza dal centro del compagno Robertson, il principale architetto della nostra politica internazionalista. La combinazione di questi elementi ha provocato un profondo disorientamento in uno strato di quadri spingendoli a mettere in discussione i nostri obiettivi rivoluzionari. La perdita della bussola rivoluzionaria e proletaria ha portato i regimi successivi del partito a cercare scorciatoie in una serie di campagne opportunistiche. I regimi successivi fino al 2008 hanno tutti dimostrato di non essere in grado di fornire alla Lci un’autentica direzione leninista e internazionalista. Poiché l’opportunismo è sempre nazionale, questa traiettoria del partito ha decuplicato il nostro adattamento alle pressioni della società americana già espresse nella nostra linea sciovinista.
Durante questo periodo, la concezione leninista della costruzione del partito era quindi largamente subordinata all’opportunismo e all’adattamento all’imperialismo americano. Si è manifestata una certa resistenza all’integrazione di dirigenti non anglofoni in un vero e proprio collettivo di direzione a livello internazionale. Inoltre, c’era un’ostilità alla costruzione di sezioni nazionali forti. Le sezioni al di fuori degli Stati Uniti tendevano ad essere usate come satelliti del Segretariato internazionale per campagne opportunistiche come il “grande balzo in avanti” e la campagna per Mumia. Questo abbandono della costruzione di un partito d’avanguardia ha avuto un impatto sul modo di trattare i compagni più oppressi dalla società: generalmente non erano né visti né preparati ad essere leader quadri marxisti dell’Internazionale. Invece, sono stati educati ad essere dei “bravi” attivisti e a fare da fanteria per il lavoro “di base”. In questo modo i rapporti esistenti nella società borghese venivano riprodotti all’interno del partito e tendevano a rafforzare l’oppressione vissuta da questi compagni.
La pratica degli ultimi decenni è in netto contrasto col tentativo di fusione con il gruppo di Edmund Samarakkody (“Accordo di unificazione tra il Revolutionary Workers Party dello Sri Lanka [Rwp] e l’International Spartacist Tendency”, 20 giugno 1979):
“2. I quadri sperimentati del Rwp eletti al Cei dovranno partecipare in modo reale, completo, frequente e regolare alle riunioni del Cei;
3. Un idoneo quadro bilingue (cingalese/inglese) del Rwp deve risiedere nel centro internazionale e, se è un quadro esperto, dev’essere membro del Segretariato internazionale;
4. Un rappresentante internazionale, membro del Cei, deve far parte del Comitato centrale del Rwp; se non è membro del Cei, deve avere un ruolo consultivo nel Rwp;
5. Incoraggiamo i membri del Rwp a viaggiare e a partecipare alla vita e alle attività politiche di altre sezioni. Da parte loro, i membri di altre sezioni dovrebbero fare visite prolungate nello Sri Lanka”.
E’ su tale modello che questa conferenza si fonde con i compagni del Quebec.
Nonostante tutte le debolezze che la nostra organizzazione può avere avuto, di fronte al collasso delle burocrazie staliniste della Germania orientale e dell’Urss, abbiamo adempiuto al nostro dovere rivoluzionario. In quel momento cruciale della storia, la nostra tendenza ha combattuto strenuamente contro la restaurazione del capitalismo e per la rivoluzione politica. Inoltre, a partire dal periodo della glasnost e nel periodo post sovietico, abbiamo dato importanti contributi alla nostra continuità, come la pubblicazione di due libri di scritti di Cannon e degli opuscoli della Prometheus Research Series. Inoltre siamo stati in grado di estendere le conclusioni dei primi quattro congressi dell’Ic alla questione degli incarichi esecutivi nello Stato capitalista e dell’assemblea costituente [vedi Spartacist ed. inglese n. 61, primavera 2009 e n.63, inverno 2012-2013].
La direzione eletta a questa conferenza deve basarsi sui compagni che sono stati al centro di questa battaglia, in particolare i compagni di Messico, Grecia, Sudafrica e Quebec. Come parte dei cambiamenti da apportare al Cei, bisogna riorganizzare il Si, integrando i compagni del Messico e del Quebec. Con la crisi della sezione britannica, il nuovo Cei avrà il compito di ricostruire un centro in Europa incentrato sui dirigenti più coscienti. Un cambiamento necessario che deve essere fatto è quello di accordare lo status di membro consultivo del Cei ai compagni che sono i dirigenti storici della nostra tendenza, ma che non possono più essere così attivi nella direzione del partito. Il nuovo Cei avrà bisogno della loro esperienza, ma allo stesso tempo, come dimostra l’esempio dell’ammiraglio Rickover [obbligato ad andare in pensione all’età di 82 anni], è meglio non rischiare di far affondare il sottomarino.
Costruire un collettivo veramente internazionale richiede forti direzioni nazionali. Deve basarsi su una base politica comune e deve essere costruito attraverso la creazione di legami personali. Bisogna imparare a conoscere i propri collaboratori lavorando insieme. É stato per la prima volta con la battaglia in Canada che si è cominciato a forgiare un nuovo asse di collaborazione internazionale. In seguito questo si è ampliato man mano che la battaglia ha assunto una dimensione internazionale e si è cristallizzato con la stesura di questo documento di conferenza. Costruire un’internazionale presente in diversi paesi richiede notevoli risorse materiali. Come dimostra questa battaglia, i contributi finanziari di coloro che ci sostengono sono essenziali per l’esistenza della Lci. Un vantaggio della nostra tendenza rispetto alla situazione di Trotsky o di Cannon è che attualmente disponiamo di mezzi sufficienti a garantire una certa stabilità e ad espanderci a livello internazionale.
Il nostro partito si trova in un momento cruciale della sua storia. Una direzione guidata dalla compagna Coelho e motivata dal nostro programma, il reclutamento dei compagni a Montreal e il fatto che il compagno Robertson mantenga ancora la nostra continuità ci hanno permesso di condurre una lotta che scuote profondamente la nostra Internazionale. Questa battaglia ci dà la possibilità di riuscire dove il Swp è fallito e di rigenerarci come partito. Ci dà la possibilità di rompere decisamente con lo sciovinismo degli oppressori e di gettare le basi per un’organizzazione prevalentemente non anglofona e veramente internazionalista. Come scriveva il compagno Robertson in una nota al Cei nel novembre del 1995:
“L’INTERNAZIONALISMO É LETTERA MORTA SE...!
Pensandoci anche solo per un momento, è chiaro che la questione della capacità linguistica è un prerequisito per muoversi in tutto il mondo. Eppure questa considerazione viene spesso omessa dall’equazione. [ ]
Senza la capacità linguistica di costruire ponti tra i popoli del mondo, non solo siamo perduti, ma siamo nati morti.
Per un governo di saldatori e di bilingue!”
III. Il quadro teorico dello sciovinismo
Marx, Engels e Lenin distorti da Workers Vanguard
La razionalizzazione teorica del programma sciovinista sulla questione nazionale si è espressa in due articoli: “La questione nazionale nel movimento marxista 1848-1914” (Workers Vanguard n. 123 e 125, 3 e 17 settembre 1976) scritto dal compagno Seymour e “Lenin contro Luxemburg sulla questione nazionale” (Wv n. 150, 25 marzo 1977). Questi articoli sono serviti da riferimento sulla questione nazionale per diversi leader di partito fino allo scoppio di questa battaglia nell’Internazionale. La conferenza ripudia questi articoli per rimettere il partito su basi programmatiche leniniste: come paladino della lotta contro l’oppressione nazionale.
Come ha sottolineato il compagno Robertson: “Cosa dà forma alla teoria? Sono gli appetiti degli esseri umani a guidarne le azioni” (“Conversazioni con Wohlforth”, Marxist Bulletin n. 3, parte IV). Ha anche detto:
“Tu parli spesso di ‘teoria’ e di ‘metodo’, ma le tue definizioni sono deboli. Per utilizzare il metodo marxista, bisogna capirlo e non farvi solo riferimento: la ‘teoria’ in sé è una parola vuota. La teoria è una semplificazione della realtà sufficiente a permetterci di ficcarcela in testa e di acquisire una comprensione attiva, in quanto partecipi degli avvenimenti: vale a dire, cioè, ciò che abbiamo nella testa è a sua volta un fattore. Il programma genera la teoria. Ciò che è decisivo sono le questioni programmatiche”.
Infatti la presentazione originale, che fu poi pubblicata nell’articolo di Wv n. 123-125, fu fatta nell’agosto del 1976, poche settimane dopo la discussione sul controllo del traffico aereo in Canada, che gettò le basi per l’articolo razzista che si opponeva alla legittima lotta per i diritti linguistici in Quebec (vedi “La battaglia sul controllo aereo bilingue infiamma il Canada”, Wv n. 119, 23 luglio 1976 e Spartacist Canada (Sc) n. 8, settembre 1976). Come ha osservato il compagno Robertson in una “Lettera sul 1976” (30 novembre 2016):
“C’è un motivo per cui i compagni canadesi all’epoca scelsero lo sciopero dei controllori del traffico aereo per scrivere ciò che hanno scritto. C’era un’esplosione di lotte nazionali in Quebec e la Lt all’epoca scelse di scrivere sull’unico eccesso che si poteva trovare in questa esplosione politica. I compagni avrebbero dovuto rallegrarsi delle lotte, notando allo stesso tempo l’unica questione che esulava dallo scopo di un legittimo e lodevole movimento di liberazione politica”.
Gli appetiti che hanno plasmato il nostro intervento all’epoca rappresentavano una capitolazione alle pressioni anglo-nordamericane predominanti. Infatti, l’articolo di Wv n. 123-125 è una polemica contro la liberazione del Quebec dal giogo dell’oppressione anglofona, una prospettiva che si ritrova anche nel nostro approccio ad altre questioni nazionali (lo dimostra anche il fatto che l’articolo metta sullo stesso piano popoli oppressi e popoli oppressori in Libano). Il quadro teorico sviluppato da questi due articoli è molto lontano dall’esperienza della Rivoluzione russa, che dimostrò nella pratica che la questione nazionale può essere una forza motrice della lotta rivoluzionaria.
L’articolo di Wv n. 123-125 difende l’assurda tesi secondo cui “non esiste alcun programma marxista sulla questione nazionale in quanto tale”, rifiutando di fatto il programma marxista per la liberazione delle nazioni oppresse. L’articolo riesce in questo gioco di prestigio solo al prezzo di una grossolana distorsione delle posizioni politiche di Marx e Engels, in primo luogo sostenendo falsamente che “Marx e Engels elaborarono un programma che equivaleva al genocidio, se non fisico, almeno nazionale degli slavi occidentali e meridionali nell’interesse dei popoli democratici o progressisti”. Il modo in cui Marx e Engels affrontarono la questione degli slavi non si basava su pregiudizi razziali. Esso può essere compreso solo nel contesto della loro visione di una rivoluzione a livello europeo. Gli slavi meridionali svolsero un ruolo reazionario nello schiacciare le rivoluzioni del 1848-1849 come fanteria delle potenze reazionarie dell’epoca (Prussia, Impero russo e Impero austroungarico). Lenin difese la visione di Marx e Engels:
“E da allora [1849] sino alla morte di Marx, e persino più tardi, sino al 1890, quando la guerra reazionaria dello zarismo, alleato alla Francia, minacciava la Germania, non imperialista, ma indipendente dal punto di vista nazionale, Engels era anzitutto e soprattutto per la lotta contro lo zarismo. E’ per questo, e soltanto per questo, che Marx e Engels erano contro il movimento nazionale dei cechi e degli slavi meridionali. Basterebbe semplicemente che chiunque s’interessa di marxismo, ma non per ripudiarlo, consultasse ciò che scrivevano Marx e Engels nel 1848 e 1849 per convincersi che essi contrapponevano allora direttamente e decisamente ‘interi popoli reazionari’ i quali servivano ‘da avamposti russi in Europa’, ai ‘popoli rivoluzionari’: tedeschi, polacchi, magiari. E’ un fatto. E questo fatto fu allora incontestabilmente stabilito: nel 1848 i popoli rivoluzionari combatterono per la libertà, il cui nemico principale era lo zarismo, mentre i cechi, ecc., erano veramente dei popoli reazionari, avamposti dello zarismo”. (“Risultati della discussione sull’autodecisione”, luglio 1916)
L’articolo del compagno Seymour ignora l’evoluzione del pensiero di Marx e Engels sulle lotte di liberazione nazionale, pensiero che fu fortemente influenzato dalle lotte nazionali in India (la rivolta dei Sepoy nel 1857), in Irlanda (l’insurrezione feniana nel 1867) e altrove. L’esperienza aveva insegnato loro che, lungi dal dissiparsi con lo sviluppo del capitalismo, la questione nazionale stava diventando invece sempre più esplosiva e poteva quindi diventare una leva per la rivoluzione. L’articolo di Wv n. 123-125 trascura questi sviluppi per non uscire da un quadro di sciovinismo degli oppressori. Per esempio, la liberazione irlandese viene presentata esclusivamente come una forza trainante per la rivoluzione inglese. In realtà, Marx e Engels si batterono per l’indipendenza dell’Irlanda come scopo in sé ed ebbero stretti legami politici con i feniani. Marx scrisse a Engels (30 novembre 1867):
“Quello di cui gli irlandesi abbisognano è:
1. autogoverno e indipendenza dall’Inghilterra;
2. rivoluzione agraria. Gli inglesi, con la miglior buona volontà non possono farla per loro, ma possono dar loro i mezzi legali, perché la compiano da soli;
3. protezione doganale contro l’Inghilterra. Dal 1783 al 1801 l’industria irlandese fiorì in tutti i rami. L’unione, con l’abbattimento della protezione doganale, che era stata eretta dal parlamento irlandese, distrusse ogni vita industriale in Irlanda.”
Il deciso orientamento di Marx e Engels nei confronti delle lotte dei lavoratori irlandesi rifletteva la loro concezione dell’epoca secondo cui in Irlanda “il popolo è più rivoluzionario ed esasperato che in Inghilterra” (“Il Consiglio generale al Consiglio federale della Svizzera romanda”, 1 gennaio 1870). Lottarono vigorosamente per organizzare una sezione irlandese della Prima internazionale e difendere i feniani all’interno della classe operaia inglese.
Lenin spiegò che “allora” al tempo di Marx, nel periodo pre imperialista bisognava schierarsi, “anzitutto ‘contro lo zarismo’ (e contro certi movimenti delle piccole nazionalità, utilizzati da esso in una direzione antidemocratica), in favore dei popoli rivoluzionari delle grandi nazionalità dell’Occidente.” Lenin proseguì spiegando che invece, nell’epoca dell’imperialismo:
“Lo zarismo ha palesemente e indiscutibilmente cessato di essere il sostegno principale della reazione, in primo luogo, perché è sostenuto dal capitale finanziario internazionale, particolarmente dalla Francia; in secondo luogo, a causa del 1905. [...] Ora si è formato il sistema di un pugno (da cinque a sei) di ‘grandi’ potenze imperialiste, delle quali ognuna opprime altre nazioni [...] Ora, l’alleanza dell’imperialismo zarista con l’imperialismo capitalista progredito europeo, sulla base dell’oppressione generale da parte loro di una serie di nazioni, si trova di fronte al proletariato socialista, scisso in sciovinisti e ‘socialimperialisti’ da una parte, e in rivoluzionari dall’altra”. (“Risultati della discussione sull’autodecisione”)
Contrariamente a quanto affermato negli articoli di Wv, esiste infatti un programma marxista ben definito sulla questione nazionale, vale a dire il programma bolscevico elaborato da Lenin tra la fine del 1912 e il 1916:
“Completa parità di diritti delle nazioni; diritto delle nazioni all’autodecisione; fusione degli operai di tutte le nazioni: ecco il programma nazionale che il marxismo, l’esperienza di tutto il mondo e l’esperienza della Russia additano agli operai.” (“Sul diritto di autodecisione delle nazioni”, febbraio-maggio 1914).
Respingiamo l’affermazione contenuta in questi articoli secondo cui la questione nazionale “storicamente ha un carattere molto più congiunturale e determinato da circostanze empiriche mutevoli”. Quando il mondo cambia sostanzialmente, anche il programma marxista deve cambiare per confrontarsi con la realtà, il che non significa che sia un programma “congiunturale”, ma che è necessario considerare “il cambiamento concreto nell’applicazione di quegli stessi principi socialisti” (Lenin). Per quanto riguarda il programma sulla questione nazionale, Marx, Engels e Lenin condividevano lo stesso principio socialista di base: “un popolo che ne opprime altri non può essere libero”.
L’articolo di Wv n. 123-125 difende la tesi, corretta in sé, che non ci sono popoli “reazionari” e popoli “progressisti”, ma la usa per nascondere la differenza tra nazioni oppresse e nazioni che opprimono. Sia in questo articolo che in “Lenin contro Luxemburg sulla questione nazionale” (Wv n. 150), l’autorità di Marx, Engels e Lenin è falsamente utilizzata per difendere una posizione di indifferenza nei confronti della lotta per la liberazione nazionale:
“L’assenza prolungata di lotte rivoluzionarie proletarie nei paesi capitalisti avanzati e la continua egemonia dei partiti riformisti in questi paesi hanno portato a un ampio sostegno della sinistra al nazionalismo piccolo borghese. Gruppi come l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, il Mpla angolano, l’Esercito repubblicano irlandese e l’Eta basca sono percepiti da molti attivisti di sinistra, compresi presunti marxisti, come all’avanguardia delle forze rivoluzionarie del nostro tempo.”
“Nel contesto della lotta della Tendenza spartachista internazionale contro le diffuse deviazioni nazionaliste della sinistra contemporanea, abbiamo pubblicato lo scorso anno un articolo in due parti che analizza l’evoluzione della posizione marxista sulla questione nazionale, dal concetto di ‘nazioni progressiste’ del 1848 fino al principio leninista del ‘diritto all’autodeterminazione’.”
Se è giusto combattere l’opportunismo e il codismo della sinistra nei confronti delle forze nazionaliste piccolo borghesi, usarlo come alibi per denigrare le legittime aspirazioni di un popolo che vuole separarsi da una nazione che lo trattiene con la forza, ci pone sul lato sbagliato della linea che separa un’organizzazione rivoluzionaria da un’organizzazione socialsciovinista. Questi articoli non esprimono mai alcuna solidarietà con le lotte di liberazione nazionale, per non parlare del diritto delle nazioni oppresse a liberarsi dall’oppressione nazionale. Si trattava di un rifiuto totale dell’internazionalismo.
L’articolo di Wv n. 123-125 introduce una falsa dicotomia tra la “effettiva realizzazione” della separazione (in Marx) e la semplice “rivendicazione del diritto all’autodeterminazione” (in Lenin): “per Lenin, la questione di sapere se l’indipendenza sarebbe stata ottenuta o meno non era una questione fondamentale ma secondaria”. Questa falsa contrapposizione è servita da copertura alla nostra pura e semplice opposizione all’indipendenza del Quebec, negando in pratica il diritto all’autodeterminazione. Questo contraddice chiaramente gli scritti di Lenin sulla rivolta di Pasqua del 1916 a Dublino e sulla separazione della Norvegia nel 1905:
“Quest’esempio [della Norvegia] impone di fatto a tutti gli operai coscienti l’obbligo di svolgere una propaganda sistematica e di prepararsi metodicamente al fine di risolvere gli eventuali conflitti derivanti dalla separazione delle nazioni nell’unico modo in cui furono risolti nel 1905 fra la Norvegia e la Svezia, e non ‘alla russa’”. (“Sul diritto di autodecisione delle nazioni”)
Altro che indifferenza da parte di Lenin nei confronti dell’indipendenza.
Lenin combatté una battaglia contro i sostenitori dell’economismo imperialista, compresi i socialdemocratici polacchi, che sostenevano che “l’autodecisione è impossibile in regime capitalistico, superflua in regime socialista” (“Intorno a una caricatura del marxismo e all’‘economismo imperialistico’”, 1916). L’articolo di Wv n. 123-125 mina le polemiche di principio di Lenin contro Luxemburg affermando falsamente che, come Luxemburg, “Lenin si opponeva al federalismo a favore di una limitata autonomia regionale per le nazioni minoritarie in un unico Stato” (nostra sottolineatura). Inoltre, l’articolo sostiene l’assimilazione delle nazioni oppresse da parte delle nazioni oppressive sotto il capitalismo imperialista: “Pur difendendo l’uguaglianza delle lingue e gli altri diritti democratici associati, ci adoperiamo per l’assimilazione graduale e organica delle varie nazionalità che compongono la classe operaia”.
L’articolo “Lenin contro Luxemburg sulla questione nazionale” suggerisce che il diritto all’autodeterminazione non si applica dopo la rivoluzione proletaria: “Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, come qualsiasi altro diritto borghese democratico, può essere superato solo quando il dominio di classe del proletariato e della sua democrazia va oltre la democrazia borghese”. Questa non era la posizione di Lenin ma quella dei suoi avversari, come Bukharin e Piatakov, che sostenevano l'“autodeterminazione proletaria”. Questa posizione venne sconfitta nel dibattito del 1919 sul programma del partito russo, quando la questione fu posta concretamente sotto il potere sovietico. Il programma raccomandava non solo “la completa liberazione delle nazioni coloniali e di quelle che sono oppresse o non godono di pieni diritti, inclusa la concessione della libertà di separazione”, ma sottolineava anche che: “gli operai delle nazioni che durante il capitalismo ne opprimevano altre devono essere particolarmente cauti nei confronti del sentimento nazionale delle nazioni oppresse (...); essi devono non solo sostenere l’effettiva parità di diritti, ma anche promuovere lo sviluppo della lingua e della letteratura delle masse lavoratrici delle nazioni precedentemente oppresse, per eliminare ogni traccia di diffidenza e alienazione ereditate dall’epoca del capitalismo.” (“Progetto di programma del Partito comunista (bolscevico) russo”). Lenin ha combattuto la sua ultima battaglia contro la brutalità sciovinista granderussa di Stalin e Ordjonikidze nei confronti dei comunisti georgiani.
Lenin insisteva sul fatto che le divisioni nazionali scompariranno del tutto nel futuro comunista e solo allora:
“Trasformando il capitalismo in socialismo, il proletariato rende possibile la completa soppressione del giogo nazionale; ma questa possibilità diventerà realtà ‘soltanto’ ‘soltanto’! quando verrà pienamente instaurata la democrazia in tutti i campi, compresa la delimitazione delle frontiere dello Stato conformemente alle ‘simpatie’ della popolazione, compresa la completa libertà di separazione. Su questa base, a sua volta, si svilupperà praticamente l’assoluta eliminazione dei sia pur minimi attriti nazionali, della sia pur minima diffidenza nazionale, si avrà un rapido ravvicinamento e la fusione delle nazioni, che verrà coronata dall’estinzione dello Stato.” (“Risultati della discussione sull’autodecisione”)
Infine, l’articolo “Lenin contro Luxemburg sulla questione nazionale” afferma indebitamente che Luxemburg: “Respingeva il diritto all’autodeterminazione e qualsiasi altro principio generale.” Luxemburg e Lenin rivendicavano entrambi con forza che gli imperialisti abbandonassero le colonie mentre Lenin insisteva che il diritto all’autodeterminazione doveva valere anche per l’Europa. Lenin pose chiaramente la questione in una polemica con Rosa Luxemburg sulla questione nazionale: “E’ possibile, in questo problema, contrapporre le colonie all’‘Europa’?” La risposta di Lenin è un deciso “no” (“Risultati della discussione sull’autodecisione”). Fingere di non vedere l’insistenza di Lenin sulla necessità di combattere l’oppressione nazionale in Europa va di pari passo con le palesi manifestazioni di sciovinismo nella Lci. Questo è stato particolarmente chiaro quando si è trattato di applicare l’autodeterminazione a popoli bianchi oppressi in Paesi economicamente avanzati del Nord America e dell’Europa: Quebec, Catalogna, Paesi baschi.
Capitolazione alla nuova sinistra
Pur affermando di polemizzare contro la capitolazione della nuova sinistra al nazionalismo piccolo borghese, i due articoli del 1976 e del 1977 di Wv riecheggiano in realtà distorsioni e calunnie della nuova sinistra contro il marxismo. All’epoca era normale in questo ambiente dire che Marx e Engels fossero dei genocidi razzisti e sostenitori sciovinisti delle grandi potenze tedesca ed europee. Nella misura in cui il compagno Seymour ammetteva che Marx e Engels avessero un programma sulla questione nazionale, questo programma era “Deutschland über alles”:
“A partire dal 1848, Marx e Engels furono spesso accusati dai loro avversari di sinistra di essere sciovinisti tedeschi. Loro lo negarono, affermando che la loro posizione sull’unificazione della Germania era obiettiva e non rifletteva in alcun modo un pregiudizio soggettivo nazionalista. ( ) Tuttavia, solo nel 1870 essi ebbero la possibilità di dimostrare chiaramente che non erano sciovinisti tedeschi”. (Wv n. 123)
La posizione di Marx sull’emancipazione polacca è ridotta all’idea di creare “un cuscinetto democratico contro la Russia zarista”, mentre la Prussia era impegnata a ridisegnare i suoi confini sul fronte orientale. In realtà, Marx vedeva la riunificazione della Polonia come la forza trainante per ridisegnare le frontiere a spese degli Hohenzollern, degli Asburgo e dei Romanov. Come Marx e Engels dissero in una riunione per commemorare il dodicesimo anniversario della rivolta polacca del 1863-1864:
“La spartizione della Polonia è il cemento che tiene insieme i tre grandi despoti militari: Russia, Prussia e Austria. Solo la restaurazione della Polonia può spezzare questo legame e sbloccare così il più grande ostacolo all’emancipazione sociale dei popoli europei”. (“Per la Polonia”, 24 marzo 1875 [nostra traduzione])
Nel tentativo di presentare Marx e Engels come revanscisti tedeschi, l’articolo in due parti attribuisce loro una concezione oggettivista della rivoluzione del 1848. L’articolo cerca di ridurre la sconfitta della rivoluzione ad una semplice questione di “oggettiva arretratezza economica”:
“Come risultato della sconfitta della democrazia radicale nelle rivoluzioni del 1848, Marx modificò sostanzialmente il suo programma. Secondo lui, la sconfitta della democrazia radicale e dell’avanguardia proletaria era stata causata dall’oggettiva arretratezza economica, non solo in Germania e in Austria, ma anche in Francia. Così, il marxismo classico dopo il 1848 pose una forte enfasi programmatica sulla creazione di condizioni oggettive che consentissero la presa del potere da parte del proletariato.”
In realtà, Marx e Engels attribuirono alla borghesia e ai suoi alleati piccolo borghesi la responsabilità per la sconfitta della rivoluzione del 1848. Nel loro “Indirizzo del Comitato centrale alla Lega” (marzo 1850) scrissero:
“Già nel 1848 vi dicemmo, fratelli, che la borghesia liberale tedesca sarebbe giunta quanto prima al potere e avrebbe subito ritorto contro gli operai il potere appena conquistato. Avete veduto come ciò si sia compiuto. Furono infatti i borghesi, dopo il movimento del marzo 1848, a prendere subito possesso del potere dello Stato e a utilizzarlo per respingere senz’altro gli operai, loro alleati nella lotta, nella primitiva posizione di sottomissione”.
Marx e Engels insistettero sul fatto che gli operai dovevano mantenere i propri interessi di classe lottando per l’indipendenza di classe contro la borghesia e i suoi ausiliari piccolo borghesi:
“Sebbene gli operai tedeschi non possano giungere al potere e soddisfare i loro interessi di classe senza attraversare un lungo sviluppo rivoluzionario, essi hanno però questa volta almeno la coscienza che il primo atto dell’incombente dramma rivoluzionario coinciderà con la vittoria diretta della loro classe in Francia e perciò il processo sarà affrettato.
Ma essi stessi devono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a sé stessi i loro propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito, e non lasciando che frasi ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro grido di battaglia deve essere: la rivoluzione in permanenza!”
Le leggi linguistiche
Il nostro quadro programmatico sciovinista sulla questione nazionale era fondamentalmente un programma di assimilazione forzata delle nazioni oppresse. Si esprimeva tra l’altro nella difesa dei privilegi delle lingue dominanti e nell’opposizione alle leggi linguistiche in Quebec e in Catalogna. La conferenza riafferma che l’uguaglianza delle lingue richiede la lotta contro i privilegi della lingua dominante. Noi ci battiamo per l’indipendenza del Quebec. In mancanza di un Quebec indipendente, la nostra organizzazione avrebbe dovuto sostenere le leggi sulla lingua (come in Catalogna, dove la situazione è qualitativamente simile), perché sono misure che difendono l’esistenza stessa della nazione oppressa. Malgrado il loro carattere di compromesso nella lotta per l’indipendenza, avremmo dovuto sostenere questa espressione parziale di autodeterminazione a difesa della lingua francese in Quebec. La lotta contro i privilegi della lingua inglese in Quebec è in continuità con la lotta di Lenin per l’uguaglianza delle lingue:
“Programma nazionale della democrazia operaia è il seguente: assolutamente nessun privilegio né per una nazione né per una lingua; soluzione della questione dell’autodecisione politica delle nazioni, cioè della loro separazione statale, attraverso una via completamente libera e democratica; promulgazione di una legge per tutto lo Stato in virtù della quale qualsiasi provvedimento (dello zemstvo, della Duma cittadina, di una comunità, ecc. ecc.) che attui in qualsiasi campo un privilegio di una delle nazioni e che contravvenga alla parità dei diritti delle nazioni o ai diritti di una minoranza nazionale, venga dichiarato illegale, e qualsiasi cittadino dello Stato abbia il diritto di esigere l’abolizione di un tale provvedimento come anticostituzionale e la condanna di coloro che si accingessero a metterlo in atto”. (“Liberali e Democratici sulla questione delle lingue”, settembre 1913)
Dopo la conquista [del 1759], l’inglese è stato imposto in Quebec allo scopo deliberato di assimilare questa nazione. La legge 101 fa del francese (formalmente) l’unica lingua ufficiale del governo, dei servizi e delle grandi imprese; stabilisce che tutti i bambini devono utilizzare il francese a scuola tranne gli anglofoni del Quebec e tutti gli anglofoni delle altre province canadesi. In realtà, i privilegi degli anglofoni non sono stati toccati: molti ospedali e l’università d’élite McGill sono ancora anglofoni, la lingua “del business” rimane l’inglese, molti negozi e servizi servono i clienti in inglese. Insomma, è possibile vivere tutta la vita... in English! Nonostante la legge 101, l’inglese continua ad essere la lingua del dominio e dell’oppressione in Quebec.
Negli anni Sessanta e Settanta, la divisione del sistema scolastico del Quebec tra le scuole di lingua inglese e francese portò a legittime battaglie in difesa del francese. Dato che il francese veniva considerato di poco valore, gli immigrati preferivano che i loro figli fossero istruiti nella lingua inglese dominante, che dava loro maggiori possibilità di avanzamento sociale. A quel tempo, la lingua dell’istruzione era la questione più controversa, perché i francofoni capivano che sarebbero diventati una minoranza nella loro provincia se gli immigrati non si fossero integrati nella società francofona. In Quebec, difendere un sistema educativo che dia agli immigrati la “libertà di scelta” di educare i propri figli in inglese o in francese è infatti una difesa della lingua privilegiata: l’inglese.
L’élite anglocanadese perseguiva una politica consapevole di sommergere i francofoni in una marea anglofona facendo affluire immigrati non francofoni in Quebec. Come per l’appello alla “apertura delle frontiere”, ci opponiamo a questa politica reazionaria contraria al diritto all’autodeterminazione. Noi siamo favorevoli all’integrazione degli immigrati in Quebec tramite l’apprendimento del francese. Chiediamo programmi bilingue gratuiti e di qualità come metodo razionale per aiutare gli studenti immigrati a passare dalla lingua madre al francese, come facciamo per l’inglese negli Stati Uniti. In genere, gli immigrati che lasciano il loro paese per stabilirsi permanentemente in un paese più avanzato, accettano il fatto di essere assimilati in quella società, se glielo permettono. La natura di queste popolazioni non è la stessa di una nazione oppressa in uno Stato multinazionale perché gli immigrati non costituiscono una nazione. Le nazioni oppresse che desiderano esistere come nazioni separate lottano contro l’assimilazione. E’ in questo contesto che si applica il programma leninista per l’uguaglianza linguistica.
Quando la borghesia canadese impone il bilinguismo, non è per “salvare” il francese e difendere l’uguaglianza delle lingue (come è stato presentato in Spartacist Canada) ma per imporre l’inglese ai francofoni. Con questa politica, i francofoni sono tenuti a parlare inglese, mentre per gli anglofoni il bilinguismo si limita ai “vasetti di cetrioli”. Siamo contrari al bilinguismo “ufficiale” in Quebec, che rappresenta una politica di assimilazione forzata della nazione del Quebec. Per ragioni analoghe, Lenin si oppose all’obbligo imposto alle minoranze nazionali di imparare il russo. Abbasso il “multiculturalismo” alla Trudeau!
Per giustificare la propria opposizione alla Legge 101, Spartacist Canada (Sc) deformava Lenin facendone un fautore del bilinguismo alla Trudeau, cioè un difensore dell’oppressione nazionale e linguistica. Ecco una delle citazioni chiave di Lenin usate da Sc per condannare questa legislazione difensiva:
“Ecco perché i marxisti russi dicono che non deve esistere una lingua di Stato obbligatoria, mentre si devono assicurare alla popolazione scuole dove l’insegnamento venga impartito in tutte le lingue locali e si deve introdurre nella Costituzione una legge fondamentale, che dichiari decaduto qualsiasi privilegio di una nazione sulle altre e condanni qualsiasi violazione dei diritti delle minoranze nazionali...” (“É necessaria una lingua di Stato obbligatoria?”, gennaio 1914)
In questo passaggio, Lenin ribadisce la sua opposizione all’imposizione di una lingua ufficiale: il russo, la lingua degli oppressori. Questo aspetto è spiegato molto chiaramente nel passaggio seguente:
“Che vuole dire lingua di Stato obbligatoria? Vuol dire praticamente che la lingua dei grandirussi, i quali costituiscono la minoranza della popolazione di Russia, viene imposta a tutta la restante popolazione del paese. In ogni scuola l’insegnamento della lingua di Stato deve essere obbligatorio. In tutti gli atti pubblici si deve usare obbligatoriamente la lingua di Stato e non la lingua della popolazione locale.”
Sc rovescia la realtà. Il russo nell’impero zarista è paragonato al francese a Montréal: la lingua degli oppressi diventa la lingua degli oppressori!
Sostenendo di opporsi in generale alla “forza” dello Stato, il nostro programma difendeva in realtà l’oppressione linguistica della lingua québécois da parte dello Stato canadese. Spartacist Canada n. 2 (novembre-dicembre 1975) afferma che:
“Lenin aggiunge una sola condizione: che tale assimilazione delle nazioni non sia ‘assimilazione con la forza o assimilazione basata sul privilegio’.
Questo principio si applica a tutti gli ambiti della vita sociale. L’uguaglianza dell’inglese e del francese dev’essere riconosciuta sul lavoro e nella scuola, con disposizioni a favore degli immigrati che non parlano né l’inglese né il francese. Bisogna lottare per ottenere questo obiettivo sotto il capitalismo e realizzarlo infine sotto un governo operaio”.
Insomma, nel 1975 Sc pretendeva che i lavoratori del Quebec lottassero per l’inglese dei loro padroni, gli stessi che gli urlavano in faccia: “Speak white!” [Parlate come i bianchi] ma che non saltasse loro in mente di lottare per difendere la propria esistenza per mezzo della Legge 101. Per Sc, il “problema” era che i québécois usavano la “forza” della Legge 101 per impedire agli inglesi di esercitare il loro “diritto” di opprimerli. Lenin, da parte sua, appoggiava l’uso della forza da parte degli oppressi per difendere la propria esistenza:
“Per guerra ‘difensiva’ i socialisti hanno sempre inteso una guerra ‘giusta’ in questo senso (una volta W. Liebknecht si espresse appunto così). Soltanto in questo senso i socialisti hanno riconosciuto e riconoscono oggi la legittimità, il carattere progressivo e giusto della ‘difesa della patria’ o della guerra ‘difensiva’. Per esempio, se domani il Marocco dichiarasse guerra alla Francia, l’India all’Inghilterra, la Persia o la Cina alla Russia, ecc., queste sarebbero delle guerre ‘giuste’, delle guerre ‘difensive’, indipendentemente da chi avesse attaccato per primo, ed ogni socialista simpatizzerebbe per la vittoria degli Stati oppressi, soggetti e privi di diritti, contro le ‘grandi’ potenze schiaviste che opprimono e depredano”. (“Il Socialismo e la guerra”, luglioagosto 1915)
IV. La battaglia in Canada
La conferenza internazionale approva le conclusioni programmatiche della storica conferenza della Lega trotskista di novembre e del plenum del Comitato centrale (Cc) del dicembre del 2016. Queste battaglie hanno segnato una rottura con la politica anglosciovinista che caratterizzava la sezione e hanno posto le basi per un approccio autenticamente leninista alla questione nazionale in Quebec. Dal 1975 al 1995, la sezione ha avuto un programma di assimilazionismo anglosciovinista. La conferenza ripudia tutti gli articoli precedenti al 1995 sul Quebec, che difendono apertamente l’oppressione del Quebec da parte del Canada. Anche quando le lotte contro l’oppressione nazionale alimentavano la lotta di classe, noi polemizzavamo con i nostri oppositori contro gli slogan che rivendicavano un Quebec indipendente sotto il socialismo, considerandoli reazionari e utopici e una capitolazione al nazionalismo. Siamo favorevoli all’indipendenza, sia nel capitalismo che in uno Stato operaio. La nostra prospettiva è quella di scatenare il potenziale rivoluzionario della lotta di liberazione nazionale del Quebec. Per una repubblica operaia del Quebec!
I compagni di Montréal si sono giustamente opposti all’articolo del 1976 sui controllori del traffico aereo. Come indicato nel loro documento del 24 ottobre 2016:
“Questo articolo è stato scritto per i lavoratori canadesi di lingua inglese e nutre l’anglosciovinismo piuttosto che combatterlo. L’intero quadro dell’articolo capitola alle tendenze anti Quebec del movimento operaio e si prende gioco della giusta lotta del popolo québécois per il diritto di lavorare in francese”.
Tuttavia, questa corretta opposizione all’articolo deve essere separata dalla questione della lingua utilizzata per il controllo del traffico aereo. Sulla base di considerazioni di sicurezza aerea, gli scioperi della Calpa [Associazione dei piloti delle linee aeree canadesi] e della Catca [Associazione di controllo del traffico aereo canadese] erano difendibili. Per noi come avanguardia, il punto essenziale è che esista un solo linguaggio aereo. La lingua più appropriata per il controllo del traffico aereo sarebbe lo spagnolo (messicano). La sua pronuncia e grammatica sono coerenti. Si scrive nello stesso modo in cui si pronuncia, cosa che lo rende relativamente facile da imparare. Inoltre, lo spagnolo è utilizzato in tutte le Americhe e in Spagna, il che gli conferisce un’importante diffusione geografica. In breve, è una lingua internazionale.
L’unica posizione marxista coerente era quella di sostenere l’indipendenza del Quebec dal momento in cui è stato oppresso da un’altra nazione, cioè a partire dalla sua conquista nel 1759. A partire dal 1995, la rivendicazione dell’indipendenza del Quebec ha segnato un miglioramento qualitativo del nostro programma sulla questione nazionale. Questo cambiamento di linea, tuttavia, aveva un carattere centrista poiché è rimasto nel quadro dell’anglosciovinismo. La battaglia in Canada ha fatto luce su questo aspetto cruciale.
Questa conferenza respinge gli slogan sulla “rivoluzione socialista nordamericana” e sulla “rivoluzione socialista dallo Yukon allo Yucatán”. Queste parole d’ordine cancellano le distinzioni nazionali tra Quebec, Nord America anglofono e Messico. Nella nostra stampa, questi slogan sono stati costantemente utilizzati in un quadro assimilazionista, presentando l’integrazione del Quebec nel resto dell’America come l’unico modo per garantirne l’emancipazione nazionale.
Anche dopo aver cambiato formalmente linea nel 1995, la Lt ha continuato a capitolare alle pressioni della società borghese canadese, al “trudeauismo” e alla sua ideologia “multiculturalista” e a minimizzare l’importanza strategica della questione nazionale. Ad esempio, il nostro unico compagno del Quebec è stato emarginato e sospettato di nazionalismo. Il lavoro a Montréal non era una priorità per la sezione ed è stato a lungo incentrato su campus universitari di lingua inglese. Finora non è mai stata seriamente intrapresa la produzione di propaganda in francese che consenta di intervenire efficacemente nella società del Quebec e nella sezione non c’è stata alcuna prospettiva di imparare il francese. Infine, gli ex dirigenti della sezione si sono opposti alla difesa dei québécois presi specialmente di mira durante la repressione delle manifestazioni contro il vertice del G20 del 2010.
Nonostante la sua capitolazione all’anglosciovinismo, nel 2014 il partito ha potuto reclutare un gruppo di quadri del Quebec. Invece di considerare questo reclutamento come una fusione cruciale per la Lt, vale a dire una fusione con un nucleo che avrebbe permesso di fondare un partito rivoluzionario binazionale e in prospettiva di avere due partiti in due Stati, questi compagni sono stati trattati come un gruppo giovanile e come il “terzo locale” del Canada inglese. I compagni di Montréal sono stati soffocati da dettagli amministrativi stupidi e da un attivismo sterile, invece di usare le loro chiare capacità politiche. Data l’oppressione storica della nazione québécois in Canada, la Lt deve aspirare ad essere composta per il 70 percento da québécois e da membri di altre minoranze. In effetti, i compagni del Quebec sono chiaramente stati tra gli elementi più consapevoli in questa battaglia politica e hanno costituito l’essenza della nuova direzione della sezione canadese. [...]
VI. Segretariato internazionale
Dalla caduta dell’Urss, la politica e il funzionamento del Si sono stati distorti da un adattamento all’imperialismo americano. Il compagno Robertson una volta ha paragonato questo comportamento allo “stato maggiore della rivoluzione mondiale” di Zinoviev. Se si trattava di una concezione arrogante e pretenziosa già quando fu fatta propria da Zinoviev, alla fine della Rivoluzione russa, nel contesto della nostra Internazionale, era un’espressione esplicita di eccezionalismo angloamericano. Gli emissari del Si inviati in Messico, Grecia, Quebec e Sudafrica, in genere hanno agito in modo paternalista, come se avessero una missione “civilizzatrice”. L’atteggiamento superbo di questi compagni non derivava essenzialmente da loro debolezze personali, ma da un adattamento politico all’arroganza imperialista. In molte campagne politiche opportuniste, il Si ha sostituito il lavoro bolscevico consapevole con l’ipertrofia amministrativa. Come hanno sottolineato i compagni della nostra sezione greca (marzo 2017): “Questo evidenzia una percezione politica completamente falsa: come se ‘le regole definissero il programma’, mentre dovrebbe essere ‘il programma a definire le regole’”. I quadri provenienti dalle nazioni oppresse reclutati all’internazionalismo tendevano a interiorizzare la propria oppressione e ad accettare questo contesto, per non essere etichettati come nazionalisti. La nostra continuità rivoluzionaria passa attraverso Lenin, Trotsky, Cannon e Robertson, e quindi attraverso gli Stati Uniti, una realtà che ha conferito un’autorità a volte illegittima e immeritata ai compagni angloamericani. Questa conferenza ripudia questa politica antinternazionalista. Un’internazionale trotskista degna di questo nome non può avere simili basi. Questi abusi non saranno più tollerati.
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VIII. La Ligue trotskyste de France e la difesa sciovinista dell’Esagono
Il programma sciovinista made in Usa sulla questione nazionale ha trovato terreno fertile nella nostra sezione francese. Nella sua propaganda, la Ligue trotskyste de France (Ltf) ha riecheggiato la menzogna della Francia una e indivisibile, scrivendo numerosi articoli che presentavano come reazionarie le lotte di liberazione nazionale e difendevano l’integrità dell’Esagono [in riferimento alla forma della Francia]. Prima del 1998, la posizione della Ltf consisteva nel negare l’esistenza di nazioni oppresse in Francia, sulla base del mito secondo cui la Rivoluzione francese avrebbe risolto la questione nazionale. La Ltf scriveva ad esempio: “In Francia la Grande rivoluzione consolidò il dominio della borghesia sulle antiche province feudali, sotto la bandiera giacobina della nazione, una e indivisibile” (“Raid stile gestapo nel Paese Basco”, Le Bolchévik n. 78, novembre-dicembre 1987).
Nel 1997, sotto l’impulso dei compagni di New York e della Gran Bretagna (paesi da cui era più facile condannare lo sciovinismo francese), la Ltf ha parzialmente corretto questa linea riguardo al Paese Basco. Ma, lungi dal diventare un difensore delle minoranze nazionali in Francia, la sezione non si è mai realmente distaccata dal quadro dello sciovinismo francese. Le questioni nazionali sono state trattate con indifferenza, il che celava essenzialmente un’ostilità a cambiare i confini della Francia. Dopo il 1998, la Ltf ha continuato a pubblicare articoli apertamente contrari all’indipendenza della Corsica, del Paese Basco e della Guadalupa. Allo stesso tempo, ha presentato il destino di queste nazioni come strettamente dipendente dal proletariato francese, negando la possibilità che la lotta contro l’oppressione nazionale possa fungere da forza trainante per rivoluzioni locali.
La Ltf considerava le questioni nazionali basca e catalana essenzialmente come questioni spagnole. In realtà, le questioni nazionali basca e catalana sono le sue questioni nazionali. Invece di aiutare l’Internazionale a promuovere un programma leninista su tali questioni, la Ltf ha continuamente frenato quest’opera. Durante la battaglia, la direzione francese ha esaminato i problemi in modo precipitoso e superficiale, invece di intraprendere uno studio marxista serio delle proprie questioni nazionali. Questo processo non ha fatto che introdurre ulteriori deviazioni e confusione nella discussione. Un segno della ristrettezza nazionale della sezione è il suo isolamento dal resto dell’Internazionale. Ad eccezione del dirigente principale della sezione, i compagni francesi hanno pochissimi contatti diretti con il resto della Lci. La direzione della sezione francese deve incoraggiare consapevolmente i suoi membri a uscire regolarmente dalla Francia.
Il Paese Basco e la Catalogna
Esistono un’unica nazione basca e una sola nazione catalana, divise e oppresse da due Stati capitalisti. Le differenze nel modo in cui si esprimono i sentimenti nazionalisti tra le province settentrionali e meridionali del Paese Basco e della Catalogna riflettono le differenze nello sviluppo del capitalismo in Spagna e in Francia.
In Spagna, catalani e repubblicani baschi svolsero un ruolo d’avanguardia nella rivoluzione spagnola degli anni Trenta. Dopo la sconfitta della rivoluzione, le decine di migliaia di profughi che si riversarono in Francia rinvigorirono queste nazioni sul lato francese. Sotto Franco, tutte le lingue diverse dal castigliano vennero vietate, in ossequio allo slogan franchista: “una nazione, grande e libera”. Gli Statuti d’autonomia istituiti dalla Repubblica nel 1932 vennero aboliti. Il regime di Franco esercitò una repressione feroce e vendicativa contro le nazioni oppresse, simboleggiata dal bombardamento nel 1937 della città basca di Gernika (Guernica) da parte dei nazisti, su richiesta di Franco. La conseguenza della repressione fu che, alla morte di Franco nel 1975, le lotte delle nazioni oppresse si manifestarono in gran parte sul piano nazionale, contrariamente agli anni Trenta, quando la classe operaia di queste stesse nazioni si era battuta direttamente per il potere.
La Costituzione spagnola del 1978 mantenne la monarchia borbonica in Spagna, restaurata per grazia e favore del generalissimo Francisco Franco. Il ristabilimento della monarchia fu essenziale per stabilizzare lo Stato centrale castigliano e mantenere con la forza le nazioni oppresse all’interno della Spagna. Al fine di stabilizzare lo Stato spagnolo, la Catalogna, il Paese Basco e altre regioni ottennero una maggiore autonomia. Al contrario, nella “gloriosa” Francia repubblicana (“il paese dei diritti dell’uomo”), le nazioni oppresse non hanno ancora nessun diritto linguistico o legale. Soprattutto nel Paese Basco, la popolazione si trova ad affrontare una repressione altrettanto feroce che in Spagna. La sorgente principale dei movimenti indipendentisti in Catalogna e nel Paese Basco sono le regioni che sono state assoggettate alla Spagna: per la storica debolezza della borghesia castigliana rispetto a quella catalana o basca e a causa della sconfitta della Rivoluzione spagnola e della successiva instaurazione della dittatura di Franco. Perciò il destino delle province soggette alla Francia dipende fortemente da ciò che accadrà sul versante spagnolo. Noi rivendichiamo l’indipendenza del Paese Basco e della Catalogna a Nord e a Sud del confine. In caso di indipendenza delle regioni spagnole del Paese Basco o della Catalogna, è probabile che anche le rispettive regioni francesi vorranno unirsi ad esse. Se vogliono rimanere in Francia, difendiamo il loro diritto a esercitare in questo modo la loro autodeterminazione.
Jan Norden, all’epoca caporedattore di Workers Vanguard, fu il principale responsabile della nostra linea di opposizione alle lotte di liberazione nazionale in Catalogna e nel Paese Basco sul versante spagnolo. La Ltf, da parte sua, è stata la responsabile principale della nostra linea sciovinista nel Paese Basco e nella Catalogna francesi. Negli anni immediatamente precedenti e successivi alla morte di Franco, la Spagna fu scossa da grandi lotte operaie che radicalizzarono la società. La lotta contro l’oppressione nazionale svolgeva un ruolo centrale in queste mobilitazioni, ma Wv, che commentava regolarmente gli eventi, la ignorò completamente. Un silenzio che non poteva che essere consapevole e che dimostrava ostilità al destino delle nazioni oppresse dallo Stato spagnolo. La questione fu menzionata per la prima volta nel 1979, per lanciare un’ignobile polemica in difesa dell’oppressione della Catalogna.
La conferenza ripudia l’articolo “La Lcr spagnola rende omaggio al nazionalismo borghese catalano” (Wv n. 233, 8 giugno 1979). Questo articolo costituiva una crassa capitolazione allo sciovinismo castigliano e francese e prostituiva il leninismo sulla questione nazionale. Nell’articolo citavamo la polemica di Lenin contro l’autonomia “culturale nazionale” usandone scandalosamente le argomentazioni per opporci non solo all’indipendenza, cioè alla secessione, ma anche all’autonomia:
“I leninisti hanno affermato che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione è una cosa completamente diversa dall’esercizio di tale diritto, cioè l’indipendenza. La Spagna è chiaramente un caso in cui i comunisti lotterebbero strenuamente per preservare l’unità della classe operaia nello Stato esistente”.
Questo articolo grottesco è una dichiarazione di fedeltà alla difesa dell’unità spagnola. Wv fece da portaborracce per la borghesia e per la monarchia nella lotta contro la liberazione nazionale di catalani e baschi. Inoltre, l’articolo sosteneva che:
“Le regioni basca e catalana, pur subendo delle discriminazioni (interdizioni linguistiche, servizi governativi, repressione) da parte dello Stato franchista, sono le più sviluppate del paese e costituiscono il cuore dell’industria spagnola. In caso di separazione, i due settori più importanti, meglio organizzati e più combattivi del proletariato verrebbero separati dal resto del movimento operaio spagnolo, il che lo indebolirebbe e rappresenterebbe una notevole sconfitta per la rivoluzione proletaria europea.”
L’indipendenza della Catalogna e del Paese Basco sarebbe stata al contrario un passo in avanti per il movimento dei lavoratori in Europa. Lo sarebbe a maggior ragione oggi, dato che la frammentazione della Spagna destabilizzerebbe profondamente il blocco imperialista reazionario dell’Unione Europea.
Il problema del modo in cui la Ltf ha trattato le questioni basca e catalana è ben riassunto dalle parole di un nazionalista basco: “Non esiste un problema basco in Francia, ma un problema francese nel Paese Basco (...). La lotta del Paese Basco continuerà finché esisteranno i baschi” (James E. Jacob, Hills of Conflict: Basque Nationalism in France, 1994). Nel 1987, mentre lo Stato francese scatenava una feroce repressione contro i baschi, la Ltf pubblicò un articolo che prendeva di mira soprattutto le loro rivendicazioni nazionali. Scrivevamo: “Infatti, benché non esista una questione nazionale nel Paese Basco francese, l’assedio militare di Pasqua-Pandraud [ministri degli interni] potrebbe senz’altro crearla!” (“Raid stile gestapo nel Paese Basco”). L’articolo proseguiva polemizzando contro la rivendicazione di una “Euskadi unita e socialista” e affermando che “l’autodeterminazione è fuori discussione per la regione basca”. L’assimilazione forzata dei baschi in Francia veniva presentata come una conquista della Rivoluzione francese.
Questi problemi furono risolti in modo molto parziale nel 1998, quando la Ltf riconobbe il diritto all’autodeterminazione dei baschi in Francia. L’Internazionale e la Ltf ripudiarono la linea politica precedente, ma in modo disonesto, nascondendo la portata dello sciovinismo presente nell’articolo del 1987. Inoltre non abbiamo mai rimesso in discussione la nostra opposizione all’indipendenza del Paese Basco o di qualsiasi altra nazione oppressa nel territorio francese.
Quando la questione è venuta alla ribalta nel 2014, la Ltf ha deciso di non prendere posizione a favore dell’indipendenza della Catalogna. Quando è scoppiata la recente battaglia nell’Internazionale, la Ltf non ha riconsiderato il suo approccio, ma si è affrettata a produrre un progetto di articolo la cui linea assomigliava a quella precedente al 1998. In una lettera alla Ltf, il compagno Sacramento ha detto:
“Il vostro progetto di articolo mette sullo stesso piano il nazionalismo degli oppressi e quello degli oppressori, distorcendo Lenin in modo da fargli salomonicamente condannare il ‘nazionalismo borghese aggressivo’. Continuate ad insistere sul sostegno all’indipendenza dei baschi e dei catalani ‘in Spagna’, ma nel paragrafo successivo vi limitate a ricordare che a Nord del confine difendiamo ‘il loro diritto di aderire ad un Paese Basco indipendente’. In questa formulazione, non menzionate esplicitamente il diritto di separarsi dalla Francia, indipendentemente da ciò che decideranno i loro connazionali a Sud del confine. Infine, come sempre, riuscite a ignorare i catalani in Francia”.
Nel 2014 il Cei, contro le obiezioni iniziali della Ltf, ha adottato la linea a favore dell’indipendenza del Paese Basco e della Catalogna. Questo cambiamento è stato un miglioramento qualitativo del nostro programma. Tuttavia, è stato fatto senza rompere completamente con le debolezze della nostra metodologia precedente: le aspirazioni degli oppressi alla liberazione nazionale continuavano ad esser viste come un ostacolo alla lotta di classe, un ostacolo che doveva essere “tolto dall’ordine del giorno”. Siamo a favore dell’indipendenza, qui e ora, e lottiamo consapevolmente per dirigere la lotta per la liberazione nazionale verso la rivoluzione socialista. Il nostro programma è per delle repubbliche operaie in Catalogna e nel Paese Basco.
Finora, il motivo principale per cui eravamo favorevoli all’indipendenza del Paese Basco e della Catalogna era perché essa avrebbe permesso l’unità con la classe operaia castigliana. Per la Catalogna, la rivendicazione dell’indipendenza si basava su di una valutazione empirica e congiunturale dopo il referendum del 2014. Per secoli, baschi e catalani hanno resistito all’assimilazione, esprimendo il desiderio di esistere come nazione. Un altro punto debole dei nostri recenti articoli è che non chiedevano esplicitamente l’abolizione della monarchia. La lotta per l’indipendenza significa anche porre fine a questa escrescenza franchista: abbasso la monarchia!
Corsica
La Corsica ha resistito all’assimilazione francese per oltre duecento anni. Nel marzo del 2017, la Ltf si è espressa a favore dell’indipendenza della Corsica. Detto questo, il modo in cui la sezione ha trattato questo tema prima del 2017 era pieno di pregiudizi sciovinisti. Ad esempio, in un articolo recentemente ripudiato dalla Ltf si leggeva:
“Inoltre, la Corsica sottosviluppata è soggetta al regime retrogrado dei clan, veri e propri parassiti che vivono sulla malversazione quasi istituzionalizzata delle prebende dello Stato centrale e che si mantengono con un clientelismo che ricorda la Sicilia. Tutti sanno dove va a finire il famoso ‘sostegno per la continuità territoriale’: a ingrassare i clan che, mascherati da radicali di sinistra, Rpr ed altri ‘bonapartisti’, mantengono l’isola in una condizione di proficua arretratezza con l’aiuto dello Stato”. (“Corsica: lo sciopero sfida il governo”, Le Bolchévik, n. 92, aprile 1989)
Quest’affermazione ripete ogni pregiudizio arretrato anti corso che circola in Francia e disprezza le legittime aspirazioni nazionali del popolo corso. Inoltre, l’articolo dice: “Se non esiste una ‘nazione corsa’, esiste comunque un problema nazionale corso”, praticamente un plagio parola per parola della borghesia: “Non c’è un problema corso, ci sono problemi in Corsica” (Valéry Giscard d’Estaing).
Più di recente, nell’articolo “Yvan Colonna, vittima innocente di una cospirazione poliziesca. Rilascio immediato!” (Lb n. 197, settembre 2011), la Ltf ha adottato una posizione di fatto contraria all’indipendenza della Corsica, dicendo:
“Siamo contrari alla visione e al programma nazionalisti, che fondamentalmente ambiscono a consolidare un regime capitalista in un quadro nazionale. Agli occhi dei piccolo borghesi nazionalisti, l’intera nazione dominante è nemica. Una prospettiva che porta sempre ad atti di violenza indiscriminata contro i lavoratori della nazione dominante”.
Non solo quest’affermazione è una difesa sciovinista dell’unità della Francia, ma è completamente falsa. I compagni della Ltf devono studiare seriamente la questione nazionale in Corsica.
IX. Belgio
Il nostro punto di partenza per il Belgio dev’essere l’opposizione all’unità artificiale del paese. In realtà, fiamminghi e valloni non hanno mai accettato volontariamente l’unione delle loro nazioni nello stesso Stato. L’attuale struttura federale ostacola la completa autodeterminazione sia dei fiamminghi che dei valloni, prigionieri di un quadro oppressivo. La borghesia sfrutta sistematicamente le tensioni nazionali nel suo interesse e per dividere il movimento operaio. Rivendichiamo lo smembramento del Belgio e il diritto all’autodeterminazione di fiamminghi e valloni. Anche la minoranza di lingua tedesca dovrebbe poter decidere del proprio destino. La disgregazione del Belgio va di pari passo con la lotta contro le istituzioni imperialiste che mantengono artificialmente l’unità del paese: la monarchia, la Nato e l’Unione Europea. La nostra prospettiva è la costruzione di un partito binazionale con l’obiettivo di costruire due partiti operai, sezioni dell’Internazionale.
Nel 1995, il compagno Robertson menzionò l’esempio della questione nazionale in Belgio per incoraggiare una rivalutazione della nostra linea sull’indipendenza del Quebec. Mentre in passato la Ltf ha cercato di affrontare questa questione, tardando a prendere una decisione programmatica, il Si è rimasto in gran parte indifferente. Nell’agosto del 2016, il Cc della Ltf ha approvato una mozione che raccomandava al Si di rivendicare l’indipendenza delle Fiandre. Questa linea era motivata essenzialmente dal ricorso alla nostra vecchia metodologia di “togliere la questione dall’ordine del giorno” e da un approccio empiristico. I compagni che in seguito hanno studiato la materia e che hanno scritto la prima bozza di questo documento di conferenza condividevano grosso modo questo quadro sbagliato, sia affrontando la situazione dal punto di vista del Quebec e del Canada, sia cercando di capire quale fossero “la nazione che opprime e quella oppressa”. Pur essendo innegabile la storica oppressione dei fiamminghi, a partire dagli anni Sessanta il rapporto tra le due nazioni è cambiato qualitativamente. Inoltre, rivendicare l’indipendenza implica l’idea che la Vallonia sia “il vero” Belgio, mentre l’unità stessa del paese rappresenta una costruzione fittizia. Per capire la particolarità del caso belga serve un approccio storico.
Il passaggio dal sistema feudale al sistema capitalistico dei territori che oggi compongono il Belgio è avvenuto quasi sempre sotto il dominio straniero. Mentre le province settentrionali dei Paesi Bassi, dominate dai protestanti, conquistarono formalmente l’indipendenza nel 1648, le province meridionali cattoliche (che formano oggi il Belgio) rimasero sotto il dominio degli Asburgo di Spagna fino al 1700, per poi passare sotto gli Asburgo d’Austria nel 1713. Nel 1789, le province conobbero la loro prima rivoluzione abortita, la Rivoluzione del Brabante e poco dopo furono annesse con la forza dalla Francia. Dopo la sconfitta di Napoleone nel 1814, il destino di queste province fu discusso tra i poteri della coalizione guidata dalla Gran Bretagna. In seguito il re dei Paesi Bassi approfittò del ritorno di Napoleone e dello stato di guerra nel 1815 per occuparle militarmente. Un accordo tra le potenze europee riunite al Congresso di Vienna permise al re dei Paesi Bassi di annettere le province al suo regno indipendentemente dalla loro volontà. Per la Gran Bretagna, questo era un modo per formare uno “Stato cuscinetto” tra la Francia e le altre potenze europee. Fu solo nel 1830 che gli abitanti di queste province, incoraggiati dalla Rivoluzione di Luglio in Francia, sperimentarono la “propria” rivoluzione di tipo borghese guidata dai francofoni, che può essere considerata come una parziale espressione della loro autodeterminazione.
Il Belgio moderno è essenzialmente il prodotto della politica e dei compromessi tra le grandi potenze dell’epoca. Nel 1830, Gran Bretagna, Francia e Prussia considerarono seriamente la possibilità di spartirselo. Ma la Gran Bretagna, che all’epoca era la principale potenza europea, non intendeva permettere che fosse annesso alla Francia. Al contempo voleva evitare una nuova guerra europea e la Francia si opponeva fermamente al fatto che il Regno Unito potesse mettere le mani su un pezzo di terra nel continente. La conferenza di Londra scelse perciò la creazione di uno Stato indipendente (in effetti uno “Stato cliente” della Gran Bretagna). Fiamminghi e valloni non hanno veramente scelto di unire le rispettive nazioni, ma sono stati costretti dalle circostanze storiche, minacciati com’erano da un lato dai Paesi Bassi e dall’altro dal rischio di essere annessi e dilaniati da Francia, Gran Bretagna e Prussia.
Inoltre, nel 1830 le nazioni fiamminga e vallona non erano ancora completamente sviluppate. Nelle Fiandre, la lingua era molto disomogenea e frammentata in vari dialetti. C’erano marcate differenze tra le principali città, e le élite della nobiltà feudale e della borghesia erano francofone. In queste condizioni, l’unione forzata delle due nazioni fu possibile solo a scapito della nazione fiamminga. Già nel 1840, i fiamminghi avanzarono rivendicazioni linguistiche in opposizione alla politica di assimilazione dell’élite francofona. Gli operai e i contadini fiamminghi subivano una doppia oppressione, economica e nazionale, ed erano relegati in fondo alla scala sociale. Solo nel 1870 i fiamminghi ottennero il riconoscimento formale di alcuni diritti linguistici in campo giuridico ed educativo, e solo nel 1967 fu riconosciuta una versione della Costituzione in lingua olandese. Tuttavia, la situazione relativa delle due nazioni cambiò dopo la Seconda guerra mondiale e in modo decisivo a partire dagli anni Sessanta. Dagli anni Cinquanta in poi, ingenti capitali furono trasferiti dal Sud al Nord, dalle fatiscenti industrie vallone a quelle più moderne del territorio fiammingo: il declino dell’industria del carbone e dell’industria pesante (concentrata soprattutto in Vallonia) corrispose alla crescita dell’industria petrolifera e dei settori petrolchimico, automobilistico e siderurgico, nei pressi del porto di Anversa e sulla costa fiamminga.
Lo sviluppo storico della questione nazionale in Belgio dimostra che l’“unità” del paese è artificiale e non poggia sulla libera scelta delle nazioni che ne fanno parte. Le dinamiche delle grandi potenze europee dell’epoca e il fatto che la rivoluzione belga del 1830 portò al potere una borghesia dominante francofona, impedirono storicamente la possibilità di una libera associazione delle due nazioni. Oggi i fiamminghi si trovano in una posizione economicamente vantaggiosa, ma il quadro unitario del Belgio è oppressivo per entrambe le nazioni, che non sono in grado di autodeterminarsi pienamente. Insieme all’ascesa economica dei fiamminghi, il paese ha perseguito nei decenni successivi una politica di “autonomia” linguistica e culturale, a tal punto che fiamminghi e valloni oggi vivono da stranieri nello stesso Stato. In questa situazione contraddittoria, in cui la questione nazionale divide profondamente il paese, ma dove il destino delle due nazioni rimane ambiguo, la nostra risposta è semplice: separatevi.
L’influenza sulla creazione del paese da parte della Gran Bretagna e in misura minore della Francia si riflette nella monarchia costituzionale istituita nel 1830. Gli inglesi scelsero uno stretto parente della propria Corona, Leopoldo di Sassonia-Coburgo, che poi sposò la figlia di Luigi Filippo, “re dei francesi”. La monarchia non solo funge da baluardo per le forze reazionarie, soprattutto in una situazione rivoluzionaria, ma è anche uno dei pilastri che oggi mantengono artificialmente l’unità oppressiva del Belgio. La divisione del Belgio sarebbe molto probabilmente accompagnata dal rovesciamento di questo rottame dell’era feudale, e la rivendicazione di dividere il paese dev’essere accompagnata da quella di abbattere la monarchia!
Bruxelles è un’enclave francofona in territorio fiammingo. Al momento della formazione del Belgio la città era per lo più di lingua fiamminga e la sua francesizzazione riflette la politica di assimilazione della borghesia francofona. Oggi nella regione di Bruxelles capitale, solo una piccola minoranza parla olandese. Una parte importante della popolazione è di origine immigrata e un’altra lavora o ha a che fare con l’Unione Europea. Bruxelles e i suoi dintorni hanno un proprio governo regionale e una popolazione separata dal resto delle Fiandre. E’ difficile prevedere cosa accadrà a Bruxelles in caso di dissoluzione del paese, e ci sono diverse possibilità. Come il Cc della Ltf ha giustamente affermato nell’agosto del 2016, gli abitanti devono poter scegliere liberamente cosa accadrà nella regione, anche se ciò dipende da come avverrà lo smembramento del paese.
La questione nazionale in Belgio e il destino di Bruxelles sono strettamente legati alle istituzioni imperialiste presenti. La Nato e la Commissione europea hanno entrambe il loro quartier generale nella capitale e gli imperialisti temono l’instabilità che potrebbe essere determinata dalla disgregazione del Belgio. L’Ue, in particolare, svolge un ruolo guida nel mantenimento dell’oppressione nazionale tra i suoi Stati membri. L’indipendenza della Catalogna, dei Paesi baschi, della Scozia o delle Fiandre e della Vallonia metterebbe in discussione l’esistenza stessa dell’Unione Europea, che teme che i confini dei suoi Stati membri vengano ridefiniti. E’ improbabile che lo smembramento del Belgio avvenga senza alcun movimento contro l’Ue. Fiandre e Vallonia fuori dall’Unione Europea! Unione Europea fuori da Bruxelles! Le esitazioni riguardo al Belgio sono state legate agli altri problemi di adattamento all’Unione Europea che abbiamo combattuto nell’organizzazione.
X. Europa
Adattamento all’Unione Europea
L’Unione Europea è un consorzio di Stati capitalisti il cui obiettivo è massimizzare lo sfruttamento della classe operaia e il dominio economico e la sottomissione dei paesi più poveri come Grecia, Portogallo e Spagna, alle potenze imperialiste, in particolare alla Germania. Questo anche attraverso l’imposizione del suo strumento finanziario: la moneta comune, l’euro. L’Unione Europea è concepita per aumentare la competitività degli imperialisti europei nei confronti dei loro rivali: gli Stati Uniti e il Giappone. Qualunque siano le fantasie dei kautskiani dell’ultima ora riguardo ad un’Europa “sovranazionale” e “sociale”, l’Unione Europea è una formazione instabile esposta alle continue tensioni create dai divergenti interessi nazionali degli imperialisti europei, che minacciano costantemente di lacerarla. Come ci ha insegnato Lenin:
“Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali ‘progredite’ e ‘civili’, gli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. (...) Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei... Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l’America”. (“Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa”, agosto 1915)
Solo l’unità su basi socialiste, ottenuta attraverso la rivoluzione proletaria e l’espropriazione della borghesia, può realizzare uno sviluppo economico mondiale razionale, senza sfruttamento. Per gli Stati uniti socialisti d’Europa!
L’Unione Europea è un nemico mortale dei diritti nazionali, come possono testimoniare le masse greche, la cui sovranità nazionale è soffocata. L’Ue è decisa a mantenere immutate le attuali frontiere europee. La stessa Merkel è stata molto chiara al riguardo nel 2015, quando ha proclamato che se la Catalogna dovesse separarsi dalla Spagna sarebbe automaticamente esclusa dall’Unione Europea. Per gli imperialisti europei è di vitale interesse mantenere l’oppressione nazionale della Catalogna, perché l’indipendenza ispirerebbe altre nazioni oppresse e potrebbe provocare un effetto domino che metterebbe in discussione l’“integrità” territoriale di Francia, Belgio, ecc. Inoltre, la lotta di liberazione nazionale potrebbe portare a un’esplosione di lotte di classe nello Stato spagnolo e in altri paesi.
I problemi che abbiamo avuto con l’Unione Europea nel corso degli anni non sono estranei all’attuale lotta nel partito. Ci sono stati adattamenti politici all’Ue, incentrati su una visione di questa mafia imperialista come forza “progressista”. Già nel 2011 il compagno Robertson aveva espresso la sua preoccupazione per il fatto che i compagni considerassero ipotetica la nostra opposizione all’Ue. Anche se continuavamo a opporci formalmente all’Unione Europea, l’argomento secondo cui una moneta comune senza uno Stato comune non sarebbe praticabile era scomparso dai nostri articoli. Prima della grande crisi economica iniziata nel 2008, quando l’Unione Europea sembrava prosperare, ci siamo adattati ad essa; ora è relativamente facile opporvisi, in quanto l’opposizione all’Ue ha guadagnato popolarità. Ciononostante la nostra opposizione all’Ue è stata più volte osteggiata in concreto anche dopo il 2008. Già alla fine del 2011 e all’inizio del 2012, vi sono state obiezioni in seno all’Internazionale, alla semplice dichiarazione fattuale che “l’esempio dell’Argentina mostra graficamente che la Grecia starebbe molto meglio dichiarando bancarotta, uscendo dall’eurozona e ripristinando la propria valuta” (Spartaco n. 75, gennaio 2012).
Il documento della Sesta conferenza della Lci (2010) afferma che il Partito comunista greco “presenta un quadro sciovinista in quanto si oppone all’Ue e al Fmi in virtù del fatto che questi interferiscono con la sovranità nazionale greca”. E’ falso. Nella nostra propaganda successiva ci siamo opposti giustamente al fatto che l’Unione Europea (cioè la Germania) abbia violato la sovranità greca. Infatti, l’Ue e il Fmi fanno ben di più che “interferire”: la Grecia di oggi ha meno sovranità nazionale del Messico neocoloniale! La sovranità nazionale significa in ultima analisi il diritto del governo di un paese a prendere decisioni sulle proprie politiche interne, non ultimo con il controllo della propria moneta! Alcuni compagni non capiscono il legame tra l’autodeterminazione delle nazioni oppresse dall’imperialismo e la difesa concreta della loro sovranità nazionale. Non siamo indifferenti al fatto che le nazioni imperialiste o oppressive calpestino la sovranità delle nazioni più deboli. Per esempio, Espartaco n. 36 (settembre 2012) ha avanzato la giusta rivendicazione: “Fbi, Dea e tutte le forze militari e di polizia degli Stati Uniti, fuori dal Messico!”
Dopo che, nel febbraio 2012, si è svolta una discussione nel Si sul nostro approccio nei confronti dell’uscita dei singoli Stati membri dall’Unione Europea, vi è stata una costante confusione sull’argomento. La mozione originale proposta in quella riunione affermava: “Siamo favorevoli a che tutti gli Stati membri abbandonino l’Ue e l’euro: lo smembramento della moneta comune e della stessa Ue devono essere un obiettivo centrale delle classi lavoratrici in tutta Europa; questo fa parte integrante della nostra prospettiva per gli Stati uniti socialisti d’Europa”. Durante la riunione, questa parte della mozione venne criticata con l’errata motivazione che la richiesta di uscita di uno specifico Stato membro era rivolta ai governi borghesi. All’epoca del referendum greco del 2015, fu in base a questa argomentazione che alcuni compagni dirigenti si opposero allo slogan “Grecia fuori dall’Ue”. Tuttavia, questa parte della mozione del Si aveva davvero un problema, in quanto non prendeva in considerazione le differenze tra la Germania, la vera potenza dell’Europa, e gli altri Paesi membri, né tantomeno le differenze tra i paesi imperialisti dell’Unione Europea e quelli da loro oppressi.
Ecco il quadro generale entro il quale la questione dev’essere affrontata: in primo luogo, siamo a favore della rottura dell’Unione Europea da un punto di vista internazionalista. Detto questo, tuttavia, dal momento che finora la sua rottura passa per l’uscita dei singoli Stati membri, non possiamo essere neutrali quando si pone la questione. Non esiste una formula su quando o come rivendicare che uno Stato membro esca dall’Unione Europea. Dipende dal paese in questione e dalle circostanze specifiche. Prima della proposta di referendum in Gran Bretagna, rivendicare “Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea” non poteva che essere inteso come un appello nazionalista: per un’Inghilterra imperialista più forte, “liberata” dalla Germania. Al contrario, un invito alla Grecia a lasciare l’Unione Europea può essere in gran parte interpretato in quel paese come opposizione all’oppressione della Grecia da parte dell’Unione Europea e della Germania. In ogni caso, questi appelli devono inserirsi nel nostro programma per lo smantellamento dell’Unione Europea, proponendo al contempo un asse di classe proletario.
Nel 2015 abbiamo assistito a due ondate di liberalismo espresse nella rivendicazione della “apertura delle frontiere”. A maggio, i due articoli di prima pagina previsti per un numero di Wv (scritti in collaborazione con i compagni europei e con il Si) furono ritirati dopo che tre dirigenti del partito si erano opposti alla posizione presa sulle crisi dei profughi in Europa e nel sudest asiatico. L’articolo sull’Europa invocava pieni diritti di cittadinanza per tutti i “profughi richiedenti asilo”, mentre l’articolo sull’Asia sudorientale affermava: “Ai profughi rohingya dovrebbe essere consentito di stabilirsi dove vogliono.” L’Ufficio politico della Sl/Us ha evidenziato il problema nel maggio del 2015, sostenendo che questi articoli contenevano “una politica liberale borghese e una posizione reazionaria utopica favorevole alla “apertura delle frontiere”. Qualche mese dopo, abbiamo assistito a una seconda ondata di liberalismo, in cui alcuni compagni volevano prendere posizione contro il regolamento Dublino III, che consente ai governi di decidere da quale paese debbano essere gestite le richieste di asilo, cioè quale paese incarcererà o rimpatrierà i profughi. Questa posizione rifletteva la concezione socialdemocratica di un’Europa “sociale” e il mito liberale della “apertura delle frontiere” tra gli Stati firmatari del trattato di Schengen. Come abbiamo scritto di recente in una polemica contro il Gruppo internazionalista (Gi), che diffonde questo tipo di illusioni:
“Come comunisti, non chiediamo certo a coloro che sono responsabili di queste devastazioni, la cortesia di soccorrere le loro vittime. Il nostro scopo è di forgiare partiti operai rivoluzionari internazionalisti che possano guidare il proletariato mondiale nella lotta per distruggere questo sistema di sfruttamento brutale, di oppressione razziale e coloniale/neocoloniale e di guerra.” (Spartaco n. 80, settembre 2017)
La Spartacist League/Britain
Questa battaglia ha rivelato che negli ultimi anni la Spartacist League/Britain (Sl/B) ha seguito una traiettoria opportunistica di adattamento al socialsciovinismo laburista che ha avuto come corollario la conciliazione con l’Ue. Un esempio lampante di questa capitolazione compare in Workers Hammer n. 237 (inverno 2016-2017), dove la Sl/B ha retrospettivamente amnistiato Corbyn per la sua linea contro il Brexit nel referendum sull’Ue del 2016. Lo stesso articolo abbelliva Corbyn omettendo la sua opposizione al diritto all’indipendenza della Scozia, posizione che condivideva con i precedenti dirigenti del Partito laburista fautori del “Regno Unito”.
La posizione di Corbyn sull’indipendenza e la sua posizione di mantenere il Regno Unito nell’Ue hanno contribuito a spingere i lavoratori scozzesi tra le braccia dello Scottish National Party borghese; inoltre la sua opposizione alla Brexit ha spinto i lavoratori inglesi verso l’Ukip (UK independence party). La Sl/B non ha attuato correttamente la tattica del sostegno critico alla candidatura di Corbyn alla direzione del Partito laburista nel 2016: l’obiettivo del sostegno critico non è quello di creare un Partito laburista “corbynista”, ma di contrapporre la base del partito alla sua direzione, al fine di forgiare un partito rivoluzionario d’avanguardia (leninista). Invece, in modo semiclandestino, la Sl/B è diventata inattiva e si è rapidamente spostata a destra su questioni programmatiche di principio.
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Dopo il 2010, la Sl/B ha furtivamente abbandonato la rivendicazione del ritiro delle truppe britanniche dall’Irlanda del Nord. L’abbandono di questa rivendicazione, che è essenziale per la nostra opposizione all’imperialismo britannico e che precede la fondazione stessa della sezione, non è stata codificata in una riunione del Cc né comunicata al Si. La frode imperialista della “pace” del 1998 si basava sul mantenimento dell’esercito britannico in Irlanda del Nord. Abbandonare la nostra linea significava negare che la popolazione cattolica è ancora sotto diretta repressione da parte dello Stato britannico e accettare la menzogna sciovinista secondo cui il controllo dell’Irlanda del Nord da parte del “Regno Unito” è legittimo. La conferenza riafferma le Tesi sull’Irlanda, compreso il punto seguente:
“2. La rivendicazione del ritiro immediato e incondizionato dell’esercito britannico è una parte essenziale del nostro programma. L’imperialismo britannico ha portato con sé secoli di sfruttamento, oppressione e carneficine sull’isola. Non ci si può aspettare nulla di buono dalla presenza britannica. Il legame tra l’Irlanda del Nord e lo Stato britannico non può che essere oppressivo per la popolazione cattolica irlandese, un ostacolo alla mobilitazione di classe e a una soluzione proletaria. Non poniamo condizioni preliminari alla rivendicazione del ritiro immediato di tutte le forze armate britanniche e non ne riduciamo il carattere imperativo suggerendo ‘tappe’ per la sua realizzazione (ad esempio limitandosi a chiedere che l’esercito si ritiri dai quartieri operai o resti nelle caserme)” (Spartacist ed. francese n. 18-19, inverno 1981-1982).
La Spartakist Arbeiterpartei Deutschlands
La sezione tedesca ha da tempo una pratica di non tradurre mai articoli in turco, con la scusa che tutti gli immigrati turchi sono bilingue. Ciò non è solo falso, ma dimostra anche disprezzo per la numerosa popolazione turca immigrata (o di origine immigrata) in Germania. Inoltre, le traduzioni in turco sarebbero una dichiarazione di internazionalismo e solidarietà nei confronti di questa popolazione oppressa e potrebbero raggiungere la Turchia, specialmente se pubblicate sul nostro sito web. Prendiamo atto che la Spartakist Arbeiterpartei Deutschlands (Spad) ha già adottato misure per rettificare la situazione.
I compagni della Spad devono ristabilire un rapporto più stretto con l’Internazionale e cercare di viaggiare al di fuori della Germania.
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Cipro
La nostra Dichiarazione internazionale di principi e l’“Accordo per un lavoro comune tra i compagni greci e la Lci (Fi)” (Spartacist ed. inglese n. 59, primavera 2006), trattano Cipro come una situazione di popoli interpenetrati (greci e turchi), dove solo la rivoluzione socialista può risolvere la questione nazionale. Ad esempio, l’“Accordo per un lavoro comune” afferma:
“Lottiamo per una soluzione proletaria alla questione nazionale, che richiede necessariamente il rovesciamento rivoluzionario delle borghesie nazionaliste a Nicosia/Lefkosia, Atene e Ankara”.
Questa prospettiva non è adatta ad affrontare la questione di Cipro. Oggi, la Repubblica di Cipro (Sud) e la Repubblica turca di Cipro del Nord sono in effetti due Stati separati, con una stragrande maggioranza di greci nel Sud e una schiacciante maggioranza di turchi nel Nord. Le popolazioni greche e turche, un tempo compenetrate, furono separate con la violenza nel 1974, quando la giunta militare greca tentò di annettere Cipro con un colpo di Stato guidato da ufficiali di destra sull’isola. Ciò provocò l’invasione da parte dell’esercito turco, seguita dalla separazione dei due popoli che risultò nella formazione di due Stati separati.
Le tensioni nazionaliste tra i popoli turco e greco furono in gran parte intensificate e precipitate dagli imperialisti britannici. Questi ultimi hanno mantenuto il loro dominio coloniale a Cipro con una sanguinosa repressione e hanno usato la minoranza turca per imporre la loro strategia di “divide et impera”. Concedendo alcuni privilegi minori a un popolo contro l’altro, gli inglesi hanno cercato di evitare il tipo di lotte comuni contro l’oppressione coloniale che erano avvenute in passato. Chiediamo il ritiro incondizionato e immediato delle truppe britanniche e delle truppe Onu dall’isola. Il vero potere sull’isola fu inizialmente la Gran Bretagna, e dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti. Queste potenze continuano ad alimentare lo sciovinismo sull’isola, che è anche incoraggiato dalle borghesie greca e turca.
Nel contesto attuale, il nostro programma a favore del diritto democratico di autodeterminazione per i grecociprioti e per i turcociprioti si esprime riconoscendo la legittimità dell’adesione della parte greca alla Grecia e della parte turca alla Turchia. E’ altresì legittimo che se lo desiderano i turcociprioti e i grecociprioti formino i loro piccoli Stati indipendenti separati dal “paese di origine”. L’attuazione di una di queste soluzioni non negherebbe a nessuna delle due nazioni il diritto all’autodeterminazione. Detto questo, servono ulteriori discussioni e ricerche sulla situazione.
XI. Per la rivoluzione permanente nei paesi coloniali
Guadalupa
Nel suo articolo “Lo sciopero generale scuote le colonie francesi” (Lb n.187, marzo 2009), la Ltf si schiera in difesa dell’imperialismo francese. L’articolo afferma:
“In Francia il dovere di un partito rivoluzionario è quello di mobilitare la classe operaia a fianco degli abitanti delle Antille in lotta, ma in Guadalupa e in Martinica il compito cruciale è quello di spezzare la presa della falsa coscienza nazionalista. Sotto l’imperialismo le nazioni non sono uguali e una Guadalupa capitalista indipendente, di cui difendiamo il diritto ad esistere, non può che abbassare ulteriormente il tenore di vita dei poveri.”
Secondo questo articolo, la “falsa coscienza nazionalista” che deve essere spezzata è il sentimento di liberazione nazionale. La Ltf si è opposta all’indipendenza sulla base del fatto che l’imperialismo francese è vantaggioso per la popolazione dell’isola! Inoltre, la liberazione della Guadalupa e della Martinica è stata presentata come dipendente dal movimento operaio francese. Il proletariato locale a quanto pare non avrebbe le forze per lottare da solo per la sua liberazione. Questo atteggiamento si contrappone frontalmente alla prospettiva della rivoluzione permanente. Come osservò Trotsky nel Programma di transizione (1938) per quanto riguarda i paesi coloniali e semicoloniali:
“questi paesi arretrati fanno parte di un mondo dominato dall’imperialismo, per cui il loro sviluppo ha un carattere combinato: le forme economiche più primitive si combinano con l’ultima parola della tecnologia e della cultura capitalista. Nello stesso modo si determina la politica del proletariato nei paesi arretrati: la lotta per gli obiettivi più elementari dell’indipendenza nazionale e della democrazia borghese si combina con la lotta socialista contro l’imperialismo mondiale.” (Spartaco n.13/14, maggio 1984)
Portorico
L’isola di Portorico è devastata dalla crisi economica, conseguenza diretta del dominio coloniale: in pratica è in bancarotta con oltre 70 miliardi di dollari di debiti, imposti dagli hedge funds e da altre istituzioni finanziarie. Questo enorme debito viene utilizzato dagli imperialisti statunitensi per strangolare i lavoratori portoricani: i sovrani coloniali di Washington hanno imposto un “Financial Oversight and Management Board” [Comitato di supervisione e direzione finanziaria] che esige dal governo portoricano un taglio di bilancio di 3,2 miliardi di dollari entro il 2021. Siamo contrari all’imposizione di questo comitato, che ha assunto il controllo dell’economia portoricana assoggettando ancor più saldamente il governo eletto dell’isola al controllo degli imperialisti. Esigiamo la cancellazione del debito, una richiesta che in passato è stata controversa all’interno del partito, ma che è espressione fondamentale della nostra opposizione all’oppressione coloniale dell’isola.
Dal 1898, Portorico è tenuta in servitù coloniale dagli imperialisti americani. Ancora oggi, i minimi diritti politici e i ridicoli aiuti federali concessi ai portoricani sono solo una sottile maschera dello sfruttamento coloniale. Inoltre, Portorico non è sovrana e non può svalutare la sua moneta. Le leggi statunitensi impediscono di apportare modifiche al suo status coloniale senza l’approvazione del Congresso, una palese violazione del suo diritto all’autodeterminazione. La risposta principale alla povertà è l’emigrazione di massa: l’isola ha oggi una popolazione di 3,5 milioni di persone, contro i 5 milioni di portoricani che vivono negli Stati Uniti.
Nel contesto dell’attuale battaglia, è chiaro che nel corso degli anni ci sono stati problemi con la nostra posizione su Portorico come illustrato nelle pagine di Wv. La conferenza riafferma la posizione su Portorico formulata dal compagno Robertson nel 1998:
“Quello che vogliamo è molto chiaro. Poiché vogliamo combattere lo sciovinismo razziale negli Stati Uniti e il nazionalismo sull’isola, raccomandiamo fortemente l’indipendenza, pur essendo consapevoli della profonda ambivalenza della popolazione. La nostra idea centrale è quindi il diritto all’autodeterminazione. Anche se qui [negli Stati Uniti] abbiamo certamente una posizione di autodeterminazione, in Portorico la posizione dev’essere la lotta per il potere operaio. I lavoratori vittoriosi dovranno decidere come esercitare l’autodeterminazione operaia, a seconda delle condizioni che esisteranno in quel momento nel mondo e nei Caraibi. Penso che sia molto semplice, in realtà”.
Questa formulazione codifica sia la nostra posizione anticoloniale, sia il sentimento della popolazione portoricana, sia la nostra prospettiva di rivoluzione permanente applicata a Portorico: vale a dire la possibilità che le lotte nazionali a Portorico possano rappresentare anche la leva per la rivoluzione socialista sull’isola e per la creazione di una repubblica operaia di Portorico.
Il plenum del Cc della Sl/Us del novembre 1998, quando il compagno Robertson fece questa presentazione, approvò una mozione che ne rifletteva lo spirito, affermando: “come comunisti, saremmo favorevoli all’indipendenza di Portorico ( ) ma dati i sentimenti contraddittori, ovvi e giustificati dei portoricani in materia, non vogliamo che l’indipendenza sia loro imposta”. Tuttavia, l’articolo richiesto dallo stesso plenum “Per il diritto all’indipendenza di Portorico!” (Wv n. 704, 8 gennaio 1999), è contraddittorio: da un lato, presenta correttamente il contenuto di fondo dei commenti del compagno Robertson e della mozione adottata dal plenum del Cc. Dall’altro, riflette la nostra falsa metodologia di “togliere la questione nazionale dall’ordine del giorno”.
Dopo l’articolo iniziale del 1999, la Sl/Us per anni ha distorto la linea adottata dal plenum del 1998. Un compagno dirigente dell’epoca ha accusato la nostra posizione del 1999 di essere “contorta” e confusa. Al contrario era proprio quel compagno ad offuscare la chiara e netta posizione antimperialista del compagno Robertson rendendola ambivalente nei confronti del colonialismo. Di conseguenza, fino al 2010, nelle pagine di Wv non vi era più traccia dell’argomento che, dal punto di vista dei rivoluzionari negli Stati Uniti, siamo favorevoli all’indipendenza di Portorico! Ciò si è tradotto in una posizione di neutralità che rivendicava solo il “diritto” all’autodeterminazione. Dopo questa “correzione”, un articolo del 2000 (“Stati Uniti fuori da Vieques!”, Wv n. 736, 19 maggio 2000) ha sostenuto:
“Rivendichiamo il diritto di Portorico all’indipendenza. Allo stesso tempo, sottolineiamo che l’unica soluzione all’oppressione coloniale di Portorico è il rovesciamento della dominazione capitalista sull’isola e qui negli Stati Uniti. (...) Ma i nazionalisti portoricani cercano di deragliare la lotta proletaria con una falsa e pericolosa unità tra il movimento operaio portoricano e la borghesia locale. Nel migliore dei casi, chiedono una sorta di ‘indipendenza’ neocoloniale.”
Questa linea, pubblicata sul nostro giornale americano, è l’opposto di quella difesa un anno e mezzo prima dal compagno Robertson. E’ vero che l’oppressione imperialista di Portorico, e dell’intero Terzo Mondo, può essere distrutta solo dalla rivoluzione socialista e dalla sua estensione internazionale. Ma è sbagliato affermare che non si può porre fine all’oppressione coloniale senza una rivoluzione socialista. Inoltre, condannare la possibilità dell’indipendenza di Portorico sotto il capitalismo come un’“indipendenza neocoloniale” nega in modo sciovinista il diritto di Portorico all’autodeterminazione.
Che si utilizzi il termine “raccomandare” o “essere a favore” dell’indipendenza, la questione principale è che il colonialismo è contrario agli interessi del proletariato e tutti i soggetti coloniali devono essere liberi! Questo punto di partenza programmatico non è definito dai sentimenti del popolo portoricano, ma dalla nostra opposizione all’imperialismo. Dobbiamo dirlo nella nostra propaganda, oltre a riconoscere il fatto che il popolo portoricano è comprensibilmente ambivalente riguardo all’indipendenza. Da un lato, gli abitanti dell’isola provano un forte senso di appartenenza alla loro nazione. Portorico ha una lunga storia di lotta anticoloniale, che gli imperialisti statunitensi hanno brutalmente schiacciato, anche uccidendo e incarcerando gli independentistas. D’altro canto, molti portoricani hanno paura di perdere il diritto di vivere e di lavorare sul continente americano e di trovarsi allo stesso livello di povertà degli altri Paesi indipendenti dei Caraibi. Come leninisti, non cerchiamo di imporre loro il nostro punto di vista insistendo sulla separazione, ma enfatizziamo il diritto all’autodeterminazione.
Per questo è sbagliato che l’articolo di Wv n. 1075 (2 ottobre 2015) abbia implicitamente respinto la difesa del diritto dei portoricani a scegliere se diventare uno Stato degli Stati Uniti. Abbiamo scritto:
“Allo stesso tempo, la trasformazione in uno Stato [degli Usa] o l’annessione diretta agli Stati Uniti, aggraverebbe l’ostilità razzista nativista nei confronti dei portoricani. Accelererebbe anche la tendenza a sostituire l’inglese allo spagnolo sull’isola, il che finirebbe per minacciare l’identità nazionale del popolo portoricano”.
Questi due argomenti sono in diretta contrapposizione al diritto dei portoricani di scegliere liberamente l’annessione, un diritto che difendiamo, anche se l’evoluzione del sentimento nei confronti della condizione di Stato è il risultato del ricatto economico degli Stati Uniti.
La nostra propaganda su Portorico è stata raramente tradotta in spagnolo. D’ora in poi, la sezione americana della Lci dovrà tradurre sistematicamente questi articoli.
XII. La vera continuità sciovinista
Il Gruppo internazionalista
Le denunce isteriche del Gi che tratta la Lci da “sciovinista” e persino da razzista, riflettono l’ipocrisia liberale di questi socialdemocratici che capitolano al proprio imperialismo: difendono l’Ue; rifiutano di riconoscere il diritto della Catalogna all’indipendenza; vogliono mantenere il Quebec in una “federazione” nordamericana; trattano la loro sezione messicana come una neocolonia; si rifiutano di prendere una posizione coerente contro l’imperialismo americano e i suoi lacché in Siria; creano illusioni nel Partito democratico e nelle “città santuario” e vogliono imporre l’indipendenza ai portoricani “volenti o nolenti”.
Come caporedattore di Wv, Jan Norden, ora lìder máximo del Gi, ha svolto un ruolo centrale nell’elaborazione delle nostre deviazioni scioviniste sulla questione nazionale. Continua ad applicarle con la sua attuale propaganda e con il modo in cui tratta la sua sezione messicana. Norden non ha nemmeno lasciato che i suoi compagni messicani scrivessero El Internacionalista, che una volta era il loro giornale più frequente, ma che veniva scritto a New York (hanno pubblicato solo nove numeri del loro giornale messicano in 21 anni!). Il Gi si presenta come combattivo difensore degli immigrati latinoamericani negli Stati Uniti, ma la composizione del loro comitato di redazione, in cui non c’è un solo latinoamericano, mostra il loro vero volto: (#IgEdBrdSoWhite).
Il Gi si oppone allo smantellamento dell’Unione Europea imperialista, condannando ad esempio la Brexit. La loro linea sulla Grecia è ancora più grottesca: sostengono che, in assenza di rivoluzione socialista, la Grecia deve rimanere sotto il giogo dell’Unione Europea e del Viertes Reich tedesco. In effetti, Il Gi scrive: “Chiedere alla Grecia di lasciare l’Ue e abbandonare l’euro tornando alla dracma è (...) una rivendicazione nazionalista borghese” (“La Grecia sulla lama del rasoio”, The Internationalist, dicembre 2010). Nello stesso spirito, va notato che il Gi sembra aver abbandonato in Messico lo slogan “Abbasso il Nafta!” che non appare da anni sulla loro stampa.
Per quanto riguarda la Catalogna, il Gi si oppone apertamente all’indipendenza, con il pretesto che la Catalogna è “la parte più ricca della Spagna” e che l’indipendenza significherebbe “la separazione di uno dei settori più combattivi della classe operaia”. Inoltre, il Gi difende la menzogna secondo cui “gran parte, se non la maggior parte dei lavoratori industriali non parlano catalano” (The Internationalist, estate 2015). Secondo loro, l’indipendenza della Catalogna equivarrebbe a “discriminare” gli spagnoli. In questo modo il Gi fa da lacché della borghesia e della monarchia castigliana.
Con la sua posizione a favore della “apertura delle frontiere” e della “lotta alla destra” e soprattutto con il suo entusiasmo per la farsa delle cosiddette “città santuario” del Partito democratico, il Gi attribuisce un carattere progressista ai propri imperialisti statunitensi e ai loro omologhi europei. Per il Gi, la sofferenza dei rifugiati siriani è solo un alibi ipocrita per la sua linea socialimperialista. Per quanto riguarda la Siria, il Gi si rifiuta di assumere coerentemente la posizione leninista che una sconfitta militare di Washington, anche se causata dai tagliagole dello Stato islamico, coinciderebbe con gli interessi della classe operaia mondiale. Cambiando continuamente posizione senza mai ammetterlo, questi centristi viscidi sono diventati sostenitori degli ausiliari locali di Washington. come i nazionalisti curdi del Ypg/Pyd.
Fedele al centrismo, il Gruppo internazionalista sostiene l’indipendenza del Quebec, eredità della nostra organizzazione di cui Norden si è appropriato. Pone però dei limiti a questa presunta “indipendenza”: “La Lega per la Quarta internazionale lotta per l’indipendenza del Quebec nel quadro di una federazione di Stati operai nordamericani” (The Internationalist, maggio 2012), vale a dire: no all’indipendenza sotto il capitalismo e no anche a una repubblica operaia indipendente. Inoltre, pur opponendosi salomonicamente a tutti i privilegi nazionali, il Gi, nei suoi pochi articoli in francese sul Quebec, si oppone alla legge 101, appoggiando così l’assimilazione forzata dei québécois.
Per quanto riguarda Portorico, il Gi è per l’indipendenza per le masse portoricane “volenti o nolenti”, come scriveva Norden quando era caporedattore di Wv. Il fatto che il Gi mostri un tale disprezzo per la volontà nazionale dei portoricani va di pari passo con la sua politica paternalista filoimperialista. Per il Gi, gli americani imperialisti bianchi possono decidere al posto dei portoricani il destino della loro nazione senza doversi preoccupare della loro volontà.
Nella sua polemica “Spartacist League: Land Surveyor Socialists”(The Internationalist, gennaio 2017), il Gi ci accusa di sciovinismo nei confronti dei nativi americani per la nostra posizione sull’oleodotto Dakota Access (Dapl). Come marxisti, non ci opponiamo né appoggiamo il Dapl, perché non diamo consigli alla borghesia sulla sua politica economica. Il Gi, al contrario, mette sullo stesso piano la difesa dei nativi americani e il sostegno a tutte le loro rivendicazioni di territori ancestrali, sostenendo che sarebbe ragionevole chiedere la completa restituzione dei territori elencati nel trattato di Fort Laramie del 1851. Si tratta di una posizione liberale e di un’utopia reazionaria di ritorno alla terra, una posizione che abbraccia sia l’ambientalismo antioleodotti sia il tradizionalismo autoctono (che in effetti vivono una simbiosi politica). La loro posizione nega anche la storia coloniale del Nord America, che ha brutalmente distrutto la società tribale sostituendola con l’economia capitalista.
Sappiamo che è impossibile tornare all’epoca che precedette la distruzione delle società tribali, perpetrata attraverso secoli di violenze inenarrabili, di trattati calpestati e di territori rubati. Engels scrisse in una lettera del 1893:
“Ma la storia è infatti la più crudele delle dee: guida il suo carro trionfale su montagne di cadaveri, non solo in guerra ma anche in tempi di sviluppo economico ‘pacifico’. E noi, uomini e donne, siamo talmente stupidi che non possiamo mai trovare il coraggio di compiere progressi reali se non siamo spinti da sofferenze che vanno oltre quasi ogni misura”.
Per spezzare il sistema capitalista razzista americano e fornire la base materiale per riparare alla povertà imposta ai popoli autoctoni e ad altre popolazioni oppresse, serve una rivoluzione operaia. Un governo operaio offrirà alla popolazione autoctona la possibilità di scegliere tra l’integrazione volontaria in una società egualitaria o, nella misura del possibile, l’autonomia per chi la desidera.
La Bolshevik Tendency
Dopo il 1995 la nostra propaganda sul Quebec è molto migliorata. Ma come ha spiegato una mozione presentata dai compagni di Montréal alla conferenza canadese del novembre 2016: “Dal 1975 al 1995, la sezione non ha avuto un programma leninista sulla questione nazionale.” Questa eredità anglosciovinista viene orgogliosamente difesa dalla “Bolshevik Tendency” (Bt), un’organizzazione equivoca, ossessionata dalla grottesca menzogna secondo cui saremmo un “culto del leader” incentrato su Jim Robertson. Questo gruppo è stato formato da rinnegati della nostra organizzazione ed è capeggiato dal sociopatico Bill Logan, che ha svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo del nostro programma sciovinista in Quebec, e da Tom Riley, che difende con orgoglio lo sciovinismo. Già nel 1999, la Bt pubblicò un opuscolo (“Il marxismo e la questione nazionale in Quebec”) in cui diceva di rifarsi alla nostra storia antecedente al 1995. Possono tenersela! Questo gruppo, che riflette i peggiori difetti della nostra organizzazione, incarna la vera continuità della nostra politica anglosciovinista. Dopo il 1995, un importante punto debole nelle polemiche contro la Bt è stato il nostro rifiuto di ammettere che quel programma era davvero la loro eredità, introducendo una falsa distinzione tra la nostra politica precedente al 1995 e la loro. Fare altrimenti ci avrebbe costretti a riconoscere il carattere anglosciovinista della nostra politica precedente.
La Bt è sfacciatamente reazionaria nella sua difesa dell’unità dello Stato canadese. Le sue accuse per cui la nostra linea a favore dell’indipendenza sarebbe una posizione menscevicostaliniana di “rivoluzione a tappe”, sono solo un’esile copertura del fatto che, nella logica di questo gruppo, qualsiasi rivendicazione di indipendenza per una nazione oppressa rappresenta un tradimento. In realtà, è la Bt anglosciovinista che abbraccia la borghesia razzista anglofona e difende la collaborazione di classe.
Nonostante la nostra posizione formalmente corretta sull’indipendenza, argomenti come quelli che sostenevano che essa avrebbe consentito di “rimuovere la questione nazionale dall’ordine del giorno” con l’obiettivo della “rivoluzione socialista nordamericana”, implicavano che fossimo a favore dell’indipendenza solo sotto il capitalismo, prestando il fianco alle argomentazioni disoneste della Bt. Dopo questa battaglia e con il nostro cambiamento di linea sulle leggi linguistiche, possiamo star certi che questi ciarlatani ci accuseranno di capitolare al nazionalismo québécois. Da parte nostra, saremo lieti di provocare una crisi di nervi a Logan, Riley e compagnia attaccandoli con i nostri argomenti a favore della Repubblica operaia del Quebec!
XIII. Varie
La questione agraria
La conferenza accoglie con favore la critica mossa da un compagno all’articolo di Wv n. 1105 (10 febbraio 2017) con riferimento alla questione agraria in Colombia. Si tratta di una questione fondamentale per dare concreta applicazione alla rivoluzione permanente nei paesi neocoloniali e interseca anche la questione nazionale. In Colombia, i grandi proprietari terrieri possiedono oltre il 50 percento delle terre arabili, mentre i contadini poveri, che formano il 75 percento dei proprietari di terre, ne possiedono solo il 10 percento circa. La necessità di una rivoluzione agraria è evidente, ma l’articolo è sprezzante sulla questione contadina.
La questione dei contadini è complessa, varia da paese a paese e va analizzata concretamente caso per caso. Ciò che è programmaticamente appropriato in Messico non è necessariamente valido in Colombia. Non siamo in grado in questo momento di prendere una decisione sugli interrogativi posti. Dobbiamo prestare maggiore attenzione a questo tema nell’Internazionale e proseguire la discussione.