Spartaco n. 78

Marzo 2015

 

Come il potere proletario aprì la strada all’emancipazione sociale

La Rivoluzione russa e i rom

L’Europa capitalista: persecuzione di Stato e terrore fascista contro i rom

In Ungheria i criminali razzisti fanno saltare in aria le loro abitazioni e sparano alle vittime in fuga. Nella Repubblica Cèca le truppe d’assalto neonaziste minacciano di sterminarli nelle camere a gas. Nella Repubblica Slovacca uno sbirro fuori servizio, assegnatosi per missione il “ripristino dell’ordine”, spara e uccide tre di loro. In Bulgaria degli aggressori muniti di pugni di ferro li attaccano. L’anno scorso in Francia hanno subito a migliaia l’espulsione sotto il governo capeggiato dal presidente François Hollande, del Partito socialista. In ciascuno di questi casi le vittime hanno una cosa in comune: sono tutti rom.

Da un capo all’altro del continente, i rom cadono preda dell’intensificarsi della violenza e della xenofobia mentre i paesi dell’Unione Europea (Ue) traballano sotto gli effetti della crisi economica capitalista. A metà ottobre dei poliziotti greci hanno catturato una bambina di quattro anni e arrestato i suoi genitori accusandoli di rapimento, forse presumendo che i rom non possano avere una figlia dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Pochi giorni dopo le autorità irlandesi hanno scritto un’altra pagina di questo libro della vergogna strappando due bambini rom di pelle chiara ai propri genitori. Incoraggiati dalla persecuzione statale dei rom e con il vento del razzismo ufficiale in poppa, in Serbia degli skinhead fascisti sono entrati in azione cercando di rapire un bambino rom di pelle chiara.

La smania razzista contro i rom ostracizzati e storicamente perseguitati, che in Europa ammontano a 10-12 milioni di individui, ha subito negli ultimi mesi un drastico aumento ad opera dei governi, sia di destra che di sinistra, allo scopo di deviare la rabbia operaia dal nemico di classe capitalista. In quanto trotskisti, noi della Lega comunista internazionale (Lci) ci siamo sempre opposti all’Ue in quanto blocco economico imperialista creato per favorire lo sfruttamento e l’immiserimento degli operai e degli oppressi, compresi i milioni di immigranti in Europa, sotto il dominio non soltanto del capitale tedesco, ma anche di quello francese e britannico.

Sebbene il quadro legale dell’Ue includa l’accordo di Schengen del 1985, che si suppone dovrebbe garantire il libero movimento delle persone all’interno dei paesi membri, la “fortezza Europa” capitalista ha intensificato sempre di più la repressione degli immigrati e ha fortemente limitato il diritto d’asilo. Quando la Romania e la Bulgaria sono entrate nell’Ue nel 2007, ai loro cittadini, compresi molti rom, è stata limitata la possibilità di lavorare in Germania, in Francia e in Gran Bretagna. E anche se tali restrizioni sono ora state formalmente abolite, la rabbia attizzata dal governo di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici britannici contro gli immigrati romeni e bulgari dimostra che essi continueranno ad essere perseguitati da un angolo all’altro dell’Europa.

Come hanno spiegato i nostri compagni della Ligue Trotskyste de France in un volantino diffuso lo scorso ottobre (vedi “French Government Crackdown on Roma, Immigrants”, Workers Vanguard, n. 1035, 29 novembre 2013):

“In un’economia precapitalistica i rom occupavano una nicchia economica marginale in quanto artigiani, venditori ambulanti e artisti. Con lo sviluppo del capitalismo essi sono stati sospinti ai margini della società, subendo degli abusi che sono poi culminati con lo sterminio di centinaia di migliaia di rom ad opera dei nazisti. La verità è che il capitalismo marcescente è incapace di ‘integrare’ i rom, e ciò è tanto più vero nei periodi di crisi”.

Le popolazioni rom d’Europa non comprendono un’unica nazione basata su un territorio condiviso e neppure su una lingua comune. Per alcuni versi il loro carattere è simile alla posizione degli Ebrei europei nella società feudale che, svolgendo un ruolo economico come commercianti e prestatori di denaro, costituivano un “popolo-classe” secondo l’analisi del trotskista Abram Léon. Anche se i rom sono stati ancor più socialmente emarginati, entrambi condividono una lunga storia di brutali violenze e di odio.

Nel difendere i rom dallo Stato capitalista e dalle squadracce fasciste, noi cerchiamo di mobilitare la classe operaia affinché esiga il riconoscimento delle loro lingue, dei loro dialetti e della loro cultura; affinché difenda il diritto dei rom, sia nomadi che sedentari, all’uguaglianza nell’istruzione, nell’edilizia abitativa e nelle condizioni di lavoro; e affinché rivendichi i pieni diritti di cittadinanza per i rom, dovunque essi vivano. In definitiva, soltanto la rivoluzione socialista renderà possibile la completa e volontaria assimilazione dei rom nella società europea, con pieni ed eguali diritti. Tale fu la prospettiva aperta in Russia dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 diretta dal Partito bolscevico.

La prospettiva dell’emancipazione

Le migrazioni di rom in quello che sarebbe infine diventato il territorio dell’Unione Sovietica avvennero in differenti periodi della storia. Nel X secolo un popolo rom conosciuto come Liuli incominciò a spostarsi in un’area dell’Asia centrale che sarebbe poi diventata parte dell’Impero zarista per sfuggire agli attacchi dei musulmani al loro territorio originario, nell’India settentrionale. Agli inizi del XV secolo i rom si spostarono in Ucraina. Successivamente, in quello stesso secolo, la persecuzione in Germania costrinse i rom a migrare in Polonia e in Lituania, dove i funzionari polacchi chiesero che venissero espulsi. La Russia si annetté quei territori nel XVIII secolo.

In un lavoro del 1931 intitolato Tsygane vcera i segodnia (I rom ieri e oggi), Aleksandr V[jaceslavovic] Germano, il principale scrittore e intellettuale rom dell’Unione Sovietica, riassunse la storia dei rom europei come una cronaca insanguinata di persecuzione e di alienazione. I rom furono messi al rogo, impiccati, massacrati ed esiliati. Il fatto che gli abitanti dei villaggi e i funzionari li relegassero a vivere temporaneamente nelle aree periferiche rafforzò il loro nomadismo come modo di vita. Ridotti alla condizione di paria, molti rom furono costretti alla schiavitù o al servaggio, e questo determinò la loro arretratezza culturale e la loro esclusione politica.

Nella Russia zarista i rom vennero sottoposti a misure poliziesche e a leggi discriminatorie. Alla metà del XVIII secolo l’imperatrice Elisabetta pubblicò un decreto che proibiva ai rom di entrare nella capitale San Pietroburgo e nei suoi dintorni. Nel 1783 il Senato cercò di impedire ai rom di trasferirsi da un proprietario terriero all’altro. E in seguito decretò che i rom nomadi sarebbero stati sottoposti a sorveglianza e rispediti nelle loro zone di provenienza.

Alcuni rom russi poterono godere di una prosperità e di una stabilità relative perché facevano parte delle corali rom, che erano popolari tra la nobiltà finché tale classe non fu annientata dalla rivoluzione russa. Tuttavia gli anni del declino dell’autocrazia zarista coincisero anche con una crescente oppressione dei rom. Nel 1906, ad esempio, il regime zarista e diversi altri governi europei sottoscrissero con la Prussia un accordo per perseguitare le popolazioni rom nomadi.

Comprendendo che le classi dominanti capitaliste fomentano il razzismo e il nazionalismo per dividere e indebolire i lavoratori di diverse estrazioni e per mantenere così strettamente il proprio potere, i bolscevichi si opposero irreconciliabilmente alle persecuzioni degli ebrei e ad ogni oppressione nazionale, religiosa ed etnica. La “Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia”, adottata poco tempo dopo la Rivoluzione d’Ottobre, proclamò “il diritto dei popoli della Russia alla libera autodeterminazione” e “l’abolizione di tutti i privilegi e le discriminazioni nazionali e nazionalreligiose”. La dichiarazione impegnava lo Stato operaio a garantire “il libero sviluppo delle minoranze nazionali e dei gruppi etnografici [narodnost’] che abitano il territorio della Russia”.

Animato dal programma bolscevico di lotta contro lo sciovinismo nazionale e di unione degli operai di tutto il mondo contro il sistema capitalista-imperialista, lo Stato sovietico delle origini compì uno sforzo eroico per portare ai popoli rom il progresso, la modernità e la libertà. Come ha osservato lo storico David M. Crowe nel suo A History of the Gypsies of Eastern Europe and Russia ([St. Martin’s Press, New York] 1994):

“Gli anni Venti videro una sorta di Rinascimento rom affondare le radici nell’Europa orientale e in Russia, mentre gli intellettuali rom si battevano per ritagliare ai rom una nicchia all’interno delle nuove nazioni. Per quanto ammirevoli fossero i loro sforzi di creare delle organizzazioni e di pubblicare dei lavori in romanes, essi vennero resi vani tanto dall’inesperienza e dalla mancanza di un sostegno finanziario quanto dal pregiudizio e dall’indifferenza secolari. Le conquiste più notevoli e durature per i rom avvennero nel nuovo Stato russo sovietico”.

Anche se nella Russia sovietica i rom avrebbero compiuto dei passi in avanti in maniera inimmaginabile nel mondo capitalista, i loro progressi vennero anche circoscritti e in parte capovolti sotto il dominio della burocrazia stalinista che assunse il controllo politico nel 1923-24. Mentre i bolscevichi sotto V.I. Lenin e Lev Trotsky avevano sostenuto l’uguaglianza di tutte le nazioni e di tutte le lingue come parte del loro programma di rivoluzione socialista mondiale, il regime di Stalin sarebbe stato sempre più contrassegnato dallo sciovinismo grande-russo mentre propugnava il dogma nazionalista e antimarxista della “costruzione del socialismo in un paese solo”. Proprio nel 1922 era stato l’attacco di Stalin contro i diritti nazionali dei georgiani ad indurre Lenin a chiedere la sua destituzione da Segretario Generale del partito comunista.

È necessario capire che, nonostante la controrivoluzione politica, l’Unione Sovietica rimase uno Stato operaio. Seppur distorta dal dominio di una burocrazia privilegiata e sottoposta alle immense pressioni delle potenze imperialiste ostili, l’economia collettivizzata e pianificata determinò enormi progressi sociali per i popoli sovietici, e soprattutto per quelli più arretrati, come in Asia centrale. Nella sua analisi pionieristica dell’Unione Sovietica sotto Stalin, Trotsky osservò ne La rivoluzione tradita (1936):

“È vero che nella sfera della politica nazionale, così come in quella dell’economia, la burocrazia sovietica continua ancora a realizzare una certa parte del lavoro progressivo, anche se con spese generali eccessive. Ciò vale soprattutto per le nazionalità arretrate dell’Unione [Sovietica], che debbono necessariamente passare attraverso un periodo più o meno prolungato di presa a prestito, di imitazione e di assimilazione dell’esistente”.

La lotta per la diffusione della cultura

Dalle campagne di sedentarizzazione fino all’educazione dei bambini rom nella loro lingua e alla creazione di stimolanti istituzioni culturali, negli anni che seguirono la rivoluzione bolscevica i rom compirono dei progressi veramente sostanziali. Tra i principali catalizzatori di questa trasformazione sociale vi fu un gruppo di attivisti rom i cui sforzi sono documentati in un recente volume della ricercatrice universitaria del Brooklyn College Brigid O’Keeffe intitolato New Soviet Gypsies. Nationality, Performance and Selfhood in the Early Soviet Union ([University of Toronto Press, Toronto] 2013). Eredi dell’intelligencija rom prerivoluzionaria di Mosca, che era sorta nelle corali rom, quei giovani combattivi furono stimolati dal fervore rivoluzionario di cui era imbevuta la Russia sovietica delle origini.

Un dirigente importante di questo lavoro fu I[van] I[vanovic] RomLebedev, che nel 1923, insieme ai suoi amici, organizzò a Mosca una cellula della Lega comunista della gioventù (Komsomol) per i rom, allo scopo di promuovere la diffusione della cultura e di combattere la chiromanzia, la mendicità e altre pratiche nemiche del lavoro produttivo. Con l’aiuto del loro sindacato, i giovani crearono nel Parco Petrovskij un “angolo rosso” pieno di libri e di giornali, mirando a trasformare i rom in cittadini sovietici coscienti. Un anno dopo i compagni del Komsomol parteciparono alla formazione di un Comitato d’azione dei membri fondatori della società proletaria rom, la quale comprendeva tre attivisti che avevano servito nell’Armata Rossa, tre membri del partito comunista e tre membri del Komsomol.

Nel luglio 1925 il Comitato d’azione ricevette dal Commissariato del popolo agli affari interni (Nkvd) l’approvazione a formare l’Unione rom panrussa (Uzp). Un anno dopo la sua fondazione, l’influenza dell’Uzp si era estesa molto al di là della provincia di Mosca, portando alla formazione di gruppi affiliati a Leningrado, Cernigov, Vladimir e Smolensk. Nel frattempo nella sede moscovita dell’Uzp incominciarono a giungere lettere di rom provenienti da tutta l’Unione Sovietica, e agli inizi del 1926 la stessa Uzp dichiarò di avere 330 membri.

La prima fattoria collettiva rom dell’Unione Sovietica venne creata nel 1925 a Rostov da un gruppo di rom che avevano fornito cavalli all’Armata Rossa durante la Guerra Civile. Poco tempo dopo l’Uzp lavorò insieme al Commissariato del popolo all’agricoltura e al Dipartimento delle nazionalità del Comitato esecutivo centrale panrusso per creare la Commissione per l’insediamento dei rom lavoratori, mirante a incoraggiare i rom ad abbandonare il nomadismo. Di lì a poco i rom iniziarono a stabilirsi sulle terre a loro riservate da ciascuna Repubblica sovietica. Si stima che tra il 1926 e il 1928 cinquemila rom si siano insediati nelle fattorie in Crimea, in Ucraina e nel Caucaso settentrionale. Questa cifra era relativa ad un totale di popolazione rom stimato tra 61mila e 200mila individui, comprendente i rom nomadi e quelli che si erano stabiliti nelle città e nelle aree periferiche.

Nonostante gli sforzi dello Stato e degli attivisti militanti, molti rom si opposero al trasferimento nelle terre statali. Oltre ad essere atomizzate e prevalentemente analfabete, le masse rom, avendo subito secoli di brutale oppressione e di ostracismo, diffidavano dell’autorità. Non diversamente dalle comuniste che indossavano il velo per portare il messaggio emancipatore dei bolscevichi alle donne dell’Oriente musulmano, gli attivisti dell’Unione rom si recarono tra i rom per conquistarli. Un manifesto murale scritto sia in russo che in romanes spiegava gli sforzi sovietici per liberare dall’arretratezza i popoli minoritari del vecchio impero. Esso dichiarava che, mentre gli Zar avevano oppresso i nomadi imprigionandoli nella irrazionalità e nell’alienazione, adesso le tribù nomadi, con l’aiuto del potere sovietico, “stanno iniziando a stabilirsi sul territorio e a intraprendere l’agricoltura. Hanno la propria terra, la propria fattoria, le foreste, i villaggi e le proprie scuole.”

Fu infatti nella sfera dell’istruzione che i rom conseguirono alcune delle loro conquiste più impressionanti. Un decreto del Commissariato del popolo all’istruzione (Narkompros), datato 31 ottobre 1918 e intitolato “A proposito delle scuole per le minoranze nazionali”, affermò che i rom, come tutte le nazionalità sovietiche, avevano il diritto di essere educati nella loro lingua nativa. Nel gennaio 1926 furono create a Mosca le prime classi in lingua romanes dell’Unione Sovietica, all’interno delle scuole elementari russe esistenti. Agli studenti venivano insegnati la lettura, la scrittura, l’aritmetica, il disegno, le arti applicate, la musica, l’educazione fisica, la storia e l’educazione civica, e furono fatti degli sforzi per creare dei centri di alfabetizzazione per gli adulti. Delle scuole in lingua romanes sarebbero state impiantate anche nelle fattorie collettive in cui i rom si erano stabiliti.

Gli insegnanti si batterono anche con coraggio per insegnare un’altra materia: l’igiene. Sia all’interno che al di fuori delle aule scolastiche, ai bambini rom e ai loro genitori veniva insegnata l’importanza di lavarsi, di spazzolarsi i denti e di pettinarsi i capelli. Il Dipartimento dell’istruzione di Mosca era allarmato dall’alto tasso di denutrizione e dalla diffusione di malattie come l’anemia, la tubercolosi e la febbre tifoide tra i bambini rom. Ma la trascuratezza delle norme igieniche fondamentali non si limitava affatto ai rom; essa rifletteva i bisogni materiali e l’ignoranza generalizzati che pervadevano la Russia sovietica delle origini, una società prevalentemente agricola che aveva ereditato secoli di arretratezza.

In mancanza di insegnanti di lingua romanes e persino di un alfabeto romanes, l’insegnamento agli scolari venne inizialmente impartito in russo. Per superare tali ostacoli, gli attivisti dell’Unione rom, insieme ad un linguista dell’Università statale di Mosca, condussero una campagna per creare un alfabeto romanes e per standardizzare la lingua. Un decreto del Narkompros del maggio 1927 stabilì che il nuovo alfabeto fosse basato sui caratteri cirillici con alcune modifiche, rompendo con la prassi sovietica precedente che consisteva nello sviluppare nuovi alfabeti come quello turkmeno, basato sui caratteri latini.

In breve tempo vennero pubblicati i primi libri di testo in romanes. Nel novembre 1927 fu avviata la pubblicazione di una rivista in romanes, Romany Zorja (L’Alba rom), seguita dal Nevo drom (La nuova strada), un manuale di lettura destinato agli adulti. La prima grammatica romanes destinata alle classi rom, Tsyganskij jažik (La lingua rom), apparve nel 1931, mentre alla fine degli anni Trenta venne pubblicato un dizionario romanes-russo di 10mila vocaboli. La O’Keeffe afferma che: “Sebbene quasi tutte le iniziative educative rivolte ai rom sovietici avessero avuto fine alla vigilia della Seconda guerra mondiale, molti studenti rom erano già emersi dall’educazione pratica e politica ricevuta alla fine degli anni Venti e negli anni Trenta come cittadini sovietici istruiti e integrati.”

Parallelamente alla battaglia per l’istruzione dei rom vi fu la lotta per assimilare i rom nella classe operaia, che a Mosca sfociò nella creazione di varie artel’ (cooperative) industriali. Nel 1931 esistevano nella capitale 28 artel’ rom che occupavano 1350 operai. Un aspetto cruciale è che due tra le prime e più prospere di esse, la Tsygchimprom (Manifattura chimica rom) e la Tsygpišceprom (Produzione alimentare rom) non impiegavano esclusivamente dei rom. Alla Tsygpišceprom i rom lavoravano fianco a fianco con operai di almeno altre undici nazionalità.

Nonostante i modesti progressi, il Consiglio dei commissari del popolo e altri organismi dirigenti sovietici divennero scettici riguardo all’Unione rom. Nel marzo 1927 l’Ispettorato operaio e contadino della Commissione di controllo di Mosca effettuò un’ispezione a sorpresa presso l’Uzp e concluse che la sua direzione era infestata di profittatori, prestanome e impiegati, e che i suoi membri erano principalmente degli speculatori sul mercato dei cavalli e altri elementi non proletari. Come reazione, i dirigenti dell’Unione rom protestarono perché il loro lavoro era stato ostacolato da funzionari statali scettici, intolleranti e diffidenti.

Quando l’Uzp venne sciolta nel febbraio 1928, il Nkvd dichiarò che essa aveva fallito nell’adottare dei provvedimenti concreti per combattere “la chiromanzia, la mendicità, il gioco d’azzardo, l’ubriachezza e altre particolarità della popolazione rom”. A parte il fatto che simili mali sociali non costituivano unicamente delle “particolarità rom”, il loro sradicamento avrebbe richiesto, in circostanze materiali migliori, anni e anni di lotta; figuriamoci nelle condizioni arretrate allora prevalenti nella Russia sovietica! Nonostante lo scioglimento dell’Uzp, i suoi membri avrebbero giocato un ruolo importante nella vita sovietica, contribuendo al risveglio culturale dei rom alla fine degli anni Venti e nei primi anni Trenta.

L’attacco ai diritti dei rom

Ai rom non sarebbero stati risparmiati i massici rivolgimenti sociali che accompagnarono il primo Piano quinquennale e la campagna di collettivizzazione forzata dell’agricoltura varati alla fine degli anni Venti. Mentre Trotsky e l’Opposizione di sinistra si erano battuti per un’industrializzazione pianificata e per una collettivizzazione agricola volontaria allo scopo di rafforzare l’economia socializzata dell’Urss, il regime di Stalin e di Nikolaj Bucharin incoraggiò i kulaki (contadini ricchi) ad arricchirsi. Nel 1928 la crescente consapevolezza dei kulaki era diventata un’arma puntata contro lo Stato operaio, come evidenziato dal loro blocco delle forniture di grano alle città, che poneva la minaccia di una carestia. La burocrazia si volse allora improvvisamente contro i kulaki. Non avendo predisposto nessuna base tecnica o economica, lo Stato sovietico, con la brutalità caratteristica di Stalin, incominciò a collettivizzare i contadini e introdusse un tasso di industrializzazione avventuristico. Quella svolta sventò la minaccia immediata di una restaurazione capitalista nell’Urss.

In mezzo al caos che ne seguì, migliaia di rom fuggirono nei centri urbani già sovrappopolati. Tra di loro vi furono molti rom vlax, un popolo che era immigrato in Russia dalla Romania e dall’Impero austro-ungarico alla fine del XIX e agli inizi del XX secolo. A differenza dei relativamente integrati rom russka, spesso i rom vlax non parlavano il russo. Allora, non avendo altra scelta se non quella di piazzare abusivamente degli accampamenti di tende alla periferia di Mosca, essi vennero considerati dalle autorità come degli “stranieri”. Dal 28 giugno al 9 luglio 1933 la polizia segreta radunò 1008 famiglie rom a Mosca 5470 persone in totale e le deportò nei campi di lavoro della Siberia occidentale.

Tali deportazioni coincisero con gli attacchi al diritto dei rom di venire educati nella propria lingua. Nel 1932 erano stati avviati, presso l’Istituto centrale per la promozione dei quadri con un’istruzione qualificata (Cipkkno) di Mosca, i primi corsi di formazione degli insegnanti per i rom. Otto mesi dopo 15 studenti si erano diplomati e attendevano di essere assegnati alle scuole in tutta la vasta estensione dell’Unione Sovietica. Nel giro di poco tempo, però, alcuni degli studenti incominciarono a lamentarsi a proposito delle discriminazioni nelle assunzioni. Come risposta, il Cipkkno mise fine al programma. Seguirono altri casi di discriminazione e di proteste degli studenti rom. Alla fine, nel gennaio 1938, il regime pubblicò il decreto “A proposito della liquidazione delle scuole nazionali e dei dipartimenti nazionali in seno alle scuole”, che portò alla fine dell’istruzione in romanes. Il decreto comportò anche la fine della scolarizzazione in assiro, estone, finlandese, polacco, cinese e in diverse altre lingue.

A quell’epoca la burocrazia manifestava sempre di più il nazionalismo inerente alla sua dottrina del “socialismo in un paese solo”. Dopo l’ascesa dei nazisti al potere in Germania, che costituiva un pericolo imminente per l’Unione Sovietica, gli stalinisti adottarono nel 1935 la politica del Fronte popolare, ingiungendo ai partiti comunisti di appoggiare politicamente e talvolta anche di entrare nei governi capitalisti “progressisti” che si presumeva fossero amichevoli nei confronti dell’Urss. La rinuncia esplicita degli stalinisti alla necessità di rivoluzioni operaie all’estero per estendere il dominio proletario ai paesi capitalisti economicamente avanzati andò di pari passo con la loro adozione, in patria, del nazionalismo putrido che la rivoluzione bolscevica aveva respinto fin dai suoi primi passi.

La rappacificazione con l’imperialismo servì soltanto ad indebolire lo Stato operaio di fronte ai suoi nemici di classe. Quando la Germania invase l’Unione Sovietica nel giugno 1941, l’esistenza stessa dello Stato operaio venne messa in questione. Mentre si opponevano a tutte le potenze imperialiste in guerra, i trotskisti chiamarono il proletariato sovietico e gli operai di tutto il mondo a combattere in difesa dell’Unione Sovietica in quell’ora di pericolo. Nel frattempo il regime stalinista, inchinandosi al nazionalismo russo, definì la lotta militare dell’Urss come Grande guerra patriottica.

Si stima che da 30 a 35mila rom sovietici siano stati massacrati dagli invasori nazisti durante il Porrajmos (l’olocausto rom). I rom sovietici fecero la loro parte nel combattere e, alla fine, nello sconfiggere il flagello fascista. Il Teatro Romen di Mosca, il primo teatro professionale rom del mondo, mise in scena delle rappresentazioni per l’Armata Rossa, mentre alcuni dei membri della sua troupe si arruolarono come soldati. Dei rom fecero anche parte delle unità partigiane sovietiche in Bielorussia e in Ucraina, il che indusse i capi della polizia militare tedesca ad esigere la spietata esecuzione delle bande zingare sospettate di appoggiare i partigiani.

Nonostante il dominio burocratico, negli anni successivi alla guerra i rom sovietici raggiunsero un alto livello di assimilazione e di sviluppo culturale. David M. Crowe cita un’osservazione dello studioso dei rom Lajko Cerenkov risalente ai primi anni Settanta del secolo scorso:

“Nell’Urss odierna è raro incontrare un rom che non sappia leggere e scrivere, mentre prima della guerra tra certi gruppi [rom], ad esempio quelli della Bessarabia, nessuno era in grado di farlo. La maggior parte dei membri delle giovani generazioni d’oggi arrivano all’ottavo o al decimo livello scolastico e, da questo punto di vista, nelle città non c’è distinzione possibile tra i rom e le altre nazionalità”.

I rom dell’Europa orientale sotto Stalin: integrazione ai livelli inferiori

La vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista gettò le basi per il rovesciamento dei rapporti di proprietà capitalistici nell’Europa orientale e in Germania Est. Nel 1948, in virtù dell’azione delle forze sovietiche e dei partiti comunisti locali, erano stati creati degli Stati operai deformati, modellati economicamente e politicamente sull’Unione Sovietica di Stalin. Unica eccezione, lo Stato operaio deformato jugoslavo, che fu il prodotto della vittoria dei partigiani del Maresciallo Tito. La distruzione del dominio capitalista in questi Stati apportò delle conquiste significative alle popolazioni rom. Ma il loro trattamento ad opera delle burocrazie al potere fu diseguale e contraddittorio, variando da paese a paese.

Prima che il Partito comunista cecoslovacco (Ksc) assumesse il potere nel febbraio 1948, i ministri del governo di quel paese avevano adottato delle misure dure e restrittive nei confronti dei rom. Il Ksc dichiarò invece che il suo obiettivo finale era quello di integrare i rom al resto della popolazione e di elevare il loro livello economico, sociale e culturale fino a raggiungere quello degli Slavi. Ma, pur accusando giustamente i precedenti governi capitalisti di aver rafforzato il basso status sociale ed economico dei rom, inizialmente il nuovo regime comunista compì soltanto dei passi esitanti verso il miglioramento della loro situazione e verso la loro integrazione nella forza lavoro e, più in generale, nella società. Nel 1958 il governo approvò una legge che puniva i nomadi con la detenzione da sei mesi a tre anni, condannando però anche l’intolleranza razzista nei confronti dei rom.

Seppure una lotta contro il nomadismo era necessaria, la burocrazia del Ksc, come la sua organizzazione sorella moscovita, la mise in atto mediante un diktat burocratico invece di patrocinare l’assimilazione volontaria. Questo fatto non deve impedirci di vedere le conquiste fondamentali dei rom. Riconoscendo che circa il 67 percento della popolazione rom della Slovacchia, che ammontava a 153mila individui, viveva in insediamenti non adatti agli esseri umani, nel 1965 il regime del Ksc avviò un programma per demolire le abitazioni di qualità inferiore alla norma, per reinsediare i rom nei territori cèchi più prosperi e per fornire loro sussidi e prestiti per acquistare nuove case. La politica di reinsediamento continuò per tutti gli anni Settanta, determinando un eccezionale miglioramento delle condizioni di vita dei rom. Nel 1980 oltre il 70 percento dei rom viveva in appartamenti, mentre la percentuale di coloro che vivevano in abitazioni inadeguate era calata, dall’80 percento di un decennio prima, al 49 percento.

Dei progressi furono anche compiuti nel settore dell’istruzione. Dal 1971 al 1980 la percentuale di bambini rom che ultimavano la scuola pubblica aumentò dal 16,6 al 25,6 percento, mentre il numero di coloro che frequentavano i collegi universitari e le facoltà crebbe da 39 a 191. Nello stesso periodo i tassi di alfabetizzazione degli adulti schizzarono al 90 percento. Nel frattempo, all’inizio degli anni Ottanta, oltre quattro quinti dei rom lavoravano nell’industria.

Ma queste conquiste comportarono un prezzo da pagare. Il programma di reinsediamento era finanziato in modo inadeguato e alimentò anche un crescente risentimento nei confronti dell’arrivo dei rom nei territori cèchi. Poi nel 1972 il governo di Gustáv Husák infiammò i sentimenti razzisti approvando un decreto che incoraggiava le donne rom a farsi sterilizzare. Il pretesto per questa campagna cinica e vergognosa era il numero presuntamente “malsano” della popolazione rom. Pur rappresentando uno dei maggiori gruppi rom dell’Europa orientale, nel 1980 i rom cecoslovacchi ammontavano a meno del 2 percento della popolazione del paese.

Più arretrata e povera della relativamente industrializzata Cecoslovacchia, e con soltanto un minuscolo partito comunista nel periodo prebellico, la prevalentemente rurale Romania fu di gran lunga meno ospitale con i suoi cittadini rom. Fin dal XII secolo i rom iniziarono ad arrivare in quelli che sarebbero diventati i principati danubiani della Valacchia e della Moldavia, regioni che entrarono infine a far parte della moderna Romania. Sul finire del XIV secolo le famiglie rom erano state schiavizzate dai monasteri locali, avviando così una secolare caduta in schiavitù che avrebbe avuto fine soltanto nel 1864. Sebbene la vita fosse migliorata dopo l’emancipazione, i rom rimasero dei poveri paria, oppressi dai proprietari terrieri boiardi e invisi ai contadini poveri. I rom caddero anche vittima dell’indifferenza governativa e dell’aperto terrore razzista. Nel 1941 il dittatore Ion Antonescu propugnò l’eliminazione delle minoranze nazionali. Alleato della Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale, egli presiedette al massacro di decine di migliaia di rom, molti dei quali furono vittime della Guardia di ferro fascista.

Sotto il capo stalinista Gheorghe Gheorghiu-Dej la Romania si impegnò a rispettare i diritti educativi, linguistici e culturali delle nazionalità del paese. Tuttavia l’istruzione rimase un qualcosa di elusivo per ampie fasce della popolazione rom, malgrado la sua crescente urbanizzazione. Mentre circa il 43 percento dei rom di età superiore agli otto anni risultava iscritto alle scuole primarie nel 1956, la loro scolarizzazione al di sopra di tale livello era trascurabile. E nel 1966 soltanto un rom romeno frequentava un’università!

Negli anni Cinquanta e Sessanta il regime di Gheorghiu-Dej adottò alcune misure per far fronte all’alto tasso di analfabetismo tra i rom. Uno studio effettuato nel 1983 sotto il governo di Nicolae Ceausescu si spinse oltre, definendo gli obiettivi per porre riparo ai molti problemi che affliggevano la popolazione rom, dall’analfabetismo, dai pessimi alloggi, dalla disoccupazione e dalla criminalità fino alla mancanza di igiene, agli alti tassi di mortalità infantile e al prevalere delle malattie veneree, della febbre tifoide e della tubercolosi. Una legge speciale sottolineò la necessità di trovare dei posti di lavoro per i rom nell’edilizia e nell’agricoltura, e diede mandato ai funzionari pubblici di aiutarli a costruirsi delle case. Ma sotto il folle Ceausescu, la cui indipendenza dal Cremlino gli conquistò il plauso degli Usa e di altre potenze imperialiste, il regime sottrasse allo Stato le risorse necessarie all’edilizia, all’istruzione e alle cure mediche per i rom, spendendo miliardi per estinguere il debito contratto dal paese con i banchieri stranieri.

Mentre il popolo lavoratore della Romania fronteggiava un immiserimento crescente, gli stalinisti si crogiolavano nel nazionalismo romeno, con conseguenze particolarmente atroci per i rom e per la minoranza ungherese. Nel 1966 il governo emanò un decreto che vietava l’aborto alle donne di età inferiore ai 45 anni che non avevano ancora partorito quattro figli, un colpo enorme per le famiglie più povere e più numerose. Nel 1989 si seppe che a causa di questa politica ignobile gli orfanotrofi erano strapieni, con oltre centomila bambini, una percentuale sproporzionata dei quali erano rom. Il regime di Ceausescu effettuò anche dei reinsediamenti forzati. Pur prendendo principalmente di mira la popolazione ungherese, tale politica portò alla distruzione di interi quartieri rom, reinsediando forzosamente i loro abitanti in grandi palazzine spesso situate nei ghetti urbani.

Come ha osservato l’esperto sui rom ungheresi István Kemény, all’inizio degli anni Settanta i rom erano stati in un certo senso integrati, ma “proprio in fondo alla gerarchia sociale” (citato da D.M. Crowe, op. cit.). In una misura o nell’altra, quest’affermazione descrive adeguatamente la posizione dei rom nello Stato operaio degenerato e in tutti gli Stati operai deformati.

La controrivoluzione: una catastrofe per gli operai e le minoranze

Gli sforzi sporadici e contraddittori compiuti dai regimi stalinisti per assimilare i rom e per promuovere un clima di piena uguaglianza si arenarono tra la penuria materiale e le scosse dell’economia. Questi stessi mali derivavano dalla produttività relativamente bassa degli Stati operai governati burocraticamente e dal loro accerchiamento ostile da parte dei paesi imperialisti, economicamente più forti. Quando la crisi terminale dello stalinismo colpì l’Europa orientale e centrale nel 1989-92, la Lega comunista internazionale si batté, al meglio delle proprie capacità e risorse, per forgiare i partiti rivoluzionari necessari a vincere la battaglia contro la controrivoluzione capitalista e per la rivoluzione politica proletaria contro le burocrazie in via di disintegrazione. Tuttavia gli operai, la cui coscienza era stata avvelenata da decenni di malgoverno stalinista, non furono in grado di reagire in maniera decisiva alla controrivoluzione, e questo portò al rovesciamento di quegli Stati operai.

Durante i nostri interventi negli avvenimenti in Germania Est e nell’Unione Sovietica, mettemmo ripetutamente in guardia sul fatto che la restaurazione capitalista avrebbe riportato in auge tutta la vecchia merda della reazione sociale contro le donne, gli ebrei, gli immigrati, le minoranze etniche e le nazionalità oppresse. Nel 1990, in Cecoslovacchia, gli skinhead fascisti incominciarono a prendere di mira i rom e gli operai immigrati vietnamiti. In Romania, dopo il rovesciamento e l’esecuzione di Ceausescu nel dicembre del 1989, i pogrom contro i rom diventarono all’ordine del giorno. Con il governo e i mass media in prima fila, i rom romeni vennero etichettati come “una piaga sociale” e come “la feccia della società”, riecheggiando le farneticazioni di Hitler contro gli ebrei.

Privati di una direzione rivoluzionaria, molti operai furono sensibili a tale veleno. Nell’articolo “East Europe: Reaction and Resistance” (Workers Vanguard, n. 505, 29 giugno 1990) riferimmo di una mobilitazione di massa di minatori romeni che a Bucarest aveva ridotto al silenzio dei controrivoluzionari, ma successivamente alcuni minatori infettati dal veleno razzista incominciarono ad attaccare i quartieri rom.

Dai Balcani al Baltico e nella stessa Russia, il profluvio nazionalista che aveva contribuito a distruggere gli Stati operai raggiunse un sanguinoso punto culminante sulla scia di quella sconfitta. I rom vennero ovunque braccati, attaccati e costretti a fuggire per salvarsi la vita. Come ha osservato Isabel Fonseca nel suo libro Bury Me Standing. The Gypsies and Their Journey ([Alfred A. Knopf, New York] 1995): “Il cambiamento più drammatico dopo le rivoluzioni del 1989 è stato, per i rom dell’Europa centrale e orientale, il brusco incremento dell’odio e della violenza nei loro confronti. Nella sola Romania si sono verificati oltre trentacinque gravi attacchi agli insediamenti, principalmente in zone rurali remote e perlopiù sotto forma di incendi e di percosse.” Non c’è da stupirsi se alcuni rom che nel 1991 parlarono con la Fonseca nella città di Costanza guardassero favorevolmente alla vita sotto Ceausescu.

L’ondata di violenza, combinata con la profonda povertà dei rom, ne ha costretti decine di migliaia a scappare in Germania. Una volta giunti in quel paese, i rom disperati furono attaccati dalle ululanti squadracce neonaziste, che diedero fuoco alle loro case mentre la polizia se ne stava a guardare. Nel settembre 1992 il governo della Germania capitalista riunificata arrivò al punto di sottoscrivere con la Romania un accordo per deportare i romeni (principalmente rom) rispedendoli indietro nel loro paese d’origine.

In un articolo pubblicato in Women and Revolution (n. 38, inverno 1990-91), e intitolato “Fourth Reich Racism Targets Immigrants. Stop Persecution of Gypsies!”, noi suonammo l’allarme spiegando che i rom “fuggono dall’Europa orientale perché temono per le loro vite”. L’articolo proseguiva:

“Essi sono le vittime numero uno del profluvio di multiforme razzismo omicida che sta sommergendo l’Europa orientale dopo il crollo dei regimi stalinisti e dopo il tuffo in un’economia di mercato incontrollata. Gli ideologi borghesi proclamano a gran voce la ‘morte del comunismo’, ma il ritorno allo sfruttamento capitalista ha portato con sé il risorgere di tutta la feccia assassina nazionalista, antisemita e anticomunista che aveva dominato questa regione prima della vittoria dell’Armata Rossa nel 1945”.

Per gli Stati uniti socialisti d’Europa!

La Lci si è battuta fino all’ultimo per difendere le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre contro la restaurazione capitalista. Praticamente tutti i nostri oppositori di sinistra sono invece accorsi in appoggio alle forze della controrivoluzione in nome della “democrazia”, della “libertà” o dell’”indipendenza nazionale”. Oggi alcuni di questi gruppi si lamentano del fatto che nell’Europa post-controrivoluzionaria i rom vengano maltrattati. Un esempio in tal senso ci viene fornito dalla Sozialistische Alternative (Sav), la sezione tedesca del Committee for a Workers’ International (Cwi, Comitato per un’Internazionale dei Lavoratori) di Peter Taaffe, del quale fa parte la Socialist Alternative statunitense. Nella seconda parte di un articolo sui rom apparso sul sito sozialismus.info (4 febbraio 2013), la Sav scrive quanto segue a proposito del periodo successivo alla restaurazione capitalista in Europa orientale:

“Per la maggior parte, i rom sono stati i primi ad essere licenziati perché, in generale, erano meno istruiti e possedevano un livello più basso di scolarizzazione. La maggior parte dei rom non ha ottenuto nulla dalle benedizioni del capitalismo ed essi sono quindi stati tra i primi e maggiori perdenti in questa trasformazione. Per necessità, dunque, molti di loro si sono nuovamente rivolti sempre di più alle proprie strutture familiari. Il fatto che vi siano dei rom costretti a razzolare nell’immondizia o a diventare dei criminali per mantenersi non è colpa loro. No, è colpa del sistema economico capitalista, che si dimostra incapace di garantire loro un livello di vita adeguato”.

Se ci basassimo unicamente su queste altisonanti banalità non sapremmo mai che nel 1991 il gruppo russo affiliato al Cwi salì sulle barricate di Boris Eltsin, mentre quel controrivoluzionario appoggiato dagli Usa guidava l’assalto finale contro lo Stato operaio nato dalla Rivoluzione d’Ottobre. Né che le sezioni del Cwi hanno contribuito ad attizzare le fiamme del fanatismo razzista in casa loro. Nel 2009 i seguaci britannici di Taaffe giocarono un ruolo rilevante in uno sciopero reazionario di lavoratori edili, nella raffineria petrolifera di Lindsey, contro l’assunzione di operai provenienti da altri paesi dell’Ue. Riassunto nella parola d’ordine: “Il lavoro britannico agli operai britannici”, che venne sbandierata durante lo sciopero, questo veleno viene adesso somministrato soprattutto agli immigrati bulgari e romeni, compresi molti rom.

Come riferisce la Spartacist league/Britain nell’articolo “Ue Austerity Fuels Racism. Irish State Abductions of Roma Children” (Workers Hammer, n. 225, inverno 2013-14), le precedenti limitazioni dei tipi di lavoro che i cittadini bulgari e romeni potevano svolgere in Gran Bretagna, paese che essi possono visitare senza visto in quanto cittadini dell’Ue, sono scadute il 1° gennaio. Man mano che tale scadenza si avvicinava, il governo a guida Tory ha introdotto una moltitudine di provvedimenti che limitano i diritti dei bulgari e dei romeni di ottenere il sussidio di disoccupazione e i benefici abitativi. Il Labour Party, che era stato l’autore delle restrizioni lavorative, ha replicato che queste misure razziste giungevano troppo tardi!

I governanti dei colossi dell’Ue, la Germania e la Francia, insieme a quelli dei paesi dipendenti come la Grecia, che si stanno logorando sotto i dettami dei banchieri imperialisti, utilizzano i rom e altri immigrati disperati come capri espiatori per la disoccupazione di massa, l’austerità, la miseria e altri mali generati dal sistema capitalista stesso. Soltanto il rovesciamento del dominio capitalista attraverso una rivoluzione operaia può sbarazzare il continente da questi mali, spianando la strada agli Stati Uniti socialisti d’Europa in cui tutti i popoli avranno un posto libero ed eguale.

Per raggiungere questo obiettivo, la Lci si batte per costruire dei partiti operai internazionalisti rivoluzionari la cui missione consiste nell’infondere nel proletariato la consapevolezza di essere il becchino storico del sistema capitalista. Come scrisse Lenin nel Che fare? (1902), i socialisti rivoluzionari debbono agire come “il tribuno del popolo, che sa reagire a ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa avvenga e qualunque classe o strato essa colpisca, che sa generalizzare tutte queste manifestazioni in un solo quadro della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico, (…) per spiegare a tutti il significato storico mondiale della lotta emancipatrice del proletariato” (corsivi nell’originale). Mentre la rabbiosa repressione statale e gli attacchi sotto forma di pogrom dilagano in Europa, la difesa dei rom e di tutti gli immigrati costituisce un compito chiave immediato del movimento operaio.

[Tradotto da Workers Vanguard, n. 1037, 10 gennaio 2014 (Traduzione italiana di Paolo Casciola). Abbiamo deciso di non utilizzare il termine “zingaro” come traduzione di gipsy, per le connotazioni razziste assunte da questa parola, usando invece l’etnonimo “rom”, accomunando le popolazioni rom, sinti e affini, pur essendo consapevoli del fatto che la cosa non è rigorosamente corretta.]