Spartaco n. 76 |
Ottobre 2012 |
La guerra civile in Siria: un lascito del divide et impera imperialista
Questo resoconto, adattato per la pubblicazione, è stato presentato lo scorso luglio da un compagno della Lci come contributo alla discussione nel partito.
La Prima guerra mondiale non era ancora finita, che già gli imperialisti britannici e francesi, con l’assenso della Russia zarista, si spartivano il bottino della loro imminente vittoria sull’Impero ottomano, alleato della Germania, in base al trattato segreto di Sykes-Picot del 1916. La sua pubblicazione da parte dello Stato operaio bolscevico, alla fine del 1917, mise in luce i complotti degli imperialisti ed ebbe un effetto elettrizzante in tutto il Medio Oriente. Nel 1919, l’Egitto fu percorso da scioperi e manifestazioni mentre in Mesopotamia (l’attuale Iraq) le masse seppero resistere a più di 130 mila soldati britannici mandati a occupare il paese.
Finché non fu smembrata dalla spartizione del Medio Oriente, la vasta regione che per secoli era stata conosciuta come Bilad al-Sham (i territori di Damasco), o la “Grande Siria”, comprendeva la Siria, la Giordania, il Libano e la Palestina. Pur non essendo mai stata un’entità politicamente unita, i suoi abitanti la consideravano come un insieme culturalmente omogeneo, con forti legami economici. Contro la volontà dei suoi abitanti, che si opposero con forza al trattato di Sykes-Picot, chiedendo una Siria-Palestina unita, i francesi s’impadronirono di Siria e Libano e la Gran Bretagna occupò la Giordania e la Palestina.
Nel 1920, nel tentativo di creare un’enclave filo-occidentale nel Levante, la Francia creò un’entità che ribattezzò Grand Liban, annettendo le regioni musulmane della Siria al Monte Libano. Seguendo la prassi del divide et impera, i francesi associarono i musulmani, tra i quali cresceva il nascente nazionalismo arabo, con la maggioranza cristiana maronita, in seno alla quale inculcarono il mito di un’origine non araba, destinata a guardare alla Francia come protettrice. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel disperato tentativo di persuadere la Turchia a schierarsi con gli Alleati contro la Germania, la Francia separò dalla Siria la provincia nordoccidentale di Alessandretta, cedendola alla Turchia (la Turchia si prese Alessandretta, ne ribattezzò Hatay la provincia, ma si schierò ugualmente con la Germania).
Nel corso dei secoli, le alte valli inaccessibili e i rilievi scoscesi delle coste orientali del Mediterraneo, in Siria e in Libano, diedero riparo a molte e variegate minoranze etniche e religiose, che sfuggivano dalle persecuzioni di sovrani cristiani e musulmani. Gli alawiti e gli ismailiti, entrambi di origine sciita, trovarono riparo in Siria dall’ira di una serie di successivi sovrani sunniti. I cristiani armeni si ammassarono in Siria quando i turchi selghiuchidi dell’Anatolia conquistarono il loro paese nell’Undicesimo secolo. Altre ondate giunsero secoli dopo, fuggendo dal terrore genocida dei Giovani turchi nel 1915-18. I drusi, un ramo dello sciismo sorto nel Decimo secolo, fuggivano dalle persecuzioni del califfato fatimita d’Egitto. I palestinesi in fuga dai massacri dei crociati dopo la conquista di Gerusalemme nel 1099 si stabilirono sulle pendici del Monte Qassioun. I greci ortodossi e i greci cattolici si stabilirono nella regione a seguito delle varie scissioni della Chiesa cristiana. Altre ondate di curdi e di armeni fuggirono a Sud verso la Siria, dopo la consegna di Alessandretta alla Turchia nel 1939.
La maggioranza degli abitanti della Siria (circa il sessanta percento) sono sunniti di lingua araba. Le altre principali minoranze religiose sono gli alawiti (12 percento), i cristiani, appartenenti a più di sette Chiese (14 percento), i drusi (3 percento) e gli ismailiti (1,5 percento). Le principali minoranze etniche sono i curdi (9 percento), gli armeni (4 percento), i turcomanni e i circassi. Mentre curdi, turcomanni e circassi sono quasi solo musulmani, gli armeni sono cristiani. Alawiti, drusi, ismailiti e anche i greco-ortodossi sono di lingua araba.
Le ragioni dell’ascesa degli alawiti
Gli spargimenti di sangue che segnarono tanta della storia siriana (e libanese) sono un lascito prima del potere degli ottomani e poi del dominio francese e della compenetrazione di una miriade di comunità religiose ed etniche, abbinata all’intervento imperialista, fattori che si sono sommati a ritardare lo sviluppo capitalista e a impedire il consolidamento di uno Stato moderno. Gli avvenimenti in corso in Siria sono in gran parte una continuazione degli odi reciproci (alcuni vecchi di secoli) che si sono espressi negli innumerevoli golpe e contro golpe sanguinosi e nei conflitti etnici e religiosi che sono stati un tratto distintivo della storia siriana sin dall’indipendenza del 1946.
Nell’aprile del 1964, i fondamentalisti sunniti attuarono una sommossa nella città di Hama, roccaforte del conservatorismo sunnita, saccheggiando le taverne, picchiando i membri del partito nazionalista Ba’ath e uccidendo e mutilando una guardia ismailita. Il governo rispose con brutalità, uccidendo almeno cento persone. Nel 1979 più di trenta allievi ufficiali alawiti furono assassinati in un massacro guidato da un ufficiale sunnita della Scuola di artiglieria di Aleppo. Altri omicidi di alawiti avvennero nella città di Latakia. Il governo rispose immediatamente con una campagna nazionale contro la Fratellanza musulmana.
Le violenze continuarono per tutti i primi anni Ottanta. Nel 1980 la Fratellanza musulmana cercò di assassinare Hafez al-Assad, il padre dell’attuale presidente Bashar. Assad reagì facendo uccidere a sangue freddo 500 fratelli musulmani che erano imprigionati nel carcere di Palmira. Gli scontri settari tra i fondamentalisti sunniti e il regime dominato dagli alawiti culminarono nel febbraio del 1982 nello scontro più sanguinoso della storia siriana moderna. Il governo rase al suolo la città di Hama, uccidendo un numero di sunniti stimato tra dieci e ventimila.
Ma gli scontri settari continuano. Se i media borghesi occidentali pubblicizzano la repressione del regime, delle atrocità commesse dai fondamentalisti sunniti si hanno poche o nessuna notizia. Ad esempio, il massacro di Houla a maggio, che i media descrissero come compiuto dalla milizia del regime di Assad, secondo un giornale tedesco è stato opera di forze islamiste. Nessuno può predire l’esito del conflitto, ma il destino delle minoranze religiose ed etniche è già stato stabilito dai fondamentalisti islamici, che gridano lo slogan: Al-Alawi ala taboot, wa al-Masihi ala Beirut (gli alawiti nella fossa, i cristiani a Beirut).
Gli alawiti sono membri di un ramo scismatico del tronco principale dello “sciismo duodecimane”. Come i drusi e gli ismailiti, rappresentano un relitto dell’ondata sciita che percorse il mondo islamico attorno al Nono secolo. Il nome di alawiti (cioè seguaci di Ali) è di origine recente e risale alla conquista francese dopo la Prima guerra mondiale. Prima erano conosciuti come nusayriya, dal nome del fondatore Muhammad ibn Nusayr. Gli alawiti condividono con gli altri sciiti la convinzione che Ali, cugino e genero del profeta, ne fosse il degno erede, ma che sia stato privato dell’eredità dai primi tre califfi (sovrani). Inoltre credono che Ali sia infuso di “essenza divina”.
A causa di queste e di altre credenze esoteriche, furono condannati dai sunniti come infedeli meritevoli della morte. Ibn Tymiyyah, giurista siriano del Quattordicesimo secolo e sostenitore dell’ortodossia sunnita, li condannava come più pericolosi dei cristiani. Incitando i musulmani alla guerra santa contro di loro, dichiarò che era consentito spargerne il sangue e impadronirsi dei loro averi. Erano apostati che andavano puniti e sterminati dovunque fossero. Ancora oggi questa sentenza fornisce munizioni ai loro nemici.
Nei loro insediamenti ad alta quota, tra montagne selvagge, gli alawiti, dimenticati dai sovrani ottomani, vivevano in miseria. Erano loro negate l’istruzione, il lavoro e ogni genere di servizi. Per molti secoli, intere miserabili generazioni di alawiti furono costrette dalla fame a scendere nelle pianure della Siria centrale, attorno ad Homs e ad Hama, dove lavoravano come servi e mezzadri per i ricchi proprietari terrieri sunniti. Dopo l’occupazione francese, gli alawiti (per la costernazione della maggioranza sunnita) si videro conferire vari privilegi. Insieme con le altre “minoranze affidabili” le cui ambizioni nazionaliste erano limitate, furono reclutati nelle Troupes Spéciales du Levant, usate dai francesi per sopprimere spietatamente i nazionalisti sunniti. All’indipendenza, gli alawiti erano predominanti nell’esercito. Nel 1955, era alawita più del 65 percento dei sottufficiali, vantaggio questo che gli consentì di esercitare il controllo sul partito Ba’ath e sul governo.
Il partito Ba’ath
Il partito per la rinascita (Ba’ath) socialista araba fu fondato in Siria durante l’ascesa del nazionalismo arabo e delle lotte anticoloniali degli anni Quaranta, da due insegnanti di Damasco, Michel Aflaq, un cristiano greco-ortodosso, e Salah al-Din al-Bitar, un musulmano sunnita. Il partito rivendicava l’indipendenza dal dominio straniero, la laicità e il panarabismo. Lanciò lo slogan utopico “Una nazione araba con una missione eterna”, basato sul secolare fardello di umiliazioni subite sotto il dominio degli ottomani e delle potenze coloniali.
Il partito Ba’ath stabilì progressivamente una base tra i poveri delle campagne, gli intellettuali piccolo-borghesi delle città, le minoranze religiose arabe e l’esercito. L’ideologia laica del Ba’ath attirava in particolar modo le minoranze religiose arabe, che speravano che il Ba’ath le avrebbe liberate dalla loro condizione minoritaria e che avrebbe posto fine al dominio sunnita sulla vita politica siriana. I nazionalisti arabi sunniti hanno tradizionalmente assegnato un ruolo centrale all’Islam sunnita, diffidando delle minoranze religiose di lingua araba, che fossero musulmani eterodossi o cristiani, considerati come arabi “minori” o “imperfetti”. Invece le aspirazioni nazionaliste “devianti”, diverse dall’arabismo furono ferocemente represse dal Ba’ath. Ai non arabi, come i curdi, gli armeni e i circassi, fu negata l’iscrizione al partito se non accettavano di arabizzarsi, rinunciando alla propria identità etnica.
A metà degli anni Cinquanta, il Ba’ath era ormai divenuto un’importante forza politica, con una forte rappresentanza parlamentare. Influì sull’unità tra Egitto e Siria che condusse alla fine alla formazione della Repubblica araba unita (Rau) nel 1958, che i ba’athisti videro come un passo verso il loro programma panarabista. Il partito però fu presto deluso dal dominio economico e politico dell’Egitto sulla Siria e dalla repressione di Gamal Abdel Nasser, che mise fuori legge tutti i partiti politici, compreso il Ba’ath. Il Ba’ath appoggiò il golpe del 1961 che portò all’uscita della Siria dalla Rau.
Il periodo successivo alla separazione fu caratterizzato da una lotta per il potere tra alti ufficiali dell’esercito (in prevalenza sunniti), fatta di una serie di golpe e contro golpe, con relative epurazioni da una parte e dall’altra. Le numerose epurazioni indebolirono molto la posizione degli ufficiali sunniti nelle alte sfere del potere. Gli ufficiali appartenenti alle minoranze religiose risentirono di meno del logoramento nell’esercito, perché non partecipavano alla lotta politica. All’inizio degli anni Sessanta, essi occupavano ormai importanti posizioni di comando.
Nel 1963, quando i ba’athisti attuarono con successo un golpe e s’impadronirono del potere, la maggioranza del corpo degli ufficiali apparteneva alle minoranze, soprattutto agli alawiti, ai drusi e agli ismailiti. I massimi dirigenti del Comitato militare che aveva guidato il golpe erano tre alawiti: Muhammad Umran, Salah Jadid e Hafez al-Assad, che consolidarono rapidamente il potere eliminando dall’esercito gli oppositori, compresi i nasseriani, i sunniti e i loro alleati appartenenti ad altre minoranze. Le purghe furono talmente vaste che molti pensano che una delle principali ragioni della sconfitta della Siria nella guerra contro Israele del 1967, fosse che la Siria vi entrò con un corpo di ufficiali quasi svuotato.
Vari tentativi di golpe effettuati negli anni Sessanta dagli oppositori degli alawiti andarono incontro a una sanguinosa repressione. Peraltro affiorarono anche divisioni e rivalità personali nella dirigenza militare alawita. Nel 1970, grazie alla purga della fazione di Jadid e a un golpe da lui stesso definito “manovra correttiva”, Hafez al-Assad emerse come l’uomo forte che avrebbe governato la Siria fino alla sua morte, avvenuta nel 2000, quando fu sostituito da Bashar. Se il golpe di Assad del 1970 pose fine al ciclo di capovolgimenti del potere da parte dei militari che aveva segnato la politica siriana, non mise però fine alle sanguinose faide interne, interne anche alla stessa famiglia Assad. Nel 1984, Rifaat al-Assad, fratello minore di Hafez, assediò Damasco con carri armati e artiglieria. Il tentativo di golpe fu soppresso e Rifaat fu esiliato in Europa occidentale, dove abita ancora oggi.
Per allargare la sua base d’appoggio, Hafez al-Assad formò il cosiddetto Fronte nazionale progressista (Fnp), che comprendeva i partiti disposti ad accettare la direzione del Ba’ath. Tra questi vi era il Partito comunista siriano (Pcs) che si unì ad Assad con ardore e resta ancora oggi un saldo alleato del regime. Tese la mano anche all’élite sunnita di Damasco e di Aleppo, nominando molti suoi membri a posizioni importanti dell’esercito e del governo (la moglie di Bashar è una rampolla di una ricca famiglia sunnita di Damasco).
Per placare ulteriormente i sunniti, Hafez al-Assad emanò una nuova costituzione in base alla quale solo un musulmano può essere presidente. Andando contro le credenze degli alawiti, partecipava regolarmente alle preghiere del venerdì e fece il pellegrinaggio alla Mecca. Prese a iniziare i suoi discorsi con frasi religiose e citazioni di versetti del Corano (gli alawiti non costruiscono moschee, non praticano il digiuno durante il Ramadan e non vanno in pellegrinaggio). Mise da parte il panarabismo, scansò la direzione civile del partito (compresi i suoi fondatori) e rovesciò le nazionalizzazioni e la magra riforma agraria che erano state introdotte a metà degli anni Sessanta.
Le pretese di laicità del regime sono smentite non solo dall’atteggiamento del vecchio Assad nei confronti dei sunniti, ma anche dal crescente conservatorismo reazionario dello Stato: dalla costruzione di moschee, alla nomina degli imam, alla censura sui discorsi del venerdì, al numero crescente di donne che portano il velo nelle strade di Damasco e di Aleppo.
La Siria e le grandi potenze
Grazie alla sua posizione strategica sulle coste orientali del Mediterraneo, la Siria ha sempre attratto come una calamita le potenze mondiali che l’hanno dominata. La città di Aleppo, al crocevia tra il mondo arabo, turco e persiano, era una delle principali stazioni sulla Via della seta. Nei secoli, successivi conquistatori occuparono la regione: Alessandro il Grande, i romani, i bizantini, gli arabi, i crociati, la dinastia ayubita del Saladino, i mongoli, gli ottomani e i francesi.
I governanti francesi s’interessano dell’area dall’epoca delle Crociate, quando Raimondo da Tolosa conquistò i fiorenti porti levantini. Perseguitati, i cristiani maroniti videro nei crociati i loro liberatori (e si allearono con essi contro i musulmani). I maroniti furono così un punto d’appoggio della penetrazione coloniale francese. Gli inglesi, a loro volta, divennero i benefattori dei drusi e la Russia zarista protesse i cristiani ortodossi. Nel 1859, i contadini maroniti si ribellarono contro i signori feudali drusi, che risposero massacrando più di dodici mila maroniti. Il massacro diede alla Francia il pretesto per intervenire militarmente. Alla vigilia dell’invasione francese, nell’agosto del 1860, in un commento sugli “Avvenimenti di Siria” sulla New York Daily Tribune, Karl Marx scrisse:
“I cospiratori di San Pietroburgo e di Parigi, nel caso la tentazione alla Prussia fallisse, si erano tenuti di riserva lo sconvolgente incidente dei massacri siriani, cui doveva far seguito un intervento francese che ( ) aprirebbe la porta sul retro a una guerra europea generale. Riguardo all’Inghilterra, aggiungerò solo che nel 1841 Lord Palmerstone diede ai drusi le armi che conservano sin da allora e che, nel 1846, secondo una convenzione con lo Zar Nicola, egli abolì, di fatto, il controllo che i turchi esercitavano sulle tribù selvagge del Libano, stipulando per loro una quasi indipendenza che, col tempo, e con la giusta gestione dei cospiratori stranieri, poteva solo portare a una messe di sangue” (nostra traduzione).
L’occupazione francese della Siria fu spietata. Il Generale Henri Gouraud, comandante dell’Esercito francese del Levante, “fece di Damasco un mucchio di rovine”, per usare le parole di Jean Genet, che servì nell’esercito francese alla fine degli anni Venti. In piedi di fronte alla tomba dello storico capo musulmano Saladino (che era curdo), evocando i crociati, Gouraud disse: “La mia presenza qui significa la vittoria della croce sulla mezzaluna”. Una serie di rivolte contro il dominio francese venne soppressa senza pietà. La città di Damasco fu ripetutamente bombardata dal cielo. I nazionalisti siriani furono imprigionati, assassinati ed esiliati nelle altre colonie francesi. Dopo anni di lotta, la Siria conquistò l’indipendenza nel 1946.
Dopo la Seconda guerra mondiale, quando inglesi e francesi lasciarono la regione, gli imperialisti americani cercarono di ereditarla. Ancor prima dell’Iran (1953) o del Guatemala (1954), nel 1949 la Cia architettò il suo primo golpe contro i nazionalisti siriani, dopo il rifiuto della Siria di consentire all’Amoco la costruzione di un oleodotto dal Golfo Persico al Mediterraneo. Il golpe durò solo pochi mesi e il suo capo, Husni al-Zaim, fu ucciso. Ma gli Usa non smisero mai di cercare di dominare la Siria, organizzando golpe per tutta la durata della Guerra fredda, dato che la Siria era sempre più alleata dell’Unione Sovietica. Nel 1979 gli Usa definirono la Sira uno “Stato che sponsorizza il terrorismo”, un’etichetta che ha determinato una scia di sanzioni economiche sin da allora. Oggi gli imperialisti, con l’aiuto delle reazionarie monarchie del Golfo, intendono abbattere il regime siriano per indebolirne gli alleati iraniani e gli Hezbollah.
Il Partito comunista siriano
Il Pcs fu formato nel 1920, col nome di Partito comunista di Siria e Libano. Pur essendo stato messo fuorilegge dal governo coloniale francese, svolse un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza, organizzando scioperi e manifestazioni. I suoi militanti provenivano soprattutto dalla minoranza curda e da altre minoranze. Il segretario, Khalid Bakdash e molti dirigenti erano curdi.
Quando uscì dall’illegalità nel 1954 il Pcs era un partito piccolo ma estremamente attivo e ben organizzato. Alle elezioni generali di quell’anno, Bakdash fu il primo dirigente comunista del mondo arabo eletto in parlamento. Il Pcs divenne rapidamente il partito comunista più numeroso e meglio organizzato del mondo arabo e una delle principali forze politiche della Siria. Ottenne il controllo di importanti organizzazioni sindacali. Nell’estate del 1957, “avrebbe forse potuto tentare di impadronirsi del potere politico”, scrisse Walter Laqueur in The Middle East in Transition. Invece il Pcs seguì la classica linea stalinista del fronte popolare, della subordinazione della classe operaia alle forze borghesi. Più di una volta Khalid Bakdash dichiarò che il suo partito era nazionalista radicale e non comunista, dichiarando in parlamento che “la Siria è nazionalista araba e non comunista, e tale resterà”.
Quando Assad si impadronì del potere nel 1970 con il golpe del Ba’ath, rimosse il divieto del Pcs consentendogli di aderire al suo “fronte progressista”, se il Pcs avesse accettato le sue condizioni. Il Pcs, disciplinatamente, acconsentì e fu premiato con incarichi ministeriali e di governo. Nel 1976, quando la Siria intervenne nella guerra civile libanese dalla parte dei maroniti contro i palestinesi, il Pcs si scisse e nacque un gruppo di opposizione che si definì l’Ufficio politico, guidato da Riyad al-Turk. Il partito si scisse di nuovo nel 1986, rispetto alla perestroika (“riforme” di mercato) e alla glasnost (liberalizzazioni politiche) volute dal leader sovietico Mikhail Gorbaciov, di cui Bakdash e molta della sua base curda erano critici. Entrambi i partiti hanno continuato comunque a far parte del Fronte nazionale progressista del regime di Assad.
[Tradotto da Workers Vanguard n. 1009, 28 settembre 2012]