Spartaco n. 74 |
Aprile 2011 |
La sollevazione di massa rovescia lodiato Mubarak
Egitto: lesercito al potere mantiene il dominio dei capitalisti
Per la rivoluzione permanente in Nordafrica e Medio Oriente!
Per quasi 30 anni ha governato l’Egitto con pugno di ferro. Ma l’11 febbraio, dopo un sollevamento senza precedenti durato 18 giorni e culminato in un’ondata di scioperi, alla fine Hosni Mubarak è stato costretto a dimettersi da Presidente e a consegnare il potere al Consiglio supremo delle forze armate. Ai grandi festeggiamenti in piazza Tahrir (piazza liberazione) al Cairo e nelle strade delle città di tutto il paese hanno partecipato milioni di persone, felici per quella che sembra essere la fine di una dittatura avida e corrotta, che ha sottoposto il paese a leggi di emergenza, imprigionando e facendo scomparire tutti gli oppositori nelle immense celle della tortura egiziane.
Ispirato dall’insurrezione in Tunisia, dove i manifestanti hanno sfidato una violenta repressione per rovesciare la dittatura di Zine al-Abidine Ben Ali, anche l'Egitto è esploso dal 25 gennaio. I manifestanti hanno coraggiosamente affrontato la dura reazione delle odiate forze di sicurezza centrali, che ha fatto almeno trecento morti. In tutto il paese da nord a sud, da Alessandria attraverso la capitale e fino ad Assuan, dalle città industriali di Mahalla al-Kobra, Suez e Port Said, fino alle città nel deserto, come Kharga nel Sahara e al-Aris nel Sinai, i manifestanti hanno scatenato la rabbia contro il regime prendendo di mira le stazioni di polizia, gli edifici della sicurezza e quelli di proprietà del partito di governo, il Partito nazionale democratico.
Mubarak è caduto. Ma adesso al potere c'é direttamente il pilastro dell’apparato statale bonapartista dell’Egitto capitalista. L’esercito ha annunciato lo scioglimento del parlamento fantoccio di Mubarak e la formazione di un comitato incaricato di emendare la costituzione, un documento che ha sempre avuto meno valore della carta su cui era scritta. Come ribadito da Workers Vanguard n. 973 (4 febbraio), nell’articolo sulle proteste in Egitto, “Non lasciatevi ingannare: al di là della sorte di Mubarak, rimane la sinistra minaccia che la classe dominante borghese in Egitto esiga una dura repressione per ristabilire e mantenere l’ordine capitalista”. Ci sono stati scontri tra i manifestanti di piazza Tahrir e i soldati che cercavano di allontanarli. Il 14 febbraio, mentre girava la voce che il regime avrebbe vietato gli scioperi, l’esercito ha emanato il comunicato n.5, che condannava gli scioperi forieri di “risultati negativi” e ordinava agli operai di tornare al lavoro.
Tutte le opposizioni borghesi, dai liberaldemocratici come Mohamed ElBaradei e la sua Associazione nazionale per il cambiamento, ai partiti Kefaya (di George Ishak) e Ghad (di Ayman Nour), fino alla reazionaria Fratellanza musulmana, hanno appoggiato l’esercito perché ristabilisse l’ordine. Le manifestazioni, cui hanno partecipato tutti gli strati della società ad eccezione dei gradini più alti della borghesia, erano dominate dalle bandiere egiziane, riflesso di una radicata coscienza nazionalista. Al nazionalismo, prodotto dalla lunga storia di asservimento del paese da parte degli imperialisti, ricorre da sempre la classe dominante borghese egiziana, per oscurare la divisione di classe che separa il sottilissimo strato di miliardari al vertice della società dalla classe operaia, poverissima e brutalmente sfruttata.
Oggi questo nazionalismo si esprime nella convinzione che l’esercito sia “amico del popolo”. Sin dal 1952, quando un colpo di Stato dei Liberi ufficiali guidati da Gamal Abdel Nasser rovesciò la monarchia mettendo fine all’occupazione britannica del paese, l’esercito è stato considerato il garante della sovranità nazionale egiziana. In realtà l’esercito è stata la spina dorsale di tutte le dittature che si sono succedute dal 1952. In quello stesso anno, Nasser mobilitò l’esercito per sparare agli scioperanti delle industrie tessili di Kafr Al-Dawwar, vicino ad Alessandria. Nel 1977 venne usato da Anwar el-Sadat per “ristabilire l’ordine” dopo due giorni di sommosse scoppiate in tutto il paese a causa del prezzo del pane. Ancora la settimana scorsa, l’esercito ha facilitato gli attacchi omicidi da parte di poliziotti in borghese e picchiatori prezzolati contro i manifestanti di piazza Tahrir. Anche se ora sostiene di non aver ostacolato le manifestazioni contro Mubarak, l’esercito ha arrestato centinaia di persone, torturandone molte. Abbasso lo stato d’emergenza! Liberare tutte le vittime della repressione statale bonapartista!
L'esercito, con la polizia, i tribunali e le prigioni, forma il cuore dello Stato capitalista, un apparato per la soppressione violenta della classe operaia e degli oppressi. Il tentativo di “ristabilire l'ordine” prende di mira innanzitutto la classe operaia. Nel corso delle proteste contro Mubarak, decine di migliaia di operai sono scesi in sciopero. Tra questi, seimila operai del canale di Suez, attraverso cui transita l'8 percento del commercio mondiale. Al contrario, i piloti del canale hanno continuato a lavorare, assicurando il passaggio delle navi. Migliaia di operai tessili e metallurgici hanno scioperato nella città industriale di Suez, dove si sono svolte alcune delle proteste più combattive. Secondo il Guardian di Londra (28 gennaio), i manifestanti si sono “impadroniti delle armi conservate in una stazione di polizia, hanno chiesto ai poliziotti di lasciare l'edificio e l'hanno bruciato”. Gli operai dei trasporti pubblici del Cairo continuano a scioperare e dopo la caduta di Mubarak gli scioperi si sono allargati ai metallurgici nelle province, ai lavoratori delle poste, agli operai tessili di Mansoura e di altre città, fino a migliaia di operai petrolchimici.
Lottando per le sue rivendicazioni economiche (contro i salari da fame, il lavoro nero e le continue umiliazioni padronali), la classe operaia dimostra di occupare una posizione unica nella società, essendo lei a far girare gli ingranaggi che muovono l'economia capitalista. Questa forza sociale conferisce alla classe operaia la capacità di guidare tutte le masse povere nella lotta contro le loro orribili condizioni di vita. In un paese in cui quasi metà della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e in cui la miseria è imposta da uno Stato di polizia, le aspirazioni democratiche delle masse si intrecciano alla lotta contro le attuali condizioni di vita.
Diritti democratici fondamentali come l’eguaglianza legale delle donne e la completa separazione tra Stato e religione, una rivoluzione agraria che dia la terra ai contadini, la fine della disoccupazione e di una stridente povertà: queste basilari aspirazioni delle masse non possono essere soddisfatte senza il rovesciamento dell’ordine capitalista bonapartista. Lo strumento indispensabile perché la classe operaia possa prendere la direzione è un partito proletario rivoluzionario, che può essere costruito solo con una lotta incessante contro tutte le forze borghesi, dall’esercito alla Fratellanza musulmana ai liberali che pretendono falsamente di appoggiare le lotte delle masse. Un partito del genere, nelle parole del dirigente bolscevico V.I. Lenin, sarebbe un “tribuno del popolo” e si batterebbe contro l’oppressione delle donne, dei contadini, dei cris-tiani copti, degli omosessuali e delle minoranze etniche.
Solo la conquista del potere da parte del proletariato alla testa di tutti gli oppressi può liberare le forze produttive dalle catene dell’imperialismo e dalla borghesia egiziana che ne è l'agente politico ed economico. E' questo che è successo, per la prima ed unica volta, con la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia. La classe operaia, guidata dal Partito bolscevico, rovesciò il dominio della borghesia, liberando il paese dal giogo imperialista, abolendo la proprietà privata della terra e liberando la miriade di nazioni e di popoli oppressi nel vecchio impero zarista. L’attuazione di questi compiti democratici si combinò con l’espropriazione dei mezzi di produzione da parte dello Stato operaio, che pose le basi per lo sviluppo di un’economia collettivizzata e pianificata.
Per la rivoluzione permanente!
L’Egitto è un paese a sviluppo diseguale e combinato. Vi coesistono fianco a fianco un’industria moderna e una gigantesca massa di contadini senza terra che vivono sotto il tallone di latifondisti spietati. Nel paese vive un sottile strato di giovani molto istruiti, che hanno accesso alle tecnologie più avanzate, mentre il tasso di alfabetizzazione è solo del 71 percento (il 59 percento tra le donne). All’orizzonte del Cairo si stagliano minareti medievali e palazzi modernissimi e nelle sue strade si incrociano gli ultimi modelli di automobili con greggi di pecore e capre e carretti trainati da somari. Una povertà e uno squallore disumano convivono con una grottesca ostentazione di ricchezza. Di fronte all’enclave vergognosamente ricca di Zamalek, sulla sponda opposta del Nilo, c'é la baraccopoli di Imbaba, dove i bambini sono costretti a bere dalle fogne a cielo aperto e a volte vengono mangiati vivi da cani e topi. L’odio popolare per Mubarak è stato suscitato anche dalla enorme fortuna accumulata dalla sua famiglia, una ricchezza che si stima in quasi 70 miliardi di dollari.
Pur essendo a pieno titolo una potenza regionale, l’Egitto rimane una necolonia, la cui borghesia, brutale e assassina, è legata inevitabilmente da un milione di fili all’imperialismo mondiale, che trae vantaggio dallo sfruttamento, dall’oppressione e dalla degradazione delle masse del paese. Per decenni, uno dei principali punti di appoggio del regime di Mubarak è stato l'imperialismo Usa, che considera l'Egitto un perno del suo dominio sulle ricchezze petrolifere del Medio Oriente. Sin dall’epoca di Sadat, l’Egitto è stato un alleato strategico dei sionisti israeliani e negli ultimi anni ha contribuito ad imporre l’embargo che ha affamato i palestinesi di Gaza, rendendo praticamente impenetrabile il confine col Sinai.
Per tutta la durata dell’insurrezione contro Mubarak, l’amministrazione Obama ha oscillato tra le critiche al governo e le dichiarazioni d'appoggio al regime (specialmente alle “riforme” promesse dal vicepresidente Omar Suleiman, personaggio chiave della “guerra al terrorismo” di Washington, fatta di torture e rapimenti). Gli Usa hanno speso 1,3 milardi di dollari all’anno per armare l’esercito egiziano. Dopo le dimissioni di Mubarak, Obama ha salmodiato che gli Usa sono “pronti a dare ogni assistenza necessaria e richiesta per una transizione credibile alla democrazia”.
Cosa intenda Washington quando parla di democrazia, lo si capisce guardando un po’ più ad est, ai cadaveri di più di un milione di iracheni, morti a causa dell’invasione e dell’occupazione del 2003, o alla barbarie che le forze degli Usa e della Nato hanno inflitto ai popoli dell’Afghanistan. Basta guardare agli sceicchi, ai despoti e ai dittatori che popolano il Medio Oriente e che, insieme ai governanti israeliani, sono agenti dell’imperialismo Usa. Quando Obama dice di volere un “passaggio ordinato di poteri” in Egitto, intende dire che vuole un Egitto “stabile”, il cui esercito svolga il suo ruolo nella regione per conto degli Usa.
La vera liberazione nazionale e sociale richiede che il proletariato si mobiliti in una lotta rivoluzionaria contro gli imperialisti e contro la borghesia locale. Una rivoluzione proletaria in Egitto avrebbe un impatto elettrizzante sugli operai e gli oppressi in tutto il Nordafrica, il Medio Oriente e altrove. Più di un quarto della popolazione mondiale di lingua araba vive in Egitto, un paese di più di 80 milioni di persone con il proletariato più numeroso della regione. Proteste di solidarietà con le masse egiziane e in opposizione ai despoti locali, sono scoppiate dal Marocco fino alla Giordania e allo Yemen, due Stati clienti degli Usa. Il 12 febbraio ad Algeri, 35.000 poliziotti hanno attaccato una manifestazione di 10.000 persone che chiedevano le dimissioni di Abdelaziz Bouteflika, facendo centinaia di arresti.
A Gaza, migliaia di persone si sono mobilitate dopo le dimissioni di Mubarak, sventolando bandiere palestinesi ed egiziane, nella speranza che un nuovo governo egiziano allevierebbe le loro terribili condizioni. Fino all’11 febbraio, sia Hamas a Gaza, che l’Autorità palestinese in Cisgiordania, hanno cercato di sopprimere ogni manifestazione di solidarietà. Una rivoluzione socialista in Egitto aprirebbe uno scenario di liberazione nazionale e sociale per le masse palestinesi oppresse e tendendo la mano della solidarietà di classe al proletariato di lingua ebraica d’Israele, creerebbe le basi per far crollare dall'interno lo Stato-caserma sionista d’Israele con una rivoluzione operaia arabo-ebraica.
Una rivoluzione proletaria in Egitto dovrebbe subito estendersi ai paesi capitalisti avanzati dell'Europa occidentale e del Nordamerica e porre le basi per eliminare la povertà con un'economia socialista pianificata a scala internazionale. Come scrisse Leon Trotsky, che insieme a Lenin fu alla testa della Rivoluzione russa:
“La conquista del potere da parte del proletariato non pone termine alla rivoluzione, al contrario non fa che inaugurarla. La edificazione socialista è concepibile solo sulla base della lotta di classe su scala nazionale ed internazionale ( ) La rivoluzione socialista comincia sul terreno nazionale, si sviluppa sull’arena internazionale e si compie sull’arena mondiale. Così, la rivoluzione socialista diviene permanente nel significato nuovo e più ampio della parola: si concluderà solo con il trionfo definitivo della nuova società su tutto il nostro pianeta” (La rivoluzione permanente, 1930).
Rompere con il nazionalismo borghese!
L'attuale situazione in Egitto fornisce ai marxisti un'occasione straordinaria per avanzare una serie di rivendicazioni transizionali che leghino le lotte attuali della classe operaia e degli oppressi alla conquista del potere da parte del proletariato. Ma praticamente tutta la sinistra a scala internazionale non ha nient'altro da offrire se non un vuoto entusiasmo per quella che hanno battezzato “la rivoluzione egiziana”. Un esempio negli Stati Uniti è il Workers World Party (Wwp) che l'11 febbraio, quando l'esercito ha preso il controllo del paese, titolava “Il Wwp festeggia col popolo egiziano”.
Il primo febbraio, il gruppo egiziano dei Socialisti rivoluzionari (Sr), che si ispira al Socialist Workers Party britannico del defunto Tony Cliff, ha pubblicato una dichiarazione che faceva appello agli operai a “usare la loro forza e la vittoria sarà nostra!”. Ma non si trattava di un appello alla classe operaia a lottare per il potere. Al contrario, gli Sr dissolvono la forza della classe operaia nella rivendicazione aclassista di “tutto il potere al popolo” e alla rivendicazione di una “rivoluzione popolare”. Anche quando dicono “Abbasso il sistema!”, gli Sr intendono il regime di Mubarak, non l'ordinamento capitalista. Nella loro dichiarazione non c’è una sola volta la parola “socialismo”. Né la benché minima traccia di opposizione ai liberal democratici borghesi, come ElBaradei, o ai reazionari della Fratellanza musulmana, o al nazionalismo pervasivo che incatena gli sfruttati e gli oppressi alla borghesia egiziana. Al contrario gli Sr solleticano proprio il più gretto nazionalismo egiziano, quando dicono che “la rivoluzione deve restituire all'Egitto l’indipendenza, la dignità e il suo ruolo dirigente nella regione”.
In mezzo a fortissimee illusioni nell'esercito, gli Sr si sono lamentati che “questo esercito non è più l'esercito del popolo”. L'esercito dei regimi capitalisti di Nasser, Sadat e Mubarak non è mai stato “l'esercito del popolo”. Questi riformisti si spingono fino a promuovere l'odiata polizia, rallegrandosi in una dichiarazione del 13 febbraio perché “l'onda della rivoluzione sociale si allarga ogni giorno e nuovi settori aderiscono alle proteste, dai poliziotti, ai mukhabarin (agenti segreti), agli ufficiali di polizia!” Le illusioni degli Sr nella benevolenza dello Stato capitalista sono così profonde da estendersi ai macellai, agli stupratori e torturatori del regime, le stesse forze che hanno terrorizzato per tanto tempo la popolazione, che nelle ultime settimane hanno massacrato 300 manifestanti e che hanno aiutato ad organizzare l'attacco a piazza Tahrir il 2 febbraio.
La classe operaia deve prendere il comando
I giovani egiziani che hanno lanciato la “Rivoluzione del 25 gennaio” sono stati osannati da tutti, dagli oppositori borghesi fino ai media di Stato che fino al giorno prima della caduta di Mubarak li denunciavano come agenti stranieri. Tra questi giovani, che provengono in gran parte dalla piccola borghesia, molti sono mossi non solo dalle loro particolari ragioni di malcontento, ma dall'agitazione del proletariato egiziano, che negli ultimi dieci anni è stato protagonista di un'ondata di scioperi (più di tremila tra scioperi, sit in e altri tipi di protesta) cui hanno preso parte più di due milioni di operai. Questi scioperi hanno sfidato la direzione corrotta della Confederazione sindacale egiziana, istituita nel 1957 da Nasser come braccio dello Stato.
Ma in definitiva la piccola borghesia (una classe intermedia che raccoglie strati dagli interessi più disparati) è incapace di sviluppare una prospettiva coerente ed indipendente ed è destinata a ricadere sotto l'influenza di una delle due classi fondamentali della società capitalista: la borghesia o il proletariato. Tra questi giovani militanti che hanno dimostrato un coraggio incredibile sfidando il regime di Mubarak, quelli che vogliono lottare per conto delle masse oppresse devono essere conquistati al programma internazionalista rivoluzionario del trotskismo. Questi elementi saranno cruciali per forgiare un partito rivoluzionario che come i bolscevichi di Lenin, sarà formato dalla fusione degli operai più avanzati e degli intellettuali che romperanno con la loro classe.
Opponendosi ad una prospettiva proletaria rivoluzionaria, i riformisti del Segretariato unificato (Su, in Italia Sinistra critica), presentano la democrazia borghese come l’obiettivo della lotta. In un articolo postato su internet nel gennaio 2011 con il titolo “In Tunisia e in Egitto la rivoluzione è in marcia”, il Su rivendica “l'apertura di un processo di libere elezioni per un'assemblea costituente” che presenta come parte di un “programma di governo democratico al servizio degli operai e della popolazione”.
Non esisterà mai un governo “al servizio degli operai e della popolazione” senza il rovesciamento della borghesia. Come scrisse Lenin nel 1917 nelle sue Tesi sull'assemblea costituente: “ogni tentativo, diretto o indiretto, di considerare la questione dell’Assemblea costituente dal lato formale, giuridico, nel quadro della comune democrazia borghese senza tenere contro della lotta di classe e della guerra civile, significa tradire la causa del proletariato, passare alle posizioni della borghesia”. Noi siamo perché gli operai e i contadini caccino i governanti nominati dall'alto. Esigiamo la fine dei divieti dei partiti politici e facciamo appello ad un'assemblea costituente rivoluzionaria basata sul suffragio universale. Per realizzare questa rivendicazione serve un'insurrezione popolare che rovesci il regime dell'esercito. Contemporaneamente, i marxisti devono battersi per formare delle organizzazioni inclusive di massa della classe operaia, che siano embrioni del potere statale proletario.
Il nostro obiettivo è che gli oppressi e i poveri si schierino dalla parte della classe operaia, che deve contrapporre la sua forza sociale e la sua direzione a quella di tutte le diverse ali della borghesia nazionale egiziana, che deve lottare per strappare le masse alle illusioni nella democrazia borghese. In tutti gli scioperi degli ultimi dieci anni e anche nell'attuale insurrezione, gli operai hanno formato comitati di sciopero e altri organismi per coordinare le loro azioni. Questi organismi di lotta pongono direttamente il bisogno di sindacati indipendenti dallo Stato capitalista e da tutte le forze borghesi. Oggi esiste una base tangibile per la prospettiva di costruire delle larghe organizzazioni della classe operaia. Queste devono includere comitati di sciopero unitari che riuniscano gli operai delle varie fabbriche in lotta; milizie di autodifesa operaia, organizzate indipendentemente dall'esercito, per la difesa dagli squadristi del regime e dai rompisciopero; comitati popolari basati sulla classe operaia incaricati della distribuzione del cibo e delle merci per ovviare alla scarsità e alla corruzione del mercato nero.
Lo sviluppo di organizzazioni di questo tipo, che culminerà in consigli operai, porrebbe la questione di quale classe deve dominare la società. I consigli operai diventerebbero il centro della lotta di milioni di lavoratori contro gli sfruttatori, come avvenne coi Soviet nella Rivoluzione russa. Sarebbero degli organismi di dualismo di potere, in lotta contro il potere della borghesia. Solo quando la classe operaia si presenterà come un serio candidato al potere, si potranno strappare i soldati dell'esercito di leva (che provengono in maggioranza dalla classe operaia e dai contadini), al corpo degli ufficiali borghesi, conquistandoli alla alla causa del proletariato.
Per la liberazione delle donne con la rivoluzione socialista!
Anche se in Egitto le proteste ruotavano attorno a rivendicazioni laiche e democratiche, le immagini hanno ripetutamente mostrato delle preghiere di massa, non solo islamiche ma anche copte, in piazza Tahrir, domenica 6 febbraio, il “giorno dei martiri”. La religione in Egitto è onnipresente ed è promossa dagli islamisti, dalla Chiesa copta e dal governo, la cui posizione si riassume nel motto: se non possiamo dar da mangiare al popolo, diamogli un dio. Questa profonda religiosità grava come un macigno sulle donne, le cui condizioni di vita negli ultimi decenni sono peggiorate. In Egitto, una qualsiasi organizzazione socialista che non faccia propria la lotta per la liberazione delle donne, non può essere che una frode e un ostacolo alla liberazione umana.
Le donne che sono scese in piazza Tahrir e nelle strade d’Egitto, indossavano in maggioranza il velo. Più dell’ottanta percento delle donne egiziane lo portano, non per legge, ma per la forza di norme sociali basate sull’oscurantismo, spesso suscitando l’amarezza delle madri, che decenni prima si erano battute per poterlo togliere.
L’oppressione delle donne va alle radici della società egiziana. Insieme al predominio della religione, affonda nell’arretratezza del paese, rafforzata dal giogo imperialista. La legge egiziana codifica questa oppressione. La Costituzione stabilisce che: “Lo Stato garantisce di coordinare i doveri delle donne verso le loro famiglie e il loro lavoro nella società” e che “la principale fonte legislativa è la giurisprudenza islamica (sharia)”. Sono legali sia la poligamia che il ripudio (l’uomo può divorziare dalla moglie semplicemente dicendo “Io divorzio”). Salvo rare eccezioni, l’aborto è illegale e ogni donna è sottomessa per legge al padre o al marito. La legge egiziana tratta come cose completamente diverse l’adulterio maschile e quello femminile, considerando il secondo molto più grave.
Benché illegale, la mutilazione genitale femminile è diffusissima, sia tra i musulmani sia tra i cristiani. Secondo le Nazioni Unite, il 96 percento delle donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni hanno subito mutilazioni genitali. Anche gli “omicidi d’onore” sono diffusissimi sia tra i musulmani che tra i cristiani, ma è impossibile trovare delle statistiche dato che non vengono riportati o vengono elencati tra i suicidi. Basta dare un’occhiata ai film o alle trasmissioni televisive egiziane per vedere come questa barbarie sia considerata una tradizione rispettabile e venerata. La legge egiziana contempla molte attenuanti per il crimine di omicidio e consente al giudice di ridurre le condanne degli uomini che uccidono donne per “moventi passionali”.
Nawal El-Saadawi, una coraggiosa socialista e femminista egiziana, ha scritto molti libri sull’oppressione delle donne in Medio Oriente. Nel suo celebre libro del 1980, La faccia nascosta di Eva, ha descritto la radicata ossessione dell’“onore”:
“La società araba continua a considerare come parte più importante ed ambita del corpo delle ragazze la sottile membrana che ne ricopre gli organi genitali esterni, cui attribuisce maggior valore che agli occhi, alle braccia o alle gambe. Una famiglia araba non si dispera se una ragazza perde un occhio quanto si dispera se perde la verginità. Perdere la vita è considerato meno grave che perdere l’imene” (nostra traduzione).
Ma le donne sono anche una parte cruciale della classe operaia e hanno svolto un ruolo di primo piano negli scioperi degli ultimi dieci anni, specialmente nell’industria tessile. Uno dei più grandi fu lo sciopero dell’industria tessile del dicembre 2006 a Mahalla al-Kobra. Più di ventimila operai incrociarono le braccia. A guidare lo sciopero furono le operaie, che uscirono per prime mentre gli uomini continuavano a lavorare. Protestando davanti alla fabbrica iniziarono a gridare: “Dove sono gli uomini? Le donne sono qui!” ottenendo l’effetto desiderato, l’adesione degli uomini, e lanciando uno dei più grandi scioperi in Egitto.
La donna egiziana sarà anche schiava di schiavi, ma è una parte vitale dell’unica classe che può porre le basi materiali della sua liberazione, spezzando le catene dell’arretratezza sociale e dell’oscurantismo religioso con la rivoluzione socialista. Come disse Trotsky in un discorso del 1924 “Prospettive e compiti in Oriente”: “Non ci sarà miglior comunista in Oriente, miglior combattente per le idee della rivoluzione e del comunismo che le donne operaie risvegliate”.
La bancarotta del nazionalismo egiziano
I governi egiziani hanno sempre giocato sul fatto che l’Egitto è l’unico paese del Nordafrica e del Medio Oriente i cui confini attuali siano simili a quelli antichi. Questo confermerebbe la pretesa che la nazione egiziana risale agli albori della civiltà. In realtà il nazionalismo egiziano fu il prodotto dell’attività modernizzatrice del governo di Mohammed Ali, un ottomano di origine albanese che all’inizio del Diciannovesimo secolo creò le prime scuole laiche, costruì il primo esercito nazionale e pose le basi per la formazione di una borghesia locale. Ciononostante l’Egitto rimase asservito alle potenze coloniali europee.
La forza della mitologia nazionalista egiziana si riflette anche nell’adulazione, che accomuna molta sinistra, nei confronti del governo del Colonnello Nasser, uomo forte nazionalista di sinistra. Alla base della fiducia popolare nell’esercito vi è il fatto che sotto il governo di Nasser, per la prima volta dai tempi della conquista persiana nel 526 a.c., erano gli egiziani a governare il paese. Dalla presa del potere di Nasser, nel 1952, sino ad oggi, ogni singolo governante egiziano proviene dall’esercito.
L’esercito egiziano è anche l’unico esercito arabo ad aver tenuto testa all’esercito israeliano, nella guerra arabo-israeliana del 1973 (dopo aver invece subito un’umiliante sconfitta nel 1967). Dicendo che l’esercito “non è più l’esercito del popolo”, i Socialisti rivoluzionari nella loro dichiarazione del primo febbraio hanno scritto che “Questo esercito non è più quello che ha sconfitto il nemico sionista nell’ottobre del 1973” (in realtà la guerra terminò in una situazione di stallo). La guerra del 1973, come quelle che la precedettero nel 1967 e nel 1948, non fu altro che una battaglia tra due potenze regionali che perseguivano i propri interessi e nelle quali il proletariato non aveva una parte con cui schierarsi. Al contrario, la classe operaia internazionale aveva il dovere di difendere militarmente l’Egitto contro l’attacco imperialista nella guerra del 1956, dopo che Nasser nazionalizzò il Canale di Suez.
Non c’è dubbio che lo Stato sionista d’Israele sia un brutale nemico delle masse palestinesi e noi esigiamo il ritiro immediato di tutte le truppe e dei coloni dai Territori occupati. Ma altrettanto vale per i governanti arabi, che hanno le mani sporche del sangue di decine di migliaia di palestinesi. La liberazione sociale e nazionale dei palestinesi richiede non solo che si spazzi via lo Stato sionista, ma anche che si rovescino i governi capitalisti arabi in Giordania (dove metà della popolazione è palestinese) e in tutta la regione. Sappiamo che non sarà compito facile strappare il proletariato di lingua ebraica dalla presa del sionismo. Ma chiunque rifiuti rifiuti la prospettiva di una rivoluzione operaia arabo/ebraica in Israele. condanna le masse palestinesi all’oppressione nazionale.
Il sostegno al nazionalismo arabo ha portato a sanguinose sconfitte dei movimenti operai di tutto il Medio Oriente, non ultimo l’Egitto, dove Nasser salì al potere con l’appoggio degli stalinisti egiziani. Una volta al potere, Nasser cercò di appellarsi agli Usa, ma venne respinto. Allora si rivolse allo Stato operaio degenerato sovietico per ottenere aiuti militari, finanziari e politici. Nel frattempo, per consolidare il suo dominio, soppresse i comunisti, imprigionandoli, torturandoli e ammazzandoli. Ma il Partito comunista continuò ugualmente ad appoggiare Nasser, sciogliendo il partito nella sua Unione socialista araba nel 1965, mentre questi ne massacrava i militanti,
Alla base di questa abietta capitolazione vi era lo schema stalinista della “rivoluzione a tappe”, che rinviava la rivoluzione socialista in un vago futuro mentre nella prima “tappa democratica” subordinava il proletariato ad una sedicente borghesia nazionale “antimperialista”. La storia dimostra che la “seconda tappa” è sempre consistita nell’uccisione dei comunisti e nel massacro degli operai. Milioni di operai che si attendevano di essere guidati dai partiti comunisti in Iraq, Iran e in altri paesi, vennero traditi dai loro falsi dirigenti stalinisti. In Egitto, il tradimento venne spacciato per appoggio al “socialismo arabo” di Nasser. In realtà il “socialismo arabo” era una favola e consisteva in un capitalismo accompagnato da forti investimenti statali. Il suo obiettivo era quello di mettere a tacere il proletariato, che nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale aveva intrapreso importanti lotte, tra cui la lotta contro l’occupazione britannica. Il ruolo riservato da Nasser agli operai si riassume nel motto: “Non sono gli operai che chiedono. Siamo noi che diamo”. In cambio della passività del proletariato, Nasser introdusse numerose riforme, aumentò i salari e ridusse la disoccupazione. Ma alla fine, gli investimenti di Stato si prosciugarono e non ci fu più niente da “dare”.
Dopo l’avvento al potere di Sadat nel 1970, i comunisti cercarono di riorganizzarsi. Sadat reagì scatenando la Fratellanza musulmana per distruggerli. Espulse anche i consiglieri sovietici (dopo aver usato le armi sovietiche per combattere Israele nella guerra del 1973) e inaugurò la politica della “porta aperta” alle liberalizzazioni, tagliando i sussidi agli articoli alimentari e di altro tipo, nel tentativo di porre fine alla stagnazione economica. Mubarak non fece che riprendere e intensificare questo programma neoliberista di privatizzazioni su larga scala. Contrariamente alle illusioni diffuse, Mubarak non ruppe col nasserismo, ma ne eseguì il testamento. L’Egitto di Nasser, di Sadat o di Mubarak rimase soggetto al mercato mondiale imperialista e ai suoi dettami. La vera differenza tra Nasser e Mubarak sta nel fatto che il primo fu un governante bonapartista molto popolare, il secondo completamente discreditato.
Perché il potente e combattivo proletariato egiziano venga alla ribalta alla testa degli oppressi e lotti per il suo potere, dev’essere strappato alle illusioni nazionaliste. Oggi il compito urgente è la costruzione di un partito operaio, sezione di una riforgiata Quarta internazionale trotskista, che lotti per un Egitto proletario, parte di una Federazione socialista del Medio Oriente.
Tradotto da Workers Vanguard, n. 974, del 18 febbraio 2011