Spartaco n. 73

Ottobre 2010

 

Un’ondata di scioperi combattivi attraversa la Cina

Difendere lo Stato operaio burocraticamente deformato!

Per la rivoluzione politica proletaria!

Per una direzione di lotta di classe!

L’ondata di scioperi che ultimamente ha attraversato la Cina, dove i lavoratori chiedono aumenti salariali e un miglioramento delle condizioni di lavoro, dev’essere appoggiata dagli operai con coscienza di classe in tutto il mondo. Gli scioperi sono iniziati il 17 maggio nella fabbrica di componenti dell’Honda a Foshan, una città della provincia meridionale del Guangdong, che gli operai hanno bloccato per quasi tre settimane. Il blocco della produzione di componenti nella fabbrica ha fermato la produzione in tutte le altre officine di assemblaggio dell’azienda in tutta la Cina. I lavoratori di Foshan sono riusciti a strappare aumenti salariali del trenta percento circa e gli scioperi si sono estesi ad altre fabbriche dell’area industriale del Guangdong, una zona in forte espansione economica, e oltre. La maggior parte degli scioperi ha interessato fabbriche di proprietà di aziende straniere, specialmente d’industrie automobilistiche giapponesi. Gli operai hanno scioperato anche in fabbriche di proprietà taiwanese, tra cui una di prodotti della gomma vicino a Shanghai, dove circa cinquanta operai sono rimasti feriti in scontri con la polizia, oltre che in aziende di proprietà di capitalisti cinesi del continente.

I capitalisti stranieri e locali che operano in Cina hanno accumulato enormi profitti sfruttando una forza-lavoro formata in gran parte da operai emigrati dalle campagne. Molti operai sono costretti a lavorare per sessanta o settanta ore alla settimana per salari che bastano appena per vivere. Le loro condizioni sono state portate alla ribalta dall’ondata di suicidi alla gigantesca fabbrica elettronica della Foxconn a Shenzhen, un’altra città del Guangdong. In questa fabbrica di proprietà taiwanese, dove più di 300 mila operai montano computer e telefoni per Apple, Dell, Sony e altre grandi aziende americane e giapponesi, con orari interminabili e una dura disciplina, quest’anno si sono suicidati almeno dieci lavoratori. Allo stesso tempo, l’enorme concentrazione di operai alla Foxconn evidenzia l’immensa forza potenziale della classe operaia cinese.

Grazie a decenni di vasto sviluppo economico, la Cina possiede ormai la classe operaia industriale più numerosa del mondo. Perciò le lotte degli operai di questo paese hanno un’importanza fondamentale. Come risultato della Rivoluzione del 1949, il capitalismo in Cina è stato rovesciato, con l’istituzione di un’economia collettivizzata. Questo rovesciamento rivoluzionario ha rappresentato una colossale vittoria per i lavoratori di tutti i paesi, anche se sin dall’inizio deformata dal dominio della burocrazia stalinista del Partito comunista cinese (Pcc). Nonostante la penetrazione capitalista provocata dalle “riforme di mercato” del governo del Pcc, il cuore dell’economia cinese continua a basarsi sulla proprietà nazionalizzata (vedi: “Le riforme di mercato in Cina: un’analisi trotskista”, Spartaco n.68, aprile 2007).

A differenza dei principali paesi capitalisti, sprofondati in una recessione che ha portato al taglio di decine di milioni di posti di lavoro, negli ultimi due anni l’economia cinese ha continuato a crescere, benché il settore dell’economia legato alle esportazioni sia stato colpito dalla crisi. A impedire che la Cina fosse trascinata nella profonda crisi economica intrinseca al sistema capitalista di produzione per il profitto, è stata la sua capacità di indirizzare le risorse nel settore chiave collettivizzato della sua economia. Ora l’economia cinese ha ripreso a crescere rapidamente, creando una forte mancanza di manodopera. Gli investimenti di Stato nelle città cinesi dell’interno hanno assorbito gran parte della forza-lavoro che prima emigrava nelle fabbriche della costa orientale.

Le grandi potenze imperialiste (Usa, Giappone, Germania ecc.) restano determinate a restaurare il dominio capitalista e a riaprire completamente la Cina allo sfruttamento capitalista. Così come, nei paesi capitalisti, gli operai devono difendere i loro sindacati contro i padroni, nonostante l’attuale direzione sindacale venduta, allo stesso modo devono difendere la Cina dalla controrivoluzione capitalista, nonostante il dominio repressivo della burocrazia stalinista e i suoi molti adattamenti al capitalismo.

Offrendo il lavoro a basso costo degli emigranti allo sfruttamento delle aziende straniere, la burocrazia del Pcc fa a tutti gli effetti da fornitore di manodopera agli imperialisti e ai capitalisti cinesi espatriati. Della burocrazia ora fanno parte importanti componenti che hanno legami familiari o di altro tipo con gli imprenditori capitalista. Qualche anno fa il Congresso nazionale del popolo ha approvato una legge che rafforza il diritto di proprietà privata. Ma la casta burocratica del Pcc si basa ancora sulle fondamenta materiali dell’economia collettivizzata, da cui trae potere e privilegi. La classe operaia cinese deve spazzar via la parassitaria burocrazia stalinista, che sul piano interno ha gravemente indebolito il sistema della proprietà nazionalizzata e su quello internazionale concilia l’imperialismo. Per difendere ed estendere le conquiste dello Stato operaio serve una rivoluzione politica proletaria che metta il potere nelle mani di consigli operai e contadini elettivi. Questo potrebbe ispirare la rivoluzione socialista proletaria in tutta l’Asia capitalista, compreso il Giappone che ne è la roccaforte industriale, e oltre. La nascita di una Cina governata da consigli operai e contadini spingerebbe gli operai di Taiwan a rovesciare la loro classe dominante capitalista, portando alla riunificazione rivoluzionaria della Cina.

La polveriera cinese

Di fronte al malcontento che cresce in fondo alla società, il governo del Pcc di Hu Jintao ha posto freno ad alcune misure di “libero mercato” in nome della costruzione di una “società armoniosa”. I burocrati del Pcc si sono presentati come amici degli operai e in molte province e città le autorità sono state costrette a concedere forti aumenti dei salari minimi. Il regime burocratico del Pcc difende le conquiste incarnate nello Stato operaio deformato cinese solo nella misura in cui teme la classe operaia.

All’inizio i governanti del Pcc, cosa per loro insolita, hanno lasciato che gli scioperi, specialmente nelle fabbriche di proprietà giapponese, fossero pubblicizzati ampiamente dai media domestici. Si è anche vista una sincerità altrettanto insolita sulle crescenti diseguaglianze sociali della Cina. Il 13 maggio, il China Daily, citando un dirigente della Federazione cinese dei sindacati (Acftu), riportava che la percentuale del prodotto interno lordo destinata agli operai è caduta dal 57 percento nel 1983 al 37 nel 2005. Il 2 giugno, un editoriale del Global Times (un ramo del China Daily), diceva:

“Bisogna ammettere che a trent’anni dall’apertura, gli operai medi sono tra chi ha ricevuto la parte minore della prosperità economica (…) L’arresto temporaneo delle catene di montaggio in quattro fabbriche Honda in un momento di crescita della domanda di macchine giapponesi, evidenzia la necessità di proteggere in forma organizzata i lavoratori delle fabbriche cinesi”.

Alla fine, preoccupata dall’estensione degli scioperi, la burocrazia ha tagliato di netto la copertura giornalistica.

Sembra che molti dirigenti dello sciopero siano giovani operai emigrati tra cui, cosa importante, delle operaie. Hanno dimostrato un’impressionante combattività e capacità organizzativa, con l’uso di internet e degli sms per mobilitare gli operai e seguire gli sviluppi in altre fabbriche. Un avvenimento importante è stato la decisione degli operai di Foshan e di un’altra fabbrica della Honda a Zhongshan, di eleggere i dirigenti dello sciopero e dei comitati negoziali, indipendentemente dall’Acftu, la confederazione sindacale ufficiale legata al governo del Pcc. In molti casi i burocrati dell’Acftu hanno fatto apertamente causa comune con il management nel tentativo di imporre il ritorno al lavoro. Il 31 maggio dei picchiatori mandati dalla burocrazia sindacale hanno attaccato gli scioperanti dell’Honda a Foshan, facendo diversi feriti. Il giorno dopo gli stessi burocrati dell’Acftu hanno pubblicato un comunicato di scuse cercando di minimizzare il loro ruolo nell’attacco.

Tra le rivendicazioni avanzate dagli scioperanti di Foshan vi erano la “riorganizzazione del sindacato locale; la rielezione del presidente e degli altri rappresentanti sindacali”. L’11 giugno anche gli scioperanti di Zhongshan hanno organizzato un corteo che chiedeva il diritto degli operai di scegliersi i dirigenti sindacali. Se da un lato, nel 1982, i governanti stalinisti hanno tolto il diritto di sciopero dalla Costituzione cinese, dall’altro varie riforme introdotte nel 2008 al codice del lavoro hanno reso più facile agli operai organizzarsi per difendere i propri interessi. Molti scioperanti hanno detto chiaro e tondo ai giornalisti che credono di avere il diritto di scioperare, citando le riforme legislative.

Una lettera aperta scritta da una giovane operaia, Li Xiaojuan, in nome del comitato di negoziazione degli scioperanti di Foshan, diceva:

“Dobbiamo mantenere un alto livello di unità e non lasciarci dividere dai rappresentanti del Capitale (…) I profitti di questa fabbrica sono frutto del nostro duro lavoro (…) Questa lotta non è solo nell’interesse dei nostri 1.800 operai. Dobbiamo preoccuparci anche dei diritti e degli interessi di tutti gli operai cinesi” (Riportata dal Financial Times, Londra, 10 giugno).

Gli operai cinesi hanno bisogno di una direzione di lotta di classe per far avanzare la lotta per strappare quanto più possibile alle aziende capitaliste che li sfruttano, per combattere gli effetti disastrosi dell’inflazione e per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro. Anche gli operai delle industrie di Stato hanno bisogno di un’analoga direzione per migliorare le loro condizioni di vita e per battersi contro gli abusi della burocrazia. Parte integrante della lotta per sostituire il regime parassitario del Pcc col potere di consigli operai e contadini, dev’essere la costruzione di sindacati liberi dal controllo della burocrazia. Anche in uno Stato operaio governato da una vera democrazia operaia, servono dei sindacati come protezione da ogni possibile abuso e arbitrio e per contribuire alla pianificazione della produzione e dei metodi di lavoro. Trovandosi ad affrontare la questione dei sindacati nei primi anni dello Stato operaio sovietico, V.I. Lenin insisteva sul fatto che i comunisti devono lottare per dirigere i sindacati sulla base del loro programma e della loro condotta per conto dello Stato operaio. Devono essere scelti dagli operai, non nominati dallo Stato.

Il punto di partenza della lotta per sindacati liberi dal controllo della burocrazia dev’essere la difesa delle conquiste sociali della Rivoluzione del 1949, contro l’imperialismo e la restaurazione del capitalismo. Questo è doppiamente importante, date le manovre che stanno facendo forze filocapitaliste come il China Labour Bulletin (Clb) di Hong Kong, che promuove la “democrazia” all’occidentale, vale a dire il dominio degli sfruttatori capitalisti nascosto dietro la maschera del parlamento. Il Clb, che prima parteggiava per i cosiddetti “sindacati indipendenti”, adesso propone di lavorare all’interno dell’Acftu per sottrarla al controllo del Pcc. Anche se si traveste da organizzazione operaia, il Clb è un gruppo controrivoluzionario direttamente legato all’imperialismo Usa. Il suo capo, Han Dongfang, è anche vicepresidente del Movimento mondiale per la democrazia, un’organizzazione fondata e gestita dal National Endowment for Democracy, il Fondo nazionale per la democrazia, noto-riamente una facciata della Cia.

Parlando degli scioperi in Cina, i media borghesi occidentali rievocano lo spettro della Polonia e di Solidarnosc, il “sindacato” anticomunista che fu la punta di lancia della controrivoluzione capitalista in Europa orientale e in Unione Sovietica negli anni Ottanta. La linea più o meno dichiarata dei media è che gli operai cinesi dovrebbero mobilitarsi contro il governo del Partito comunista e abbracciare il “libero mercato”. Anche il Pcc rievoca lo spettro di Solidarnosc, pretendendo falsamente che qualsiasi opposizione organizzata al suo dominio dev’essere filo-capitalista e controrivoluzionaria. Un articolo di Willy Lam, un professore dell’Università cinese di Hong Kong, pubblicato il 14 giugno dal Wall Street Journal, diceva: “In un incontro sulle lotte sindacali, tenuto a porte chiuse e non reso pubblico, il Sig. Hu e altri membri del Politburo hanno ricordato che il defunto patriarca Deng Xiaoping invitava a stare attenti a come il movimento di Solidarnosc aveva scalzato i partiti comunisti di tutto l’ex blocco sovietico”.

A differenza della maggior parte dei sedicenti socialisti in tutto il mondo, noi della Lega comunista internazionale (quartinternazionalista) ci siamo opposti a Solidarnosc e ci siamo battuti fino all’ultimo contro la controrivoluzione capitalista nell’Europa dell’Est e in Unione Sovietica.

Quello cui assistiamo oggi in Cina non è uno sviluppo sulla falsa riga di Solidarnosc. Lo sviluppo di Solidarnosc come movimento controrivoluzionario, fu condizionato da fattori che non esistono in Cina, come il radicamento della Chiesa cattolica in Polonia e il ruolo del nazionalismo polacco, rivolto contro l’Unione Sovietica. Inoltre gli attuali scioperi in Cina protestano contro il brutale sfruttamento imposto in grandi aziende di proprietà privata dei capitalisti, che non esistevano in Polonia nel 1980. Bisogna combattere con forza qualsiasi illusione nella “democrazia” capitalista tra gli operai cinesi. Ma non vi è ragione di pensare che quello che si sviluppa oggi in China sia un movimento di massa filocapitalista tra gli operai.

Per un governo di consigli operai e contadini!

Gli scioperi degli operai emigranti, che sono interesse di tutti i lavoratori cinesi, mostrano la necessità di abolire il sistema di registrazione familiare discriminatorio, basato sul cosiddetto hukou imposto dal governo del Pcc. Questo sistema impone forti limitazioni alla possibilità per chi emigra dalle campagne e per i suoi figli di risiedere legalmente in città e di accedere ad istruzione e assistenza sanitaria, rendendone la permanenza temporanea e incerta. I posti di lavoro nell’industria di Stato e le forme di assistenza connesse, restano in genere privilegio degli operai con un hukou urbano. La precaria condizione degli operai emigranti è stata una manna per gli sfruttatori capitalisti nel settore straniero, che hanno avuto a disposizione un serbatoio di manodopera da sfruttare a salari bassissimi. Molti giovani operai che oggi lavorano in fabbrica sono cresciuti in città da famiglie emigrate, ma nemmeno loro sono considerati residenti per le vergognose limitazioni all’hukou imposte dalla burocrazia. Gli operai emigranti devono avere pari diritti e accesso ai servizi sociali di quelli legalmente residenti!

Un governo di consigli elettivi di operai e contadini rappresenterebbe tutti i settori del proletariato e dei lavoratori rurali. Le questioni decisive che lo Stato operaio deve affrontare possono essere risolte efficacemente solo quando chi lavora, decide. Come spiegò il dirigente marxista Leon Trotsky, nella sua sferzante condanna della burocrazia stalinista, La Rivoluzione tradita (1936): “Non si tratta di sostituire una combriccola dirigente con un’altra, ma di mutare i metodi stessi della direzione economica e culturale. L’arbitrio burocratico dovrà cedere il posto alla democrazia sovietica”.

La politica della burocrazia del Pcc a favore del mercato ha rinvigorito le forze della controrivoluzione interna. Al contempo, il potere sociale della classe operaia industriale è aumentato moltissimo con lo sviluppo economico. L’ingresso di 150 milioni di emigrati dalle campagne nell’economia delle città cinesi è un fattore che ha un potenziale enorme. Perché trovi uno sbocco rivoluzionario, proletario e internazionalista serve un partito leninista-trotskista. Come abbiamo scritto in “Le operaie e le contraddizioni della Cina contemporanea” (Spartaco n. 72, marzo 2010):

“Ad un certo punto, probabilmente quando gli elementi borghesi in seno e nella periferia della burocrazia agiranno per eliminare il potere politico del Pcc, le esplosive tensioni sociali che si stanno accumulando nella società cinese sconvolgeranno l’intera struttura politica della casta burocratica dominante. Quando questo avverrà, il destino della Cina sarà posto in maniera netta. O gli operai spazzeranno via l’elite parassitaria dominante con una rivoluzione politica proletaria che difenda ed estenda le conquiste della Rivoluzione del 1949 e faccia della Cina un bastione della lotta per il socialismo mondiale, o vincerà la controrivoluzione capitalista, riportando con sé il giogo dello sfruttamento imperialista”.

Un governo rivoluzionario di operai e contadini porrebbe fine all’arbitrio e alla corruzione burocratici. Esproprierebbe la nuova classe di imprenditori capitalisti domestici, rinegoziando le condizioni degli investimenti stranieri a vantaggio dei lavoratori. Creerebbe un’economia pianificata, gestita centralmente da una democrazia operaia, non con l’autoritarismo burocratico e autarchico dell’era di Mao. Pur battendosi per dare a tutti un minimo di sicurezza economica, una vera direzione comunista saprebbe che la possibile prosperità materiale per tutti ruota attorno alla lotta per la rivoluzione socialista nei centri del capitalismo mondiale. A questa prospettiva si oppone con veemenza il governo nazionalista del Pcc, la cui politica deriva dal dogma stalinista della “costruzione del socialismo in un solo paese”. Il fatto che gli operai delle zone capitaliste della Cina siano sfruttati dalle stesse aziende che sfruttano i lavoratori in Giappone, negli Usa, ecc., crea la possibilità di una solidarietà internazionale e addita agli operai il loro comune interesse di lottare per un mondo socialista. Per sopravvivere ed estendersi, le conquiste rivoluzionarie della Cina e la modernizzazione di tutta la società a vantaggio delle masse lavoratrici, richiedono un’economia socialista pianificata a scala internazionale, che apra la strada a un futuro comunista globale. Questo è l’obiettivo della Lega comunista internazionale, che si batte per riforgiare la Quarta internazionale di Trotsky, partito mondiale della rivoluzione proletaria.

Tradotto da Workers Vanguard, n.961 (2 luglio 2010).