Spartaco n. 72 |
Marzo 2010 |
Le operaie e le contraddizioni della Cina contemporeanea
Difendere la Cina contro imperialismo e controrivoluzione!
Per la rivoluzione politica operaia!
Donne e Rivoluzione
La condizione delle donne nell’odierna società cinese è un indice preciso delle enormi contraddizioni che attraversano questo Stato operaio burocraticamente deformato, che noi trotskisti difendiamo incondizionatamente dall’imperialismo e dalla controrivoluzione sociale interna. Osservando la condizione delle donne cinesi si comprendono le enormi conquiste della Rivoluzione del 1949, rispetto alla vecchia Cina arretrata, tradizionalista e dominata dagli imperialisti.
Il rovesciamento del dominio di classe capitalista ha gettato le basi per una vasta crescita della produzione sociale, del livello di vita e dei diritti delle donne e ha liberato centinaia di milioni di donne e di uomini cinesi dall’arretratezza rurale, inserendoli nella forza lavoro di una società sempre più industrializzata.
Il progresso della Cina dopo la Rivoluzione del 1949 e la collettivizzazione dell’economia, conseguente all’espropriazione della borghesia come classe, dimostra gli immensi vantaggi di un’economia la cui forza motrice non è la produzione per il profitto privato. Fino alla recessione globale del 2008, per vent’anni il tasso di crescita economica della Cina è stato in media del 10 percento annuo. Oggi il 40 percento della popolazione vive nelle città. Più della metà della popolazione in età lavorativa è impiegata nel settore manifatturiero, dei trasporti, delle costruzioni o nei servizi pubblici. Si tratta di sviluppi progressisti di grande portata storica, di gran lunga superiori alla crescita delle neocolonie capitaliste dell’Asia. L’India per esempio ha ottenuto l’indipendenza nazionale poco prima della Rivoluzione cinese, ma la sua economia è rimasta capitalista. Il prodotto interno lordo pro capite dell’India è metà di quello cinese, mentre il tasso di povertà in Cina è metà di quello indiano. In Cina la percentuale di malnutrizione tra i bambini è un quarto di quella indiana e circa il 90 percento delle donne sanno leggere e scrivere, quasi il doppio della percentuale indiana.
Il tasso di crescita della Cina è ancor più spettacolare se lo si confronta con la stagnazione o il declino delle economie dell’Occidente capitalista o del Giappone. Certo, la Cina non è del tutto immune dalla distruttiva irrazionalità del mercato mondiale capitalista. L’attuale collasso finanziario ha già avuto un impatto negativo sull’economia cinese. In particolare nel 2008 hanno perso il lavoro molti operai delle fabbriche private che producono merci (come giocattoli, apparecchiature, beni di consumo) per l’esportazione ai consumatori del “mondo occidentale”.
Ma fondamentalmente la Cina rimane uno Stato operaio isolato sul piano nazionale con un vasto settore agricolo estremamente povero. Il capitale per abitante rimane di 30 volte inferiore a quella di Stati Uniti o Giappone. Questa perdurante penuria materiale è un ostacolo fondamentale alla liberazione delle donne e dei lavoratori cinesi. Si può costruire una società comunista solo sulla base della tecnologia più moderna e di una divisione internazionale del lavoro, e per questo serve che la rivoluzione proletaria si estenda ad un certo numero di paesi capitalisti avanzati. Invece i dirigenti del Partito comunista cinese (Pcc), a partire da Mao Zedong, passando per Deng Xiaoping e i suoi successori, fino all’attuale governo di Hu Jintao, hanno predicato l’idea profondamente contraria al marxismo, secondo cui è possibile costruire il socialismo in un solo paese. Nella pratica, il “socialismo in un solo paese” si è tradotto in una riconciliazione con l’imperialismo mondiale e nell’opposizione alla prospettiva di una rivoluzione operaia a scala internazionale.
Non si può costruire il socialismo, una società egualitaria e senza classi, in un solo paese. E’ possibile solo sulla base di un enorme balzo in avanti della produttività e nel contesto di un’economia pianificata a scala internazionale. Come spiegò Karl Marx: “Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società” (Critica del Programma di Gotha, 1875). L’emancipazione delle donne richiede che l’oppressiva famiglia patriarcale sia sostituita dalla collettivizzazione della cura dei bambini e dei lavori domestici. Oggi, la stragrande maggioranza delle donne cinesi continua ad essere intrappolata nell’istituzione della famiglia, in cui le operaie, dopo una giornata di lavoro, sono costrette a fare il “secondo turno” dei lavori domestici. Gli stalinisti hanno adottato la famiglia come fosse parte integrante della società socialista, aggiungendo una barriera ideologica all’ostacolo già formidabile della penuria materiale.
La situazione delle dagongmei (sorelle operaie), le decine di milioni di giovani donne di origine contadina emigrate nelle città per lavorare nelle aziende capitaliste in maggioranza straniere, getta una luce particolarmente cruda su queste contraddizioni. L’aspetto centrale delle “riforme” di mercato attuate dal Pcc al potere negli ultimi trent’anni, è stata la creazione di Zone economiche speciali e di altre aree dove gli operai vengono sfruttati brutalmente nelle fabbriche di proprietà dei capitalisti cinesi rifugiati a Hong Kong e a Taiwan, o delle multinazionali americane, europee, giapponesi o sud coreane. Queste aziende fanno affidamento su di una forza lavoro che consiste principalmente di emigranti provenienti dalle aree rurali più povere della Cina.
Nell’agosto del 2008, il sito internet Stratfor stimava che questi operai migranti fossero tra 150 e 200 milioni, un vero “popolo galleggiante”. Anche se a livello nazionale si tratta soprattutto di uomini, ad esempio le catene di montaggio di Dongguan, nel delta del Fiume delle Perle, una delle più grandi città fabbrica della Cina, hanno attratto gli operai più giovani e meno qualificati, tra i quali si stima che il 70 percento siano donne. Queste donne nubili, in gran parte sui vent’anni, lasciano per la prima volta le condizioni avvilenti della famiglia contadina tradizionale per partecipare alla produzione sociale collettiva e a volte alla lotta sociale collettiva.
Quest’enorme forza-lavoro emigrante si aggiunge a quello che è il potente cuore strategico del proletariato cinese, raccolto nel settore dell’industria pesante, in gran parte di proprietà statale. La visione presentata da gran parte dei media capitalisti e riecheggiata dalla sinistra riformista, secondo cui la Cina non sarebbe che un gigantesco laboratorio clandestino per la produzione di manufatti leggeri, è falsa. Così come è falsa la pretesa dei gruppi della sinistra riformista secondo cui la Cina si è in qualche modo trasformata in uno Stato capitalista. Anche se gli imperialisti, la borghesia cinese espatriata e i capitalisti locali sono riusciti a penetrare in profondità nell’economia cinese, i suoi settori decisivi, tra cui il sistema bancario, restano controllati e di proprietà dello Stato. Le imprese statali controllate direttamente dai ministeri centrali di Pechino, forniscono un terzo dell’intera produzione nazionale. Ed è questo terzo che costituisce il nucleo strategico dell’economia industriale della Cina.
Da più di dieci anni, la Cina è il terzo principale produttore d’acciaio mondiale ed ora fornisce più di un terzo della produzione globale. Il gigantesco sviluppo delle infrastrutture (ferrovie, strade, trasporti di massa) è stato possibile solo grazie all’esistenza dell’economia collettivizzata. In risposta al terremoto che ha colpito il Sichuan nel maggio del 2008, il governo ha messo in moto un piano volto a costruire più di un milione di case prefabbricate nel giro di 3 mesi, a dare da mangiare a cinque milioni di senza tetto e a ricostruire o spostare interi paesi e città rasi al suolo. A questo fine sono state usate centinaia di fabbriche di Stato e le grandi imprese statali hanno avuto ordine di aumentare la produzione dei materiali necessari. Il contrasto con il trattamento anti-operaio che i governanti razzisti capitalisti degli Stati Uniti hanno riservato alle vittime, in maggioranza nere, dell’uragano Katrina, non ha bisogno di commenti.
Eppure, proprio mentre la rapida crescita economica migliorava la vita di milioni di cinesi, il divario tra ricchi e poveri e tra città e campagne si è allargato. Ora ci sono molte più risorse per soddisfare le esigenze di base della popolazione, ma la burocrazia al potere ha fornito con il contagocce i fondi per l’assistenza sanitaria pubblica e per l’educazione elementare. Il crescere delle disuguaglianze e il peggioramento dei servizi sociali ha suscitato vaste proteste. Ci sono molte lotte operaie: contro la chiusura di fabbriche, contro il mancato pagamento dei salari, delle pensioni e dei benefit nelle imprese di Stato, contro le condizioni di brutale sfruttamento nel settore privato. Le regioni rurali sono percorse da proteste contadine contro le espropriazioni illegali di terre da parte dei funzionari locali, ma anche contro la corruzione, l’inquinamento ed altri abusi. Dopo il terremoto che ha colpito il Sichuan, genitori e nonni infuriati e addolorati hanno organizzato proteste contro la corruzione che stava dietro alla costruzione di scuole fatiscenti, che sono crollate uccidendo migliaia di bambini.
In Cina serve una rivoluzione politica proletaria, guidata da un partito marxista rivoluzionario (vale a dire, leninista-trotskista), che cacci la burocrazia stalinista, questa casta parassitaria e reazionaria. Al posto del dominio della burocrazia, bisogna instaurare il potere dei consigli elettivi di operai e contadini, dediti alla lotta per la rivoluzione socialista internazionale. La forza motrice di questa rivoluzione politica la si può vedere nelle gigantesche lotte difensive del proletariato cinese, come la rivolta di ventimila minatori e delle loro famiglie nel 2000 a Yangjiazhangzi, una città industriale del Nordest. Mentre i minatori incendiavano macchine e costruivano barricate per protestare contro la svendita di una miniera statale di molibdeno agli amici dei manager, uno di loro ha detto amaramente: “Noi minatori lavoriamo qui per la Cina e per il Partito comunista fin dall’epoca della rivoluzione. Adesso, d’un colpo la mia parte di miniera è privata” (Washington Post, 5 aprile 2000). Gli operai capivano che la proprietà statale appartiene ai lavoratori. Che diritto hanno i manager di svenderla?
Gli operai emigranti, donne e uomini, che lavorano nelle imprese private, possono giocare un ruolo importante nella lotta per difendere ed estendere le conquiste della Rivoluzione del 1949, schierandosi al fianco dei battaglioni pesanti del proletariato industriale del settore statale.
C’è una sola strada che porta alla modernizzazione economica e sociale della Cina e alla completa emancipazione delle donne: quella della rivoluzione proletaria internazionale. Solo l’abbattimento del dominio di classe dei capitalisti nel cuore economicamente più sviluppato dell’imperialismo mondiale, può creare le basi materiali necessarie ad eliminare la povertà e a far compiere un passo in avanti qualitativo al tenore di vita di tutti, creando un’economia pianificata a scala globale in cui la produzione sociale non sia più basata sul profitto privato. In Cina un governo operaio e contadino promuoverebbe l’eguaglianza sociale ed economica delle donne in ogni sfera della vita, pur sapendo che la loro completa emancipazione, come quella dell’umanità intera, ruota attorno alla lotta per rovesciare in tutto il mondo il dominio della borghesia e al vasto progresso della produzione sociale che ne deriverebbe.
Le mire controrivoluzionarie degli imperialisti in Cina
Fin dalla rivoluzione del 1949 e dalla Guerra di Corea del 1950-53, passando per il rifornimento di armi a Taiwan, l’imperialismo Usa non ha mai smesso di rincorrere il rovesciamento dello Stato operaio deformato cinese, per riconquistare il continente allo sfruttamento capitalista senza vincoli. Dopo che la controrivoluzione capitalista ha distrutto l’Unione Sovietica nel 1991-92, gli Stati Uniti e le altre potenze imperialiste hanno fatto della Cina il loro principale obiettivo strategico. Le basi Usa in Asia centrale fanno parte di un piano di accerchiamento della Cina con installazioni militari americane. Il Pentagono persegue attivamente un piano di “difesa” balistica volto a neutralizzare la capacità della Cina di rispondere ad un primo attacco nucleare americano. Nel 2005 gli Usa hanno stipulato un accordo col Giappone per la difesa di Taiwan, bastione della borghesia cinese espatriata.
Noi appoggiamo lo sviluppo di armi nucleari da parte della Cina e della Corea del Nord, armi che fanno parte del deterrente necessario contro i ricatti nucleari degli imperialisti. In una dichiarazione congiunta intitolata “Abbasso l’alleanza controrivoluzionaria di Usa e Giappone!”, le sezioni americana e giapponese della Lega comunista internazionale hanno rivendicato di battersi “per la difesa militare incondizionata della Cina, della Corea del Nord e degli altri Stati operai deformati (Cuba e Vietnam) dagli attacchi imperialisti e dalla controrivoluzione capitalista interna. ( ) Ci opponiamo ai piani di riunificazione degli stalinisti con Taiwan secondo la dottrina di ‘un paese, due sistemi’. Proponiamo invece un programma di riunificazione rivoluzionaria della Cina, che richiede una rivoluzione politica contro la burocrazia stalinista sul continente, una rivoluzione socialista proletaria a Taiwan per rovesciare ed espropriare la borghesia e l’espropriazione dei capitalisti di Hong Kong” (Spartaco n. 66, settembre 2005). In netto contrasto con la sinistra riformista a livello internazionale, abbiamo condannato anche la campagna imperialista per il “Tibet libero” e per i “diritti umani”, che punta a raccogliere l’opinione pubblica anticomunista contro la Repubblica popolare.
Il regime bonapartista di Pechino ostacola la difesa e l’estensione delle conquiste della rivoluzione. Il Pcc, che sotto la direzione di Mao condusse la rivoluzione del 1949, si basava sui contadini e non sulla classe operaia, perciò la rivoluzione sfociò in uno Stato operaio deformato. Il Pcc stalinista si consolidò a formare una casta burocratica privilegiata che come un parassita sedeva in sella ad un’economia che venne rapidamente collettivizzata. La burocrazia non svolge un ruolo essenziale nella produzione sociale. Essa mantiene la sua posizione privilegiata alternando repressione e periodiche concessioni a settori di un proletariato recalcitrante. Gli oppositori del regime stalinista rischiano non solo la prigione, ma anche il terrore di Stato della pena di morte, prevista dal codice penale. Come marxisti ci opponiamo per principio all’istituzione della pena di morte, negli Stati operai deformati come in quelli capitalisti.
Di fronte all’ostilità e alle pressioni militari dell’imperialismo Usa, il governo maoista inizialmente adottò un atteggiamento “antimperialista”, che però si tradusse rapidamente nella promozione e nella riconciliazione con i regimi nazionalisti borghesi in Asia ed altrove. Mao sostenne il Pc indonesiano nel suo appoggio al governo capitalista di Sukarno, una disastrosa politica di collaborazione di classe che spianò la strada al massacro di più di mezzo milione di comunisti, operai e contadini da parte dell’esercito nel 1965. Nello stesso periodo, le crescenti tensioni tra le burocrazie nazionaliste di Mosca e Pechino, portarono alla rottura tra i due governi. All’inizio degli anni Settanta, Mao aveva ormai forgiato una criminale alleanza con l’imperialismo Usa contro l’Unione Sovietica, proprio mentre gli Stati Uniti riversavano una pioggia di bombe sugli eroici operai e contadini vietnamiti.
Alla morte di Mao nel 1976, la Cina aveva ormai costruito un sostanziale settore industriale pesante, ma rimaneva una società decisamente rurale. La produzione agricola continuava ad essere tecnologicamente arretrata ed un’ampia percentuale di contadini viveva in condizioni di abietta povertà. L’introduzione di “riforme” di mercato sotto il governo di Deng nel 1978, seguiva un percorso connaturato al dominio bonapartista degli stalinisti. Per poter funzionare efficacemente, un’economia pianificata a livello centrale deve essere gestita da un governo di consigli operai democraticamente eletti. Invece i governanti stalinisti sono ostili a qualsiasi espressione di democrazia operaia, cui sostituiscono arbitrari diktat amministrativi. Dati gli squilibri intrinseci ad un’economia pianificata gestita burocraticamente, i regimi stalinisti tendono a rimpiazzare la pianificazione e la gestione centralizzate con dei meccanismi di mercato. Se manager e operai non sono sottoposti alla disciplina della democrazia dei consigli operai, la burocrazia cerca sempre più di assoggettare gli attori economici alla disciplina della competizione di mercato, che considera l’unica risposta all’inefficienza economica (si veda l’opuscolo di Spartacist: “‘Market Socialism’ in Eastern Europe” [“Socialismo di mercato” nell’Europa dell’Est], luglio 1988).
La politica della burocrazia del Pcc ha rafforzato enormemente le potenziali forze controrivoluzionarie all’interno della Cina, generando una nuova classe di ricchi imprenditori capitalisti e uno strato di manager e tecnocrati con un tenore di vita privilegiato. Il nazionalismo fautore della “Grande Cina” (che si sovrappone allo sciovinismo Han), promosso dalla burocrazia dominante, serve a legittimare la crescita di queste forze di classe ostili e ad infettare le masse operaie e contadine con l’ideologia nazionalista borghese. Questo veleno nazionalista, che ha accomunato i governi di Mao, di Deng e di Hu (condito di tanto in tanto con la retorica sulla società socialista “armoniosa”), viene sfruttato per mantenere la coesione sociale. Sia l’autoritarismo burocratico alla maniera di Mao, sia la frusta del mercato usata da Deng e dai suoi successori, appartengono alla sfera del nazionalismo stalinista. Entrambi sono ostili e opposti alla democrazia operaia e alla prospettiva fondamentale della rivoluzione socialista internazionale. Il partito rivoluzionario della classe operaia necessario a guidare alla vittoria una rivoluzione politica proletaria, si può costruire solo in totale opposizione al nazionalismo intrinseco dello stalinismo.
La via internazionalista rivoluzionaria alla liberazione delle donne
Noi marxisti sappiamo che l’istituzione della famiglia non è immutabile né eterna, ma un rapporto sociale soggetto a cambiamenti storici. Nella sua classica opera del 1884, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Friedrich Engels riconobbe nella divisione in classi della società, l’origine della famiglia e dello Stato. L’esistenza di un surplus sociale che andasse oltre la mera sussistenza, resa possibile dal sorgere dell’agricoltura, consentì lo sviluppo di una classe dominante oziosa, fondata sull’appropriazione privata del surplus, e pose fine al primitivo egualitarismo che aveva caratterizzato le società umane per tutto il paleolitico. La centralità della famiglia ebbe inizio col suo ruolo nella trasmissione ereditaria della proprietà, la quale richiedeva la monogamia sessuale delle donne e la loro subordinazione sociale. Nei diecimila anni successivi all’avvento della società divisa in classi, la famiglia prese molte forme, dalla poligamia alla famiglia allargata a quella nucleare, riflessi di differenti economie politiche e delle relative religioni. Ma l’oppressione delle donne fu un tratto essenziale di tutte le società divise in classi.
Le politiche attuate verso le donne russe oppresse dal primo governo sovietico, guidato da V.I. Lenin e Lev Trotsky, facevano parte integrante del programma emancipatore ed internazionalista del marxismo. Lo Stato sovietico delle origini si estendeva su di un paese economicamente arretrato, dove l’asservimento delle donne aveva profonde radici nei rapporti di produzione di una società a maggioranza contadina, basata sul lavoro familiare. Inoltre l’economia industriale delle città della Russia sovietica era stata devastata per sette anni: prima dalla guerra imperialista, poi dalla guerra civile, che avevano decimato le fila degli operai delle città protagonisti della rivoluzione. Nonostante la terribile situazione, i bolscevichi fecero tutto il possibile per migliorare le condizioni delle donne sotto ogni punto di vista. Intanto si battevano con tutte le forze per spezzare l’isolamento del giovane Stato operaio, costruendo l’Internazionale comunista (Comintern) per promuovere e guidare la lotta per la rivoluzione proletaria mondiale.
La legislazione sovietica originaria dava la piena uguaglianza alle donne in tutte le sfere, compresi il diritto di voto, di divorzio e di proprietà. La Chiesa ortodossa venne ufficialmente e interamente separata dal potere statale e uno dei primi decreti sancì il principio di non interferenza del governo in tutte le questioni sessuali consensuali private. Ma i bolscevichi sapevano che non bastavano le misure democratiche. Come disse Lenin a delle operaie nel 1919: “La situazione della donna per quanto riguarda i lavori domestici, resta tuttora penosa. Perché la donna sia completamente libera e realmente pari all'uomo, bisogna che i lavori domestici siano un servizio pubblico e che la donna partecipi al lavoro produttivo generale. Allora essa avrà una posizione eguale a quella dell'uomo” (“I compiti del movimento operaio femminile nella Repubblica sovietica”, settembre 1919).
Il primo governo sovietico adottò misure di vasta portata per liberare le donne dalla servitù domestica, tra cui la cura collettiva dei bambini e l’istituzione di mense comuni. Queste misure si scontrarono col muro della povertà. L’aborto gratuito a richiesta, per esempio, fu consentito per legge nel 1920, ma nel paese non c’erano abbastanza dottori, medicinali e ospedali per consentire di abortire a tutte le donne che lo chiedevano, specialmente nelle campagne. Si dava precedenza alle lavoratrici, con grandi sofferenze per chi veniva respinta.
I dirigenti bolscevichi sapevano che per avanzare verso il socialismo ed emancipare le donne dall’oppressione della famiglia, serviva un enorme balzo nella produzione sociale e confidavano in una rapida estensione della rivoluzione nell’Europa centro occidentale. Ma con la sconfitta dell’ondata di insurrezioni operaie che seguì la Rivoluzione bolscevica, specialmente in Germania nel 1923, la demoralizzazione si impadronì delle masse lavoratrici. L’isolamento, la povertà e la sconfitta alimentarono l’ascesa di una casta burocratica conservatrice, raccolta attorno alla figura di Josif Stalin, che giunse a dominare il Partito comunista sovietico e lo Stato a partire dall’inizio del 1924. Alla fine di quell’anno, la burocrazia stalinista coniò per la prima volta il dogma nazionalista del “socialismo in un paese solo”. Consolidando il suo potere negli anni successivi, essa abbandonò sempre più la lotta per la rivoluzione mondiale. Questo ebbe un impatto diretto sulla Rivoluzione cinese del 1925-27. Sul piano interno, gli stalinisti sovietici cancellarono molte conquiste che le donne avevano ottenuto con la rivoluzione. Nel 1936 venne reso illegale l’aborto e fu sancito che la liberazione delle donne doveva consistere nella “ricostruzione della famiglia su nuove basi socialiste” (Per una discussione approfondita di questo argomento, si legga: “The Russian Revolution and the Emancipation of Women” [La Rivoluzione russa e l’emancipazione delle donne], Spartacist n. 59, primavera 2006.)
Nella Rivoluzione tradita, opera del 1936 che costituisce una condanna senz’appello della burocrazia, Lev Trotsky spiegò perché gli stalinisti avevano finito col glorificare l’oppressiva istituzione della famiglia. Partendo dall’arretratezza materiale dell’Unione Sovietica, Trotsky scrisse che:
“La famiglia non può essere abolita: bisogna sostituirla. La liberazione delle donne è irrealizzabile sulla base della penuria generalizzata. ( ) Invece di dire: ci siamo trovati troppo poveri e troppo incolti per stabilire relazioni socialiste tra gli uomini, i nostri figli e i nostri nipoti lo faranno; i capi del regime incollano i cocci rotti della famiglia e impongono, con la minaccia dei peggiori rigori, il dogma della famiglia, fondamento sacrosanto del socialismo trionfante. E’ penoso constatare l’ampiezza di questa ritirata!”
La polemica di Trotsky vale anche per i governanti stalinisti della Cina, che all’epoca della Rivoluzione del 1949 era ancora più arretrata della Russia. Basandosi sul dogma stalinista, il Pcc al potere glorifica anch’esso la famiglia come istituzione “socialista”. Nonostante tutta la retorica sulla “eguaglianza” le donne devono ancora conquistare sia uguale paga a uguale lavoro, sia la parità nell’accesso alla formazione professionale e ai lavori più qualificati. Invece si inculcano alle masse cinesi i “valori familiari”. I programmi televisivi cinesi sono pieni di storie che esaltano “l’amore dei figli” disposti a grandi sacrifici per prendersi cura degli anziani genitori. La Federazione nazionale cinese delle donne organizza concorsi per le “dieci migliori madri” e le “cinque buone famiglie”.
La Cina e la rivoluzione permanente
L’estrema degradazione delle donne nella vecchia Cina era parte integrante dei valori confuciani che soffocavano la popolazione sotto il peso di antiche tradizioni e di rapporti sociali pre-capitalisti. In un classico esempio della compenetrazione tra famiglia, classe e Stato, la Cina confuciana tradizionale prescriveva l’obbedienza filiale al padre, al proprietario terriero e all’imperatore. Per una donna ciò significava la servitù totale. Non poteva ereditare né possedere terre. Veniva educata ad essere non solo sottomessa, ma invisibile. Dominata dal padre, dal marito o dal figlio, poteva essere venduta come moglie, concubina o prostituta. La pratica della fasciatura dei piedi, una vera e propria mutilazione nata come costume delle classi superiori, nel diciannovesimo secolo era “vigorosamente accettata dall’aristocrazia e imitata ovunque possibile dai contadini. Filtrando tra le masse contadine, la norma della fasciatura dei piedi perse la connotazione elitaria e in molte regioni della Cina divenne un criterio essenziale perché una ragazza fosse considerata da marito” (Susan Greenhalgh, “Bound Feet, Hobbled Lives: Women in Old China” [Piedi fasciati, vite azzoppate: le donne della vecchia Cina], Frontiers: A Journal of Women Studies, primavera 1977).
Le storiche conquiste della rivoluzione agraria e dei più elementari diritti democratici delle donne (come il diritto di scegliersi il marito o di possedere proprietà) sono considerate dai marxisti un compito delle rivoluzioni democratico-borghesi, come quelle iniziate nel diciassettesimo secolo in Europa. Ma la Cina non poté ripercorrere questo cammino. La borghesia indigena era troppo debole, corrotta e dipendente dall’imperialismo, troppo legata ai latifondisti rurali, troppo timorosa della classe operaia e delle masse contadine, per potersi fare carico di compiti democratico-borghesi come la liberazione nazionale o l’abbattimento delle classi di proprietari terrieri tradizionalisti che opprimevano e sfruttavano i contadini.
Nel 1911 la prima Rivoluzione cinese vide il rovesciamento della dinastia Qing (Manciù) per opera di un movimento repubblicano nazionalista borghese. Il partito nazionalista del Guomindang (Gmd), fondato l’anno successivo, si occupò di alcuni aspetti della terribile condizione delle donne (opponendosi ad esempio alla fasciatura dei piedi), poiché ogni tentativo di modernizzazione della società cinese si scontrava immediatamente con la questione femminile. Ma la rivoluzione del 1911, attuata con l’aiuto delle potenze imperialiste, lasciò il paese diviso sotto il dominio dei signori della guerra e degli imperialisti.
Durante e dopo la Prima guerra mondiale, la Cina conobbe uno sviluppo della produzione industriale e insieme ad esso di un proletariato poco numeroso ma potente. Le operaie costituivano un settore significativo della forza-lavoro, che nel 1919 contava 1 milione e mezzo di operai concentrati in grandi imprese nelle aree urbane. La Cin divenne un esempio da manuale di sviluppo diseguale e combinato: le industrie più moderne dominavano le città nascenti, mentre nelle vaste campagne continuavano a regnare condizioni di miseria feudale. Ciò metteva all’ordine del giorno il programma della rivoluzione permanente, sviluppato inizialmente da Trotsky nelle particolari condizioni della Russia zarista, per il quale la realizzazione dei compiti della rivoluzione democratica nei paesi a sviluppo capitalista ritardatario era inconcepibile se non sotto forma di una dittatura del proletariato appoggiata dalle masse dei contadini oppressi.
Solo la conquista del potere da parte del proletariato, che avrebbe necessariamente ed immediatamente posto all’ordine del giorno compiti socialisti, e la battaglia per estendere il potere operaio ai paesi capitalisti avanzati, potevano spezzare le catene che avviluppavano la Cina.
La possibilità di una simile rivoluzione iniziò a vedersi in Cina nel 1919, allo scoppio del Movimento del 4 maggio, un’insurrezione a base studentesca contro il giogo imperialista e lo spezzettamento del paese. Da esso derivò nel 1921 la formazione del Partito comunista, guidato da Chen Duxiu, un intellettuale cinese di spicco che, ispirato dalla Rivoluzione russa del 1917, era passato dal liberalismo radicale al marxismo. Il partito crebbe stabilmente per alcuni anni per poi svilupparsi in maniera esplosiva dopo lo scoppio della seconda Rivoluzione cinese, nel 1925, quando conquistò la fiducia di centinaia di migliaia di operai e di strati degli intellettuali radicali delle città.
Il Pcc delle origini fece grandi sforzi per conquistare le donne cinesi. Sottolineò la concezione materialista per cui l’oppressione delle donne aveva le sue radici nell’istituzione della famiglia e poteva essere eliminata solo superando l’arretratezza complessiva della società cinese. Già prima del congresso di fondazione del Pcc, i comunisti del Guangzhou pubblicavano un giornale per le donne, Donne e movimento operaio. Nel 1922 il Pcc costituì un comitato per dirigere il lavoro tra le donne, sul modello della sezione delle donne del Partito bolscevico, inizialmente concentrato a Shanghai, dove le donne formavano più di metà della classe operaia.
Ma l’impulso iniziale del Pcc a cercare una soluzione rivoluzionaria proletaria sull’esempio della rivoluzione bolscevica fu rapidamente soffocato. Nel 1922 un rappresentante del Comintern diede istruzioni al Pcc perché aderisse al Guomindang nazionalista borghese. Nei due o tre anni successivi, questo si tradusse in una completa liquidazione del giovane partito operaio. Ciò equivalse alla resurrezione di una variante retrograda della teoria menscevica della “rivoluzione a tappe”, già confutata nella Russia zarista dalla Rivoluzione bolscevica: vale a dire la subordinazione degli interessi del proletariato ad un’immaginaria borghesia “progressista”, che in realtà era legata agli imperialisti e ai proprietari terrieri. Trotsky si batté in seno al Comintern contro la liquidazione politica del Pcc e inizialmente anche un ampio settore della direzione del partito cinese, tra cui lo stesso Chen Duxiu, si oppose a questa politica disastrosa.
Il massacro di Shanghai del 1927 segnò la sanguinosa sconfitta della seconda Rivoluzione cinese. Il Gmd, capeggiato da Chiang Kai-shek decapitò l’avanguardia della classe operaia cinese, uccidendo decine di migliaia di operai e distruggendo le organizzazioni del proletariato. Un terrore particolarmente selvaggio fu riservato alle organizzazioni femminili guidate dai comunisti, che minacciavano alle fondamenta (classe e famiglia) la borghesia cinese. Migliaia di attiviste comuniste furono stuprate, torturate e uccise per il “crimine” di avere i capelli corti o di indossare “abiti maschili”.
La catastrofe del 1927 spinse Trotsky alla conclusione che la teoria della rivoluzione permanente aveva un valore generale per tutti i paesi a sviluppo capitalista ritardatario in cui esistesse una concentrazione sufficiente di proletariato (si veda l’opuscolo di Spartacist: The Development and Extension of Leon Trotsky’s Theory of Permanent Revolution [Lo sviluppo e l’estensione della teoria della rivoluzione permanente di Lev Trotsky], aprile 2008). Nella sua Critica della bozza di programma dell’Internazionale comunista, scritta nel 1928 e pubblicata col titolo di La Terza internazionale dopo Lenin, Trotsky trattò estesamente della crisi cinese, ricapitolando le implicazioni internazionali del dogma del “socialismo in un paese solo” promulgato dal Comintern stalinizzato.
Alla sua battaglia contro la collaborazione di classe e per l’indipendenza di classe del proletariato da tutte le ali della borghesia si unirono centinaia di giovani comunisti cinesi che studiavano a Mosca, oltre che elementi chiave del Pcc in Cina, compreso Chen Duxiu, che divenne il principale dirigente del trotskismo cinese.
Negli anni immediatamente successivi, Mao giunse alla direzione del Pcc. Abbandonando le città per seguire la via della guerriglia contadina, il Pcc cambiò natura (vedi Benjamin I. Schwartz, Chinese Communism and the Rise of Mao [Il comunismo cinese e l’ascesa di Mao], 1967). Per usare le parole di Trotsky, il partito si separò da solo dalla sua classe. Negli anni Trenta, il Pcc divenne una forza militare a base contadina con una direzione piccolo borghese declassata. I trotskisti, che si opponevano a questa prospettiva antimarxista, rimasero nelle città a battersi per mantenere radici nella classe operaia, in condizioni estremamente sfavorevoli e di dura persecuzione (vedi “Le origini del trotskismo cinese”, supplemento a Spartaco n. 51, estate 1997).
La liberazione delle donne e la Rivoluzione del 1949
La trasformazione del Pcc in un partito contadino ne condizionò necessariamente la politica riguardo la questione femminile. La direzione maoista non poteva permettersi di offendere i costumi sociali tradizionali dei contadini maschi, specialmente di quelli che militavano nell’Armata rossa del Pcc. Perciò il lavoro tra le donne nelle aree liberate fu conservatore a confronto con le lotte radicali guidate dai comunisti per la liberazione delle donne nelle città negli anni Venti.
Nel 1931 il Giappone invase e occupò la Manciuria. Nel 1935, in sintonia con la politica di collaborazione di classe del “fronte popolare” sancita dal Settimo congresso del Comintern, il Pcc prese a fare appello ad una vasta coalizione “antigiapponese” che avrebbe dovuto abbracciare la borghesia “patriottica” e i proprietari terrieri. Questo appello culminò in un secondo “fronte unico” con il Gmd di Chiang nel 1937, dopo che gli imperialisti giapponesi avevano iniziato ad estendere il proprio controllo al resto della Cina. L’alleanza tra Pcc e Gmd consisteva in pratica in un patto di non aggressione peraltro molto instabile, dato che le forze di Chiang attaccarono ripetutamente le armate contadine a guida comunista. Anche se (sulla carta) Mao aveva accettato di sciogliere i governi “sovietici” instaurati dal Pcc nelle aree che controllava e di condividerne l’amministrazione con il Gmd, in pratica i comunisti ne mantennero il controllo esclusivo. Così quando la campagna bellica di Chiang divenne subordinata all’imperialismo Usa, dopo l’entrata degli Stati Uniti nella Guerra del Pacifico nel dicembre del 1941, col generale americano Josef Stillwell che prese il comando delle forze armate del Gmd, l’Esercito rosso di Mao continuò una lotta indipendente contro gli occupanti giapponesi, che meritava l’appoggio militare dei marxisti rivoluzionari. Il ruolo dirigente svolto dall’Esercito rosso di Mao in tutte le battaglie reali per l’indipendenza nazionale cinese, rafforzò enormemente l’autorità e l’influenza del Pcc e estese notevolmente l’area sotto il suo controllo prima della fine della Seconda guerra mondiale.
Ma Mao mantenne religiosamente i suoi impegni nei confronti dei capitalisti e dei latifondisti “patriottici” nei territori dell’Esercito rosso, per tutto il periodo del “fronte unico”, opponendosi alla confisca delle proprietà dei latifondisti. Ciò ebbe l’effetto di congelare fondamentalmente il vecchio ordine sociale esistente nelle campagne, perpetuando la schiavitù delle contadine verso la casa e il marito. Solo allo scoppio della guerra civile con il Guomindang nel 1946, il Pcc si mise alla testa di una rivoluzione agraria, che gettò le basi per l’emancipazione sociale delle donne contadine.
Le donne svolsero un ruolo chiave per la vittoria finale dell’esercito contadino di Mao. Jack Belden, un militante di sinistra americano che fu testimone oculare degli eventi, scrisse all’epoca:
“Nelle donne cinesi i comunisti si trovarono a possedere, già pronta, una delle più grandi masse di esseri umani diseredati che il mondo abbia mai visto. Poiché seppero trovare la chiave per il cuore di queste donne, trovarono anche una delle chiavi per la vittoria su Chiang Kai-shek” (China Shakes the World [La Cina scuote il mondo], 1949).
Nelle aree rurali conquistate dal Pcc, la Legge di riforma agraria del 1947 diede a uomini e donne uguale diritto alla terra. L’impatto per le donne di questa rivoluzione nei rapporti di proprietà fu elettrizzante. Nel 1949, nelle aree liberate da tempo, una percentuale di donne tra il 50 e il 70 percento lavorava la terra. In alcuni villaggi le contadine erano tra le principali attiviste nella confisca delle proprietà dei latifondisti. Quando finalmente i comunisti vinsero la guerra civile, spazzarono via gran parte dell’immondizia feudale che soffocava le donne cinesi (come i matrimoni combinati, gli infanticidi delle bambine e la compravendita delle ragazze contadine come concubine per i ricchi latifondisti, mercanti e usurai).
La dichiarazione della Repubblica popolare cinese nell’ottobre del 1949 segnò la nascita di uno Stato operaio burocraticamente deformato. Il proletariato, atomizzato da vent’anni di repressione del Guomindang e dei giapponesi e ulteriormente indebolito dal grave declino economico degli anni Trenta, non svolse alcun ruolo come classe nella rivoluzione del 1949. A consentire questo rovesciamento sociale basato sui contadini contribuirono circostanze storiche eccezionali, tra cui la decadenza interna del corrotto regime del Gmd e l’esistenza dell’Unione Sovietica, che fornì aiuti materiali alle forze di Mao. Entrate in guerra contro il Giappone nelle ultime settimane, le forze sovietiche penetrarono rapidamente in Manciuria (dove rimasero fino al maggio del 1946), nella Corea settentrionale (dove rimasero fino alla fine del 1948) e in altre zone occupate dai giapponesi.
La rivoluzione del 1949 portò l’alfabetizzazione alle giovani generazioni di donne, grazie all’educazione universale gratuita, un passo cruciale per la loro integrazione nella vita economica e sociale. In occasione del Primo maggio del 1950 il governo promulgò una legge sul matrimonio che vietava il concubinato e i matrimoni combinati e dava alle donne il diritto al divorzio e alla proprietà. Per la prima volta nella storia cinese, tante figlie, nuore o mogli di contadini ebbero la possibilità di scegliere un compagno, di rifiutare mariti violenti o di lasciare la casa dove venivano sfruttate. Questi nuovi diritti furono pubblicizzati da una campagna di agitazione di massa e resi popolari da slogan come “Le donne sorreggono la metà del cielo” e “Tutto quello che può fare un uomo può farlo anche una donna”.
Ma la Legge sul matrimonio si scontrò con un’ostinata resistenza nelle campagne. Si stima che negli anni successivi alla sua introduzione, furono uccise per questioni matrimoniali 80.000 persone ogni anno, soprattutto giovani donne che cercavano di affermare i propri diritti. Spesso i quadri del Pcc incaricati di far osservare la legge nei villaggi avevano legami familiari o di parentela con i capi famiglia e la maggior parte si piegavano alla schiacciante pressione al mantenimento della famiglia tradizionale. I diritti formali delle giovani donne non sposate e di quelle che volevano lasciare il marito erano vanificati dalla mancanza d’indipendenza economica. Non solo lo stato primitivo dell’economia agraria forniva a malapena il necessario a sopravvivere, ma i capi famiglia (quasi sempre padri, suoceri o mariti) detenevano il controllo della terra. Nemmeno la collettivizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo delle comuni rurali nella seconda metà degli anni Cinquanta ridussero significativamente la dipendenza economica delle donne dalla struttura familiare patriarcale. Anche quando otteneva il divorzio, una donna non riusciva ad ottenere parte della proprietà dalla famiglia del suo ex marito.
Le donne contadine all’epoca di Mao
La Cina di Mao non disponeva delle risorse economiche necessarie a dare alla massa di donne (e uomini) contadine, un posto di lavoro nell’industria o in altri settori dell’economia urbana. Ma anche date queste limitazioni oggettive, le politiche e le scelte del governo di Mao contribuirono esse stesse a perpetuare l’oppressione delle donne, specialmente nelle campagne.
La strategia economica perseguita in questo periodo puntava a massimizzare il surplus estratto dall’agricoltura e indirizzato verso gli investimenti in tecnologie ad alta intensità di capitale per la produzione industriale nelle città. La percentuale di prodotti industriali aumentò dal 20 al 45 percento della produzione netta tra il 1952 e il 1975. Ma nello stesso periodo la percentuale di forza-lavoro non agricola aumentò solo dal 16 al 23 percento (Carl Riskin, China’s Political Economy: The Quest for Development Since 1949 [La politica economica cinese: la ricerca dello sviluppo dal 1949], 1987).
Dato che i metodi di produzione agricola continuavano ad essere basati su di un’alta quantità di manodopera, le famiglie contadine erano incentivate economicamente ad avere molti figli (preferibilmente maschi), atteggiamento rafforzato dalle tradizioni confuciane. Questo a suo volta appesantiva il fardello delle donne contadine. Nel quadro delle comuni rurali, le famiglie traevano la maggior parte dei redditi dalla vendita di prodotti artigianali e dalla produzione degli appezzamenti privati. I regolamenti e le pratiche che governavano le comuni discriminavano le donne, che in media avevano redditi (punteggi lavorativi) più bassi degli uomini a parità di mansioni. Anche se il reddito delle donne veniva calcolato separatamente, il reddito familiare complessivo veniva consegnato al capofamiglia (tipicamente un uomo).
Durante il Grande balzo in avanti (un’avventura utopistica volta a catapultare la Cina al livello dei paesi industriali avanzati con la mobilitazione del lavoro di massa contadino) alla fine degli anni Cinquanta, furono fatti dei tentativi di istituire delle mense comunitarie. Ma la scarsa qualità del cibo suscitò un enorme malcontento ed esse furono rapidamente abbandonate col crollo del Grande balzo, che trascinò una società esausta in una delle peggiori carestie della storia. Noi siamo contrari alla collettivizzazione forzata dei contadini e all’eliminazione di ogni limite alla durata e all’intensità del lavoro, caratteristiche del disastroso Grande balzo in avanti di Mao.
All’inizio degli anni Ottanta, nel contesto delle “riforme di mercato” introdotte dopo l’era di Mao, le comuni agricole furono sciolte e sostituite da un sistema di “responsabilità familiare”, con cui si tornava all’agricoltura familiare individuale su terreni concessi a lungo termine (fino a 30 anni). Inizialmente questo indusse un aumento della produttività. Ma le “riforme” hanno avuto gravi conseguenze negative sulle condizioni delle contadine, come l’aumento del divario nei livelli educativi di uomini e donne nelle campagne e il ritorno su vasta scala dell’infanticidio delle bambine e degli aborti selettivi.
Le comuni avevano fornito un’educazione primaria e secondaria gratuita a tutti i bambini. Quando furono dissolte, la responsabilità per l’istruzione passò alle amministrazioni dei villaggi. Ma il governo centrale ha tagliato i fondi (in seguito gradualmente aumentati), spingendo le autorità locali ad imporre forti tasse scolastiche e di altro tipo. Di conseguenza, tra il 1978 e il 1993 il numero di studenti iscritti alle scuole elementari è diminuito da 129 a 90 milioni e da 48 a 26 milioni nelle secondarie (Tamara Jacka, Women’s Work in Rural China: Change and Continuity in an Era of Reform [Il lavoro femminile nella Cina rurale: cambiamento e continuità in un’epoca di riforme], 1997). Il calo si è concentrato soprattutto tra le bambine, poiché molte famiglie contadine erano disposte a fare sacrifici solo per i maschi. Un recente studio, riportato nel giornale di Stato Cina quotidiana (2 aprile 2007), mostra che il numero di adulti cinesi analfabeti è aumentato di un terzo, da 87 a 116 milioni, tra i quali le donne costituiscono un numero sproporzionato.
Oggi è tipico che dopo il matrimonio la donna vada a vivere nel villaggio del marito, spesso nella casa dei suoi genitori. Così la giovane moglie si trova soggetta all’autorità dei suoceri, specialmente della suocera. Nelle aree rurali, al sistema dei matrimoni combinati precedente al 1949 si sono sostituiti dei matrimoni semi combinati. Se è raro che le coppie siano costrette o spinte a sposarsi contro la loro volontà, i matrimoni senza il consenso dei rispettivi genitori sono malvisti. Pratiche tradizionali come il prezzo della sposa o la dote sono ancora comuni ed anzi sono aumentate nell’epoca delle “riforme” successiva a Mao, in seguito al ritorno all’agricoltura familiare individuale. Di recente il governo ha annunciato che i contadini potranno vendere ad altri contadini o a imprese private i propri contratti d’affitto. Cosa avverrà in realtà per ora non è chiaro.
Il ritorno dell’infanticidio delle bambine
Nonostante il crescere delle disuguaglianze oggi anche le contadine stanno molto meglio di prima. Un enorme passo in avanti è avvenuto con l’elettrificazione delle campagne, che ha consentito l’accesso ad apparecchi che risparmiano molto lavoro come frigoriferi e lavatrici, oltre che alle più elementari tecnologie moderne (come i televisori). Nelle città, le donne che hanno ottenuto un qualche grado di indipendenza finanziaria hanno anche più libertà sessuale. Il sesso prematrimoniale, un tempo illegale per la morale puritana degli stalinisti, ormai è un luogo comune e il divorzio è molto più facile da ottenere. Secondo il ministero per gli Affari Civili cinese, il tasso di divorzi a livello nazionale è triplicato dal 1985.
Ma le forze di mercato hanno dato via libera alle tendenze sociali retrograde che accompagnano sempre lo sfruttamento e che hanno portato ad una recrudescenza di alcuni tra i più orribili tratti oppressivi della vecchia Cina. Ne è chiara espressione il ritorno dell’infanticidio femminile, confermato dalla netta crescita della mortalità infantile tra le bambine. A questo si è accompagnata la pratica oggi diffusa degli aborti selettivi in base al sesso, resi possibili dall’ecografia. Secondo Liu Bohong, vice direttore dell’Istituto per gli studi sulle donne della Federazione nazionale cinese delle donne, il rapporto tra i sessi dei neonati nel 2005 era di 123 maschi ogni 100 femmine (la media internazionale è di 104-107 maschi ogni 100 femmine).
Al contrario di Mao, Deng pensava che la crescita incontrollata della popolazione costituisse un grosso ostacolo alla modernizzazione della Cina. Alla fine degli anni Settanta, il governo impose una politica familiare restrittiva, imposta per mezzo di dure sanzioni economiche, volta a consentire un massimo di un figlio alle coppie urbane e di due a quelle rurali (ma solo se il primo è femmina o disabile, mentre non vi sono limiti al numero di figli per le minoranze nazionali). A metà degli anni Ottanta il governo di Deng iniziò ad eliminare il posto di lavoro garantito a vita per gli operai delle imprese statali, la cosiddetta “ciotola di riso garantita”, che garantiva anche un livello essenziale di servizi sociali. Se si esclude una piccola minoranza di dipendenti più anziani che hanno ancora diritto alle pensioni statali, oggi la massa degli operai dipende per la vecchiaia dai risparmi personali e dall’aiuto dei figli maschi, dato che di solito le figlie lasciano la casa al matrimonio e si prendono cura dei genitori del marito. In questo modo, la politica del “figlio unico”, combinandosi con la struttura familiare patriarcale e con le maggiori possibilità di guadagno degli uomini rispetto alle donne, si è tradotta in un marcato sbilanciamento sessuale persino nelle città. A Pechino per esempio, nel 2005 sono nati 109 maschi ogni 100 femmine.
Nelle campagne la situazione è ancora più estrema e in netto contrasto col periodo immediatamente successivo alla rivoluzione, quando la nazionalizzazione della terra e la sua distribuzione egualitaria ai contadini, seguita dalla collettivizzazione dell’agricoltura, fornivano a tutti le basi economiche minime dell’esistenza. Nei primi trent’anni della Repubblica popolare, il rapporto tra i sessi dei neonati corrispondeva alla media demografica naturale. Date le tecniche agricole ad alta intensità di manodopera prevalenti nelle comuni rurali, più erano i membri di una famiglia contadina (maschi o femmine) che lavoravano in campagna o in attività edili connesse, più questa guadagnava punti lavorativi e maggiore era il reddito disponibile alla famiglia nel suo insieme.
Oggi l’eliminazione dell’assistenza medica gratuita, un altro aspetto importante delle “riforme” di mercato, ha colpito duramente le famiglie contadine e gli operai emigranti. In genere i figli maschi vengono fatti nascere in cliniche o ospedali, le femmine a casa. Quando sono malati i maschi vengono portati dal medico, le femmine no. Dall’abolizione delle comuni, la maggior parte degli appezzamenti di terra in Cina sono così piccoli da poter essere lavorati efficacemente da uno o due contadini esperti ed il fatto che ci siano altri membri della famiglia dediti ai lavori agricoli è economicamente uno spreco.
La distruzione del sistema di assistenza medica gratuita è stata accompagnata anche dalla ripresa di superstizioni e sette religiose (come Falun Gong), dato che la popolazione si rivolge alla “medicina tradizionale” e ad altri residui dei vecchi tempi cinesi (si veda “Falun Gong: Force for Counterrevolution in China”, Workers Vanguard n. 762, 3 agosto 2001).
Il controllo delle nascite, strumento decisivo per consentire alle donne di poter gestire la propria vita, è una questione fondamentale per un paese che possiede il 20 percento della popolazione mondiale ma solo il 7 percento delle terre arabili. Un governo operaio e contadino in Cina incoraggerebbe, tramite l’educazione, l’autolimitazione volontaria delle dimensioni familiari. Siamo per il diritto delle singole donne a decidere se e quanti figli avere. Come abbiamo scritto più di dieci anni fa: “Nello Stato operaio deformato cinese con il suo brutale apparato repressivo, il regime ha usato una miriade di mezzi per limitare le nascite, dagli incentivi economici al rigido controllo burocratico sulle masse di operai e contadini, che nella materia molto intima della gravidanza possono essere orribilmente invadenti” (“Cina: La miseria del ‘libero mercato’ si abbatte sulle donne, Spartaco n. 48, maggio 1996).
Per un governo basato su consigli di operai e contadini democraticamente eletti, la correzione dell’attuale sbilanciamento tra i sessi sarebbe una priorità fondamentale. Grazie alla pianificazione economica centralizzata, cercherebbe di dare a tutti i cittadini cinesi un’assistenza medica gratuita e di qualità e una pensione statale sia agli operai delle città che ai lavoratori rurali. Le risorse necessarie a mantenere chi è troppo anziano (o malato, o disabile) per lavorare devono venire dal surplus economico collettivo prodotto dalla popolazione attiva, senza che si debba dipendere dai risparmi personali o dai redditi dei figli. Un governo operaio stimolerebbe l’istruzione e la formazione professionale delle giovani donne, per spazzar via i pregiudizi culturali a favore dei figli maschi, che sono stati rafforzati dalla politica orientata al mercato della burocrazia.
Per liberare le donne dalla famiglia patriarcale contadina serve la collettivizzazione razionale e la modernizzazione dell’agricoltura. Dato che la maggioranza della popolazione continua a vivere nelle campagne, dove la produzione resta primitiva e ci sono poche infrastrutture moderne, la collettivizzazione richiederebbe una trasformazione profonda della società cinese.
L’introduzione di tecnologie moderne, dalle mietitrebbia ai fertilizzanti chimici all’agricoltura scientifica nel suo insieme, richiede una base industriale qualitativamente più elevata di quella attuale. Un aumento della produttività agricola determinerebbe a sua volta una vasta crescita dei posti di lavoro in città, per assorbire il surplus di manodopera non più necessaria nelle campagne. Si tratterebbe ovviamente di un lungo processo, se si considera la produttività relativamente bassa dell’industria cinese attuale. Sia il ritmo che, in ultima analisi, la realizzabilità di questa prospettiva ruota attorno all’aiuto che la Cina potrebbe ricevere da un Giappone socialista o da un’America socialista, cosa che sottolinea di nuovo la necessità di una rivoluzione proletaria internazionale.
Da giovane contadina a operaia migrante
Dopo la Rivoluzione del 1949, la nazionalizzazione dell’economia e l’inaugurazione della pianificazione centra-lizzata coinvolsero per la prima volta milioni di donne nella produzione sociale. La maggior parte però furono relegate nei posti di lavoro meno qualificati, più manuali e peggio pagati. Erano la maggioranza anche tra le operaie delle fabbriche cooperative, al contrario della forza-lavoro maschile delle imprese di Stato, dove il lavoro era più qualificato, meccanizzato e meglio pagato. Inoltre più della metà dei circa 30 milioni di operai che hanno perso il lavoro con la privatizzazione di molte imprese di Stato nella seconda metà degli anni Novanta erano donne. Ma se l’impiego delle donne nell’industria di Stato è diminuito, è invece esploso nell’industria privata, specialmente nelle fabbriche di proprietà dei capitalisti stranieri o dei capitalisti cinesi espatriati. Uno sviluppo che probabilmente potrebbe invertirsi nel contesto dell’attuale crisi economica globale.
Le operaie emigranti sono in maggioranza giovani single che di solito vanno a vivere in città da adolescenti. La maggior parte lavorano in condizioni terribili di supersfruttamento. Le giornate lavorative sono in media di 11-12 ore, spesso sette giorni su sette. La disciplina è rude: i salari spesso dipendono dalla produttività e vengono date multe per qualsiasi difetto di produzione. Spesso i lavoratori vivono in edifici separati, in dormitori affollati. Le misure di sicurezza sono rudimentali o inesistenti. Uno studio governativo a metà degli anni Novanta ha rivelato che condizioni tossiche o insicure erano presenti nel 40 percento delle imprese industriali di Shenzhen, uno dei principali centri manifatturieri del Guangdong (Tao Jie, Zheng Bijun e Shirley L. Mow, Holding Up Half the Sky: Chinese Women Past, Present, and Future [Sostenendo la metà del cielo: le donne cinesi ieri, oggi e domani], 2004).
Eppure ogni anno milioni di giovani donne lasciano i villaggi per le fabbriche delle città cinesi. Molte sanno cosa le attende, perché di solito cercano lavoro in imprese, industriali o meno, in cui lavorano già parenti o amici del loro villaggio. Anche se in città il costo della vita è maggiore, i vantaggi economici per chi emigra e diventa operaia sono sostanziali. Secondo le statistiche del governo, nel 2007 il reddito netto annuale pro capite delle famiglie rurali era di 4.140 yuan. Nello stesso anno, il reddito medio di un operaio migrante era di 14.400 yuan, più del triplo. Una giovane donna ha descritto in tinte vivide lo squallore della fattoria di famiglia da cui era fuggita: “Per aiutarli [i genitori] andavo in montagna a raccogliere cibo per i maiali, poi davo da mangiare ad anatre e maiali. All’epoca del raccolto aiutavo nei campi, tutto il giorno nel fango come una scimmia. Ma non riuscivo nemmeno a comprare un vestito decente (in Dorothy J. Solinger, Contesting Citizenship in Urban China: Peasant Migrants, the State, and the Logic of the Market [La lotta per la cittadinanza nella Cina urbana: le contadine emigranti, lo Stato e la logica del mercato], 1999).
Molte donne cercano di sfuggire alle pressioni dei parenti e della comunità a sposarsi giovani, per poter godere almeno per qualche anno dei vantaggi culturali della vita in città. Alla domanda su perché avevano deciso di emigrare, molte giovani donne intervistate dalla ricercatrice australiana Tamara Jacka, hanno risposto: “per poter crescere”, “per allargare i miei orizzonti”, “per essere indipendente”, “per la mia educazione” o risposte simili (Rural Women in Urban China: Gender, Migration, and Social Change [Donne rurali nella Cina urbana: genere, migrazioni e cambiamento sociale], 2006).
In Made in China: Women Factory Workers in a Global Workplace [Made in Cina: operaie di fabbrica nella fabbrica globale] (2005), Pun Ngai, una studiosa di Hong Kong di simpatie femministe, cita le parole di una delle poche donne relativamente anziane della fabbrica, la cuoca della mensa: “Non avremmo mai sognato di lasciare la famiglia e il villaggio. Le donne venivano tenute sempre a casa, a cucinare e fare i mestieri, aspettando di sposarsi e di fare figli maschi”. Per quanto dure possano essere le condizioni delle operaie emigranti nelle fabbriche, la vita nei villaggi poveri prima del 1978 era anche peggio. L’esperienza di lavorare in città rafforza il contrasto tra città e campagna. Come ha detto un’operaia emigrante: “Dopo un po’ che vivi in città, la pensi diversamente, pensi sempre a come migliorare la vita in campagna” (in Leslie T. Chang, Factory Girls [Ragazze di fabbrica], 2008).
Molte operaie emigranti godono di una relativa indipendenza economica e libertà sociale solo per pochi anni, dopo di che tornano al villaggio per sposarsi. Ma ci tornano con un nuovo senso di coscienza sociale e di forza proletaria, spesso per esperienza diretta di lotte collettive contro i padroni capitalisti.
L’immensa forza potenziale del proletariato industriale cinese è stata dimostrata nella primavera del 2007 da una serie di scioperi degli operai portuali di Shenzhen, il quarto porto commerciale del mondo. Nel 2004 a Shenzhen ci sono state proteste cui hanno partecipato 300.000 operai. Nella vicina Huizhou le operaie hanno preso la testa di una serie di azioni combattive che hanno fermato le catene di montaggio e bloccato gli accessi stradali, per protestare contro la Gold Peak Industrial Holding Ltd., una società con base a Hong Kong e Singapore, che possedeva due fabbriche di batterie elettriche in città.
Abolire il sistema stalinista discriminatorio dell’hukou!
Il sistema di registrazione familiare (hukou) istituito dalla burocrazia, che impone limiti restrittivi alla residenza nelle città, all’educazione e all’assistenza sanitaria per i cinesi rurali, rende precaria e temporanea la condizione degli emigranti in città. Gli operai emigranti ricevono solo permessi di residenza temporanei, pagando forti tasse e a volte ottenendo un rifiuto. Se delle donne emigranti si sposano e specialmente se restano incinte, rischiano di essere licenziate e di far fatica a trovare un altro lavoro. In città gli uomini sono restii a sposare donne con un hukou rurale. Le coppie emigranti sposate spesso pagano molto di più per l’assistenza sociale e l’educazione dei figli rispetto a chi ha una residenza permanente in città.
Il sistema dell’hukou della burocrazia ha creato a tutti gli effetti una popolazione emigrante interna concentrata ai livelli inferiori della classe operaia. L’obiettivo originario dell’hukou, istituito nel 1955 all’epoca di Mao, era di razionare le merci in un’economia di scarsità, impedendo l’afflusso in città di una massa di contadini alla ricerca di lavoro nelle imprese di Stato, che era riservato ai residenti legali delle città. Con l’apertura della Cina agli investimenti stranieri, l’hukou ha assunto una funzione differente. La diffusione di stabilimenti manifatturieri di proprietà straniera si è basata sulla mobilità, sulla condizione legale precaria e sui bassissimi salari di una gigantesca forza-lavoro emigrante. Anche se alcuni emigranti sono stati assunti dalle imprese statali con contratti a termine, questo settore decisivo dell’economia cinese resta prerogativa degli operai con un hukou urbano. In questo modo la burocrazia agisce come una specie di appaltatore di manodopera per il capitale imperialista e per i capitalisti cinesi espatriati. L’hukou serve anche a rafforzare la famiglia: la registrazione è ereditaria e l’anagrafe è tenuta dal capofamiglia, per essere ad esempio presentata dai genitori prima che una persona possa sposarsi.
La popolazione emigrante si divide a sua volta tra coloro che sono regolari e irregolari. Quasi tutti gli operai emigranti nelle fabbriche e nelle altre imprese importanti come Wal-Mart hanno permessi di residenza temporanei in città. Ma ci sono anche milioni di emigranti “illegali”, nessuno sa esattamente quanti, che sopravvivono con lavori casuali, come domestici o baby sitter, venditori ambulanti, ecc. Il bisogno di tamponare il malcontento sociale sia nelle aree urbane che in quelle rurali e di garantire un flusso di manodopera stabile ha spinto il governo a prendere in considerazione una riforma o la sostituzione del sistema dell’hukou. Riforme pilota sono state attuate in alcune zone. Ma nel periodo precedente alle Olimpiadi del 2008, le autorità di Pechino hanno organizzato un giro di vite contro gli operai emigranti, costringendo centinaia di migliaia di persone (molte delle quali avevano costruito le strutture delle Olimpiadi in condizioni durissime) a lasciare la città. Noi ci opponiamo al sistema arbitrario e discriminatorio dell’hukou e rivendichiamo pari diritti e parità di accesso all’assistenza per i lavoratori emigranti e i residenti legali.
Gli operai cinesi hanno bisogno di un partito trotskista che guidi una rivoluzione politica che cacci la casta burocratica privilegiata stalinista e istituisca un governo basato su consigli di operai e contadini democraticamente eletti, che rappresentino tutti i settori del proletariato e dei lavoratori rurali. Le questioni cruciali che lo Stato operaio si trova di fronte potranno essere risolte efficacemente solo quando chi lavora potrà decidere. Queste questioni vanno dalla politica militare e internazionale, alla politica economica interna, comprese le misure amministrative necessarie a gestire la mobilità della popolazione o specifiche carestie o catastrofi. Come disse Trotsky: "Non si tratta di sostituire una combriccola dirigente con un'altra, ma di mutare i metodi stessi della direzione economica e culturale. L'arbitrio burocratico dovrà cedere il posto alla democrazia sovietica" (La rivoluzione tradita, 1936).
Operai emigranti e “democratici” filocapitalisti
La burocrazia del Pcc ora include una significativa componente che ha legami familiari o di altro tipo con gli imprenditori capitalisti e nel 2007 il Congresso nazionale del popolo ha ufficialmente sancito una legge che rafforza i diritti di proprietà di individui e società. Nonostante questo la burocrazia continua ad appoggiarsi sulla base materiale costituita dall’economia collettivizzata, da cui trae redditi e potere. Essa però difende le conquiste incarnate dallo Stato operaio deformato cinese, solo nella misura in cui teme il proletariato. Di fronte alla rabbia che cova alla base della società, il governo di Hu procede con cautela, frenando alcune misure di “libero mercato” in nome della costruzione di una “società armoniosa”, ed è giunto ad arrestare e persino giustiziare dei funzionari nei casi più eclatanti di corruzione.
Nel 2006, il dipartimento ufficiale di propaganda del Pcc ha rilasciato una dichiarazione in cui esprimeva preoccupazione per i bassi salari pagati dagli imprenditori agli operai emigranti (Face-to-Face with Theoretical Hot Spots [Faccia a faccia con i punti nevralgici teorici], Beijing: Study Press and People’s Publishing House, 2006). Preoccupata che le terribili condizioni salariali e lavorative non provochino una più vasta agitazione tra gli operai emigranti, la burocrazia ha introdotto una nuova legge sul lavoro che incoraggia i contratti a lungo termine e consente un maggior accesso a forme di assistenza agli operai emigranti. La Confederazione pan cinese dei sindacati (Acftu), diretta dallo Stato, ha iniziato a sindacalizzare le imprese di proprietà dei capitalisti cinesi espatriati e quelle straniere.
Ad esempio Wal-Mart, il gigante americano delle vendite al dettaglio, conosciuto per la sua aggressiva politica anti sindacale, è stato costretto a riconoscere il sindacato nei suoi più di cento punti vendita in Cina. Nel 2006 un articolo su Japan Focus descriveva il modo in cui gli operai del magazzino di Wal-Mart a Fujian avevano organizzato il loro sindacato: “Alle sei e mezza di mattina hanno dichiarato la costituzione della loro sezione sindacale e cantato l’Internazionale sotto una bandiera rossa con scritto, ‘Decisi a percorrere la strada dello sviluppo del sindacalismo con caratteristiche cinesi!’” (Anita Chan, “Organizing Wal-Mart: The Chinese Trade Union at a Crossroads”, Japan Focus, 8 settembre 2006).
Molte delle accademiche femministe occidentali e cinesi che hanno preso posizione a favore delle operaie emigranti sostengono che queste ultime possono trovare degli alleati nelle Organizzazioni non governative (Ong) e in altre agenzie “umanitarie” sponsorizzate e finanziate da fondazioni e governi capitalisti. L’idea che simili istituzioni imperialiste possano essere amiche degli operai emigranti è peggio che un mito, significa schierarsi con le forze che rappresentano i nemici di classe dei lavoratori cinesi.
Nelle lotte alcuni emigranti, per esempio le 12.000 operaie, quasi tutte donne, che hanno organizzato una serie di scioperi contro la società di elettronica giapponese Uniden nel 2005, hanno rivendicato il diritto di formare sindacati indipendenti. La lotta per dei sindacati liberi dal controllo burocratico è importante per i lavoratori cinesi, ma questa battaglia dev’essere guidata dal principio della difesa dello Stato operaio nato dalla Rivoluzione del 1949. E’ una cosa particolarmente importante date le manovre delle forze filocapitaliste che promuovono i cosiddetti “sindacati indipendenti” in nome della “democrazia” di tipo occidentale, vale a dire del potere degli sfruttatori capitalisti nascosto dietro la maschera parlamentare.
Gli imperialisti e i loro luogotenenti sindacali cercano di incanalare la giusta lotta degli operai cinesi in una direzione controrivoluzionaria. Tra le forze che loro hanno appoggiato c’è il China Labour Bulletin (Clb), con sede ad Hong Kong, il cui più noto portavoce Han Dongfang conduce su Radio Free Asia, emittente finanziata dalla Cia, una trasmissione regolare in cui si presenta come difensore degli operai cinesi. Ultimamente il Clb, citando la nuova legge sindacale, ha fatto appello a lavorare all’interno dei sindacati ufficiali dell’Acftu. Il programma politico di Han e soci non è a vantaggio degli interessi del proletariato cinese ma delle forze che vogliono riportare la Cina sotto il giogo dello sfruttamento imperialista. Il tipo di sindacato che lui e i suoi burattinai vorrebbero costruire viene paragonato spesso a Solidarnosc in Polonia. Questo sedicente “sindacato libero” appoggiato da Washington e dal Vaticano, fu la punta di lancia della controrivoluzione capitalista nella sfera sovietica negli anni Ottanta. Dopo essere salito al potere nel 1989 il regime di Solidarnosc ha presieduto alla restaurazione del più brutale sfruttamento capitalista, devastando le condizioni di vita della classe operaia, specialmente delle donne lavoratrici e lanciando un attacco frontale ai diritti delle donne, compreso il quasi totale divieto dell’aborto.
Vari gruppi riformisti a scala internazionale forniscono una maschera “di sinistra” a queste forze apertamente filo capitaliste. Ad esempio in Francia Lutte Ouvrière (Lo) ha invitato un portavoce ufficiale del Clb, Cai Chongguo, a parlare ad un forum alla sua festa annuale vicino a Parigi nel maggio del 2007. In quell’occasione, dei compagni della Lega comunista internazionale sono intervenuti per condannare la decisione di Lo di invitare questo controrivoluzionario, oltre che la sua storia di appoggio a Solidarnosc e ad altre forze filoimperialiste nell’Urss e nell’Europa dell’Est.
Ancor più sfacciato è il Comitato per un’internazionale dei lavoratori (Cwi), con base in Gran Bretagna e capeggiato da Peter Taaffe, che gestisce il sito internet China Worker. Il Cwi fa appello ad una “alternativa socialista democratica” al regime del Pcc. Cosa significhi in pratica lo mostra la partecipazione del Cwi, il 4 giugno 2008, ad un presidio “per la democrazia” organizzato da forze apertamente filocapitaliste di Hong Kong, formalmente per commemorare il massacro di Piazza Tienanmen del 1989. Un rapporto su China Worker (6 giugno 2008), esaltava questa “eccellente mobilitazione” e citava acriticamente il discorso degli organizzatori, l’Alleanza di Hong Kong in appoggio ai movimenti patriottici democratici in Cina, un gruppo tra i cui “obiettivi pratici” c’è la richiesta di “una Cina democratica”.
In Gran Bretagna ed in altri paesi imperialisti, il Cwi agisce come base dei socialdemocratici, alimentando illusioni nel parlamentarismo borghese, la dittatura degli sfruttatori con una maschera “democratica”. Se trapiantato in uno Stato operaio questo diventa il programma della controrivoluzione, come dimostra l’appoggio dei seguaci di Taaffe al “sindacato” polacco Solidarnosc in Polonia nel 1981. Nel 1991 stavano sulle barricate di Boris Yeltsin, mentre questi apriva il periodo della controrivoluzione nell’ex Unione Sovietica. Fin dalla Rivoluzione bolscevica del 1917, la socialdemocrazia ha condannato gli Stati operai in nome della “democrazia”. Il progenitore ideologico del Cwi, il socialdemocratico “di sinistra” tedesco Karl Kautsky, ragliava contro la dittatura proletaria e propagandava l’illusione di una “democrazia pura”. Per i marxisti la domanda che si pone sempre è democrazia per quale classe? Come sottolineava Lenin, la lotta per liberare la classe operaia significa lotta per la “nuova democrazia proletaria, che deve sostituire la democrazia borghese e il parlamentarismo” (“Risoluzione sulle tesi relative alla democrazia borghese e alla dittatura del proletariato”, marzo 1919).
Taaffe sostiene che “oggi i compiti degli operai cinesi confermano in forma nuova e originale la teoria di Trotsky della rivoluzione permanente”, e chiede di “legare la lotta per i diritti democratici alla lotta per il socialismo” (“China at the Crossroads”, China Worker online, 24 maggio 2007). Questa è una falsificazione vergognosa della teoria di Trotsky, che traveste la rivoluzione permanente da “democrazia” capitalista, la applica ad uno Stato operaio, per poi ribaltarla in un appello alla controrivoluzione “demo-cratica”! La battaglia per un’autentica direzione leninista-trotskista e per la rivoluzione politica proletaria in Cina ha come premessa la difesa militare incondizionata dello Stato operaio contro le forze della controrivoluzione.
Per una direzione rivoluzionaria proletaria
L’adattamento all’imperialismo mondiale da parte della burocrazia cinese deriva dalla falsa premessa per cui basterebbe poter “neutralizzare” il rischio di un intervento militare grazie alla “coesistenza pacifica”, perché la Cina possa diventare una superpotenza mondiale e costruire effettivamente il “socialismo in un paese solo”. Ma gli imperialisti possiedono altre armi oltre a quelle militari: uno dei loro obiettivi principali è quello di minare il controllo che il governo cinese esercita sul sistema bancario e le transazioni valutarie. L’enorme saldo positivo della bilancia commerciale della Cina ha messo sotto pressione i circoli dirigenti americani e alcuni circoli europei, spingendoli verso il protezionismo anticinese, una politica che negli Stati Uniti è favorita dal Partito democratico. In Cina la crisi economica globale potrebbe innescare importanti lotte sociali.
Ad un certo punto, probabilmente quando gli elementi borghesi in seno e nella periferia della burocrazia, agiranno per eliminare il potere politico del Pcc, le esplosive tensioni sociali che si stanno accumulando nella società cinese, sconvolgeranno l’intera struttura politica della casta burocratica dominante. Quando questo avverrà, il destino della Cina sarà posto in maniera netta. O gli operai spazzeranno via l’élite parassitaria dominante con una rivoluzione politica proletaria che difenda ed estenda le conquiste della Rivoluzione del 1949 e faccia della Cina un bastione della lotta per il socialismo mondiale, o viceversa trionferà la controrivoluzione capitalista, riportando con sé il devastante giogo dello sfruttamento imperialista.
La possibilità di un’insurrezione operaia filosocialista si è vista nell’insurrezione del maggio-giugno 1989, centrata intorno alla Piazza Tienanmen. Alle proteste, iniziate tra gli studenti che si opponevano alla corruzione e chiedevano una liberalizzazione politica, si unirono milioni di operai in tutta la Cina, spinti ad agire dal malcontento contro l’impatto crescente delle misure di mercato del governo, specialmente dalla forte inflazione. Si formarono assemblee operaie e picchetti volanti motorizzati, che mostravano la possibilità dello sviluppo di veri e proprio consigli di operai, soldati e contadini.
L’ingresso nella lotta della classe operaia terrorizzò i dirigenti del Pcc, che alla fine scatenarono una feroce repressione. Ma la burocrazia, compreso il corpo degli ufficiali, iniziò a fratturarsi sotto l’impatto della sollevazione proletaria. Le prime unità dell’esercito mobilitate rifiutarono di agire, di fronte all’enorme sostegno popolare alle proteste tra gli operai di Pechino. I massacri del giugno del 1989, che colpirono principalmente gli operai, poterono avvenire solo dopo che il governo riuscì a far arrivare delle unità dell’esercito più fedeli a Deng.
La stampa della Lci seguì in dettaglio questi avvenimenti e facemmo appello a “Cacciare i burocrati: per il comunismo di Lenin! I soviet di operai e soldati devono governare!” (vedi: “Upheaval in China”, Workers Vanguard n. 478, 26 maggio 1989, e “Beijing Massacre—Civil War Looms”, Workers Vanguard n. 479, 9 giugno 1989). Una rivoluzione politica proletaria in Cina avrebbe posto immediatamente la necessità di difendere ed estendere le conquiste sociali dello Stato operaio contro la controrivoluzione capitalista. Ciò che mancava era una direzione leninista-trotskista.
Il ruolo che una simile direzione avrebbe svolto si vide più tardi nel corso di quello stesso anno nelle sollevazioni della Repubblica democratica tedesca (Ddr), in cui una parte importante fu svolta dall’influsso dell’eroica lotta degli operai e degli studenti cinesi. Quando la popolazione della Germania orientale si sollevò contro i privilegi e la mal gestione della burocrazia, il governo stalinista iniziò a disintegrarsi. Delle proteste di massa, che arrivarono a raccogliere fino a un milione di persone, lanciavano slogan come “Per gli ideali comunisti No ai privilegi”. Noi della Lci abbiamo intrapreso il più grosso intervento della nostra storia, battendoci per forgiare dei consigli di operai e soldati che prendessero il potere. La forza del nostro programma trotskista si vide nella manifestazione del 3 gennaio 1990, quando 250.000 persone scesero in piazza contro la profanazione fascista di un monumento in onore dei soldati sovietici nel Parco di Treptow, a Berlino Est, in difesa dell’Urss e della Ddr. Fummo noi a lanciare l’appello a questa mobilitazione, che fu fatto proprio dal partito stalinista al governo che temeva l’eco del nostro programma tra gli operai di Berlino Est e si sentì costretto a mobilitare la propria base. Treptow fu uno spartiacque. Di fronte alla crescente possibilità di una resistenza organizzata della classe operaia alla controrivoluzione, la burocrazia sovietica guidata da Mikhail Gorbaciov, si affrettò a dare il via alla riunificazione capitalista, e il governo stalinista della Ddr si accodò.
La nostra lotta per la rivoluzione politica operaia nella Ddr insieme con una rivoluzione socialista nella Germania occidentale, cioè per la riunificazione rivoluzionaria della Germania, era una sfida diretta nei confronti della svendita della Ddr all’imperialismo tedesco orientale. Come scrivemmo nel documento della Conferenza della Lci nel 1992: “Come Treptow ha dimostrato in seguito, fin dall’inizio siamo stati impegnati in una lotta politica col regime stalinista che abdicava, sul futuro della Rdt ( ) C’era in effetti un conflitto, per quanto caratterizzato dalla sproporzione delle forze, tra il programma della Lci di rivoluzione politica e il programma stalinista di capitolazione e controrivoluzione”. (“Per il comunismo di Lenin e Trotsky”, Supplemento a Spartaco, giugno 1993). Non abbiamo avuto né il tempo né le forze sufficienti a sviluppare le radici necessarie nella classe operaia. Abbiamo perso, ma il nostro intervento ha dimostrato che, quando l’accumularsi degli avvenimenti in uno Stato operaio burocraticamente deformato genera alla fine un sollevamento e la frantumazione del potere burocratico, è possibile anche per un piccolo nucleo leninista-trotskista con un programma rivoluzionario internazionalista avere un enorme impatto tra le masse.
La lotta per la liberazione delle donne deve essere una questione centrale della lotta per la rivoluzione politica proletaria in Cina. Un governo rivoluzionario degli operai e dei contadini esproprierebbe la neonata classe di imprenditori capitalisti cinesi e rinegozierebbe i termini degli investimenti stranieri a vantaggio dei lavoratori, insistendo ad esempio che i salari, l’assistenza sociale e le condizioni di lavoro delle donne e di tutti gli operai, siano almeno allo stesso livello di quelle esistenti nel settore statale. Metterebbe fine agli arbitri burocratici e alla corruzione. Creerebbe un’economia pianificata e gestita in modo centralizzato, sotto le condizioni della democrazia operaia, che prenderebbe delle misure per eliminare la disoccupazione che colpisce specialmente le donne lavoratrici, e per fornire un livello essenziale di sicurezza economica all’intera popolazione, pur sapendo che la possibilità di ottenere una prosperità materiale per tutti i lavoratori cinesi ruota attorno alla lotta per spezzare la presa dell’imperialismo sul mondo intero.
La lotta per un partito leninista-trotskista in Cina significa una battaglia per resuscitare il marxismo emancipatore ed internazionalista che animava Chen Duxiu e gli altri fondatori del Partito comunista cinese, il cui punto di partenza era la lotta mondiale per la rivoluzione socialista. In netto contrasto con la glorificazione della famiglia da parte degli stalinisti, noi trotskisti sappiamo che la completa emancipazione delle donne può giungere solo con l’avvento di una società comunista globale, che ponga fine per sempre alla penuria materiale. Allora le donne prenderanno pienamente parte ad un’inaudita liberazione di potenziale umano, un enorme balzo in avanti della civiltà. Come spiegarono più di 160 anni fa Marx ed Engels: “La ‘liberazione’ è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata da condizioni storiche, dallo stato dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, delle relazioni” (L’ideologia tedesca, 1846).
Una rivoluzione politica proletaria in Cina, innalzando la bandiera dell’internazionalismo socialista, scuoterebbe il mondo, non ultima la capitalista Taiwan. Manderebbe in frantumi il clima ideologico della “morte del comunismo” diffuso dai governanti imperialisti dopo la distruzione dell’Unione Sovietica. Provocherebbe una radicalizzazione della classe operaia in Giappone, la roccaforte industriale e l’aspirante padrone imperialista dell’Asia, e innescherebbe la lotta per la riunificazione rivoluzionaria della Corea con una rivoluzione politica nello Stato operaio deformato del Nord e una rivoluzione socialista nel Sud capitalista. Riecheggerebbe tra le masse del subcontinente indiano, dell’Indonesia, delle Filippine e dell’Australia ed anche oltre, dal Sudafrica al cuore dell’imperialismo negli Stati Uniti e in Europa. E rilancerebbe la lotta per la rivoluzione socialista nell’ex Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est, dove le devastazioni della controrivoluzione hanno prodotto una catastrofe sociale fatta di macerie, malattie e barbarie, che si sono tradotte in un drammatico crollo dell’aspettativa di vita. E’ per dare una direzione a queste lotte, che la Lci si batte per riforgiare la Quarta internazionale di Trotsky, come partito mondiale della rivoluzione socialista. Per la liberazione delle donne con la rivoluzione socialista mondiale!
Tradotto da Spartacist, edizione inglese n. 61, primavera 2009