Spartaco n. 68 |
Aprile 2007 |
Difendere lo Stato operaio deformato cinese!
Per la rivoluzione politica proletaria!
Le riforme di mercato in Cina
L’Unione Sovietica, primo e unico Stato operaio realizzato da una rivoluzione operaia diretta da un partito rivoluzionario, il partito bolscevico di Lenin e Trotsky, è stato distrutto da circa 15 anni. L’Unione Sovietica, nella sua degenerazione stalinista, non era certamente il faro della rivoluzione mondiale, come era stata sotto i bolscevichi di Lenin e Trotsky. Tuttavia, costituiva un contrappeso alle ambizioni senza limiti degli imperialisti del mondo intero. Economicamente, dimostrava non solo la possibilità di un’alternativa allo sfruttamento capitalista, ma anche la superiorità di un’economia pianificata. Militarmente, teneva a bada i governanti imperialisti, in particolare gli Stati Uniti, impedendo loro di eliminare a colpi di armi nucleari quelli che essi consideravano i loro nemici. Dopo che il capitalismo è stato restaurato nell’ex Unione Sovietica, l’obiettivo principale degli imperialisti è quello di distruggere gli Stati operai rimanenti, Cuba, Vietnam, Corea del Nord e Cina, il più grande e il più potente di questi Stati, e obiettivo principale. Tutte le potenze imperialiste manovrano economicamente e militarmente, per riconquistare la Cina e poter sfruttare senza limiti i suoi milioni di operai e contadini.
La burocrazia stalinista cinese ha aperto la porta di intere regioni del paese agli imperialisti e alla borghesia cinese che ha le sue basi all’esterno della Cina continentale. Introducendo in maniera aggressiva riforme di mercato, ciò che chiama il “socialismo con caratteristiche cinesi”, la burocrazia erode seriamente le conquiste della Rivoluzione cinese del 1949 basate sul rovesciamento dei rapporti di proprietà capitalisti. Le organizzazioni della “sinistra” che in Italia e internazionalmente avevano urlato a fianco degli anticomunisti da Guerra fredda per restaurare la “democrazia” capitalista in Unione Sovietica, hanno ora messo una croce sulla Cina, dichiarando che è già diventata capitalista. La Cina rimane uno Stato operaio anche se deformato dall’inizio. E’ cruciale conquistare la classe operaia internazionale al programma della difesa militare incondizionata dello Stato operaio deformato cinese contro l’imperialismo e contro tutte le minacce di controrivoluzione capitalista, che vengano dall’interno della Cina o dall’esterno. Noi comprendiamo che la casta burocratica alla testa dello Stato operaio cinese rappresenta una minaccia mortale per la sua sopravvivenza, e ci battiamo per una rivoluzione politica in Cina, per rovesciare la burocrazia e costruire la democrazia operaia basata sui soviet, per l’estensione della rivoluzione proletaria su scala internazionale e la costruzione del socialismo.
La Repubblica popolare di Cina è nata dalla Rivoluzione del 1949 che, malgrado le sue profonde deformazioni burocratiche, è stata una rivoluzione sociale di importanza storica mondiale. Centinaia di milioni di contadini si sono ribellati e hanno preso possesso delle terre sulle quali i loro antenati erano stati brutalmente sfruttati da tempo immemorabile. La vittoria delle armate rosse guidate dal Partito comunista cinese (Pcc) sulle forze del Kuomintang, che rappresentava la borghesia e i proprietari terrieri, ha distrutto l’apparato militare dello Stato borghese semicoloniale cinese. Chiang Kai-Shek, il boia a capo del Kuomintang, fuggì sotto la protezione dell’imperialismo americano, e con lui scappò praticamente tutta la borghesia cinese, rifugiatasi a Taiwan o altrove (Hong Kong, Singapore, Malesia, ecc.) Il potere dei sanguinari signori della guerra, degli usurai, dei proprietari terrieri e della borghesia (spesso gli stessi individui) fu finalmente distrutto. Una nazione che da più di un secolo era stata devastata e divisa dalle potenze occidentali fu unificata e liberata dal giogo imperialista.
Con la Rivoluzione del 1949 in Cina, la creazione di un’economia collettivizzata e centralmente pianificata ha gettato le basi per enormi passi avanti in termini di progresso sociale, e ha permesso alla Cina di far fronte ad una spaventosa arretratezza contadina. Il nuovo Stato ha organizzato e garantito la distribuzione delle terre ai contadini e preso il controllo dell’industria privata che restava. Con l’aiuto dell’Urss, un’industria pesante di Stato ha iniziato a svilupparsi a fianco dell’industria privata esistente, così come sono state sviluppate quelle infrastrutture vitali che mancavano alla Cina. Dopo la guerra di Corea, l’industria privata è stata totalmente nazionalizzata. Il monopolio di Stato del commercio estero proteggeva l’economia socializzata impedendogli di essere penalizzata dalle importazioni di merci a buon mercato provenienti dai paesi capitalisti di gran lunga più sviluppati. Con la Rivoluzione del 1949 i rapporti di produzione sono stati radicalmente cambiati in Cina. Le conquiste materiali di questa rivoluzione sociale sono state immense, ed è possibile rendersene meglio conto se si guarda alle conquiste delle donne, che erano state terribilmente oppresse in tutte le classi sociali. A seguito della rivoluzione, le donne hanno ottenuto per esempio il diritto ad avere terre in concessione, o il diritto al divorzio.
Contrariamente alla Rivoluzione russa dell’ottobre 1917, che era stata realizzata da un proletariato cosciente dei suoi interessi di classe, e guidato dall’internazionalismo bolscevico di Lenin e Trotsky, la Rivoluzione cinese è stata il risultato di una guerriglia contadina diretta dalle forze staliniste nazionaliste di Mao Tse-Tung. Di conseguenza, sin dalla creazione della Repubblica popolare cinese, il Pcc di Mao rappresentava una casta burocratica nazionalista posta al vertice di un’economia collettivizzata e pianificata, ciò che noi chiamiamo uno Stato operaio deformato. Seguendo il modello dell’Urss di Stalin, il Pcc stabilì immediatamente un monopolio del potere e dell’organizzazione politica. Ciò significava che tutta l’attività politica indipendente della classe operaia era schiacciata, così come le stesse lotte economiche.
Quando gli operai presero il potere in Russia nel 1917, i dirigenti bolscevichi, Lenin e Trotsky, erano molto coscienti dell’arretratezza economica, sociale, culturale e politica nella quale si trovava il paese, e delle pressioni verso la burocratizzazione che ne conseguivano. Sapevano che il solo mezzo di sopravvivenza dello Stato operaio era la costruzione del socialismo su scala mondiale, e a questo scopo crearono la Terza Internazionale, che nel primo periodo lottò con tutti i mezzi per estendere la rivoluzione su scala internazionale, in particolare nei paesi capitalisti avanzati d’Europa come la Germania e la Gran Bretagna. Ma la sconfitta della rivoluzione internazionale, la disfatta della rivoluzione tedesca nell’ottobre 1923, l’isolamento crescente della giovane repubblica sovietica che andava di pari passo con la devastazione inflitta al paese dalla Prima guerra mondiale e dalla guerra civile, gettarono le basi materiali per la crescita di un burocratismo nazionalista. A partire dal 1923-1924 l’Unione Sovietica fu l’oggetto di una degenerazione burocratica nazionalista sotto il dominio sempre più dispotico di Josif Stalin. Il programma proletario, rivoluzionario e internazionalista del bolscevismo fu ripudiato in favore della “teoria” profondamente antimarxista della “costruzione del socialismo in un solo paese”, che includeva la possibilità di “coesistere pacificamente” con l’imperialismo mondiale.
L’utopia reazionaria del “socialismo in un solo paese”
Il vero crimine della burocrazia, ieri come oggi, in Urss come in Cina, è che con la sua politica rivolta a rabbonire l’imperialismo per mezzo di concessioni, aiuta a perpetuare e rinforzare il sistema capitalista su scala mondiale. Sotto Mao come sotto il suo successore Deng, la Cina è stata una componente importante dell’alleanza contro l’Urss. Gli stalinisti cinesi portano una responsabilità diretta e importante nella distruzione controrivoluzionaria dell’Unione Sovietica, una disfatta storica per il proletariato internazionale. In ultima analisi, è soltanto con il rovesciamento del potere della classe capitalista su scala internazionale, e in particolare nei centri imperialisti dell’America del Nord, dell’Europa occidentale e del Giappone, che la modernizzazione della Cina potrà essere realizzata nel quadro di un’Asia socialista.
Nel periodo post-sovietico, il regime del Pcc ha continuato ad adattarsi agli interessi e alle aspirazioni dell’imperialismo americano. Così Hu Jintao & Co. hanno sostenuto la “guerra contro il terrorismo” di Bush, la giustificazione politica degli Usa per l’invasione e l’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan e per le sue attuali minacce contro l’Iran, uno dei principali fornitori d’energia della Cina.
Pechino collabora anche con Washington e Tokyo per sponsorizzare i “negoziati” finalizzati a mettere fine allo sviluppo di armi nucleari della Corea del Nord, malgrado il fatto che ogni indebolimento dello Stato operaio deformato nordcoreano di fronte al militarismo imperialista si ritorcerà contro la Cina. Di fronte al dominio nucleare globale ineguagliato dell’imperialismo americano, la sola significativa garanzia di sovranità che possa avere una nazione oggi è quella di possedere strumenti di dissuasione nucleare credibili, come sottolineato dalle minacce imperialiste contro il programma nucleare dell’Iran (vedi articolo in Spartaco n. 67, marzo 2006). La Corea del Nord dichiara che ha sviluppato delle armi nucleari, e il missile Taepodong-2 potrebbe rivelarsi cruciale affinché queste armi siano in grado di raggiungere i loro bersagli. Tali armi sono necessarie per dissuadere gli imperialisti dall’attaccare e per difendere lo Stato operaio, una conquista storica della classe operaia internazionale.
Il “socialismo in un solo paese” significa escludere la possibilità di una rivoluzione socialista in altri paesi. La Cina di Mao era all’inizio degli anni Sessanta l’ispiratrice principale del Partito comunista indonesiano, all’epoca il più forte partito comunista del mondo capitalista, che predicava l’ “unità nazionale” con i nazionalisti borghesi al potere, le autorità musulmane e gli ufficiali dell’esercito. Aveva vietato degli scioperi, represso proteste contadine e predicato la fiducia nel presidente Sukarno e nei suoi generali. Questa abietta collaborazione di classe, lontana dall’essere la prima tappa “democratica” della rivoluzione, spianò la strada ad un colpo di Stato militare nel 1965 e a un bagno di sangue dove più di 500 mila comunisti, lavoratori e membri della minoranza cinese furono massacrati, senza nemmeno una protesta da parte della Cina maoista.
Il “socialismo in un solo paese” rigetta in particolare la possibilità, nel prossimo periodo storico, di una rivoluzione proletaria nei paesi capitalisti avanzati (un rifiuto condiviso dai nostri oppositori riformisti). Il dogma stalinista-maoista del “socialismo in un solo paese” è l’antitesi della prospettiva trotskista della modernizzazione della Cina nel contesto di un’economia socialista integrata e pianificata internazionalmente, risultato della rivoluzione socialista nei centri imperialisti. Questa prospettiva è pertanto la sola via per la liberazione completa delle masse operaie e contadine cinesi.
La natura di classe dello Stato operaio deformato cinese
Come è stato possibile che il Pcc, che nei suoi ranghi non aveva più del 5 percento di operai, e che si appoggiava sui contadini e sugli intellettuali piccolo borghesi, abbia potuto distruggere lo Stato della borghesia cinese e costruire un’economia pianificata e uno Stato operaio, anche se burocraticamente deformato? Dal 1945, quando l’imperialismo giapponese è crollato, al 1949, il Pcc e Mao hanno cercato a più riprese di negoziare con Chiang Kai-Shek. E’ stata l’intransigenza di Chiang Kai-Shek e della borghesia cinese che in qualche modo ha obbligato Mao e il Pcc a fare la rivoluzione.
Nella “Dichiarazione di principi della Spartacist League” del 1966, noi caratterizziamo in questo modo le rivoluzioni dirette da forze guerrigliere piccolo borghesi realizzate dopo la Seconda guerra mondiale:
“Questi tipi di movimenti possono, sotto certe condizioni, e cioè l’estrema disorganizzazione della classe capitalista nei paesi coloniali e l’assenza di una classe operaia che lotti per il proprio diritto al potere sociale, distruggere i rapporti di proprietà capitalisti; non possono però portare la classe operaia al potere politico. Creano piuttosto regimi burocratici e antioperai che soffocano ogni ulteriore sviluppo di queste rivoluzioni verso il socialismo”. (Spartacist, edizione italiana, settembre 1975).
Noi diciamo che la Cina è uno Stato operaio deformato, una forma della dittatura del proletariato. Per i marxisti, lo Stato è un distaccamento di uomini armati (la polizia, l’esercito, le guardie carcerarie, i giudici) incaricati di difendere e proteggere la classe che dirige la società e i suoi interessi, contro la classe dominata. Marx aveva sviluppato il concetto di dittatura del proletariato per spiegare una società post-rivoluzionaria ancora caratterizzata dalla disuguaglianza e dalla penuria economica, una società con dei salari differenziati e un apparato statale coercitivo. Nella sua Critica al programma di Gotha, Marx scrisse:
“Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio in cui lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato...”
Inoltre Trotsky spiega a proposito dell’Urss “La natura di classe dello Stato si definisce come conseguenza non delle sue forme politiche ma dal suo contenuto sociale, cioè dal carattere delle forme di proprietà e dei rapporti di produzione che lo Stato in questione protegge e difende.” (Not a Workers’ and not a Bourgeois State? 1937) Trotsky polemizzava contro coloro che, dietro il pretesto della burocratizzazione stalinista, si rifiutavano di difendere l’Urss. E aggiungeva: “Invece un regime che preserva la proprietà espropriata e nazionalizzata contro l’imperialismo è, indipendentemente dalle sue forme politiche, la dittatura del proletariato”. Questo si applica molto bene non soltanto all’Urss di Stalin ma anche alla Cina di Mao.
Quando diciamo “difesa incondizionata della Cina”, intendiamo la stessa cosa di ciò che Trotsky diceva sull’Urss: “Significa che non poniamo condizioni alla burocrazia. Significa che, indipendentemente dal motivo e dalle cause della guerra, difendiamo la base sociale dell’Urss nel caso sia minacciata di attacco da parte dell’imperialismo” (In difesa del marxismo, 1940). Ma noi non diamo nessun sostegno politico alla burocrazia stalinista, né alla sua politica interna né alla sua politica estera.
Il fatto che il Pcc e il suo esercito erano una forza basata essenzialmente sui contadini avrebbe potuto dare origine ad uno Stato “piccolo borghese” o uno Stato “contadino”? Trotsky, ne La rivoluzione permanente trae le lezioni della Rivoluzione d’Ottobre in Russia, e dice:
“questa esperienza ha provato, in circostanze tali da non permettere più nessun altra interpretazione, che la funzione dei contadini, qualunque sia la sua importanza rivoluzionaria, non può essere una funzione indipendente e, ancora meno, dirigente. Il contadino segue l’operaio o il borghese”.
Non si può avere che una delle due classi fondamentali al potere. Se non c’è la dittatura della borghesia, c’è la dittatura del proletariato. L’esercito maoista ha distrutto l’esercito di Chiang Kai-Shek, cioè l’esercito della borghesia cinese e dei grandi proprietari terrieri, e ha distrutto così la dittatura della borghesia e realizzato la dittatura del proletariato.
Le contraddizioni del periodo delle “riforme”
Le “riforme” orientate al mercato che Deng ha cominciato a realizzare all’inizio degli anni Ottanta, erano un tentativo di rispondere all’inefficienza del dirigismo burocratico (scarsa produttività del lavoro, qualità mediocre, penuria, ecc.) nel quadro del bonapartismo stalinista. Come scrivevamo negli anni Ottanta:
“Nel quadro dello stalinismo, c’è di conseguenza una tendenza inerente a rimpiazzare la pianificazione e la gestione centralizzate con i meccanismi di mercato. Poiché i dirigenti e gli operai non possono essere sottomessi alla disciplina della democrazia dei soviet (i consigli operai), la burocrazia considera sempre più che la sola risposta all’inefficienza economica è sottomettere gli attori economici alla disciplina della concorrenza”. (Le Bolchévik n. 89, dicembre 1988)
Quando Mao è morto, la Cina, malgrado avesse costruito un settore fondamentale dell’industria pesante relativamente moderno, era sempre un paese a predominio rurale e contadino. Più di tre quarti della manodopera era occupata nelle fattorie e più dell’80 percento della popolazione viveva in campagna. Uno dei motivi delle “riforme di mercato”, dipendeva dal fatto che la produzione agricola non aveva seguito il ritmo della crescita industriale; effettivamente il basso livello della produzione agricola rappresentava un ostacolo fondamentale ad un’industrializzazione larga e rapida. Oggi più del 50 percento della forza lavoro è utilizzata nell’industria manifatturiera, nelle costruzioni, nei trasporti, e il 40 percento della popolazione è urbanizzata. Da un punto di vista marxista è uno sviluppo progressivo d’importanza storica, così come la corrispondente espansione quantitativa e qualitativa della capacità industriale della Cina.
Nello stesso tempo, la politica degli stalinisti di Pechino ha fatto molte vittime e gettato nella miseria dei settori significativi della classe operaia e dei contadini, allargato il divario tra la Cina urbana e la Cina rurale, generato una classe di imprenditori capitalisti con dei legami familiari e finanziari con l’amministrazione del Pcc così come con i capitalisti cinesi all’estero. Ha creato anche uno strato agiato di direttori, di professioni liberali e di tecnocrati che godono di un livello di vita occidentalizzato.
In questo contesto la Cina vede bollire il malcontento popolare. Lo sviluppo industriale fa sì che la classe operaia cinese, sia numericamente superiore alla somma delle classi operaie di Giappone, Stati Uniti ed Europa! Questo enorme proletariato industriale ha un potere strategico e si trova di fronte ad una società nella quale si sviluppano le disuguaglianze e le ingiustizie. Da parecchi anni non fanno che aumentare le proteste operaie contro i licenziamenti nelle aziende di Stato, il mancato pagamento dei salari e delle pensioni, e altri abusi dello stesso tipo. Nelle campagne, si producono una serie di proteste contadine, spesso con dei violenti scontri con la polizia, contro il sequestro illegale di terre compiuto da responsabili locali del Pcc a fini speculativi, o contro l’inquinamento. Le statistiche governative per tutti questi “incidenti” operai e contadini danno una cifra di 87 mila per il 2005 (che fa 240 al giorno).
Queste tensioni sociali esplosive, continuando inesorabilmente a svilupparsi, scuoteranno la struttura della casta burocratica al potere. E quando ciò arriverà, l’avvenire del paese più popolato al mondo si porrà brutalmente, l’alternativa è: o la rivoluzione politica proletaria che apre la strada al socialismo o la schiavitù capitalista e la sottomissione all’imperialismo. Noi siamo per la rivoluzione politica proletaria, che deve spazzare la burocrazia stalinista parassitaria e oppressiva e rimpiazzarla con un governo basato sui consigli operai e contadini eletti democraticamente. Un governo di questo tipo sotto la direzione di un partito leninista-trotskista, che bisogna costruire, ristabilirebbe un’economia gestita e pianificata centralmente, compreso il monopolio del commercio estero. Non amministrerebbe questa economia in modo dirigista ma con la più larga democrazia operaia. Incoraggerebbe la collettivizzazione volontaria dell’agricoltura sulla base di un’agricoltura scientifica altamente meccanizzata. Esproprierebbe la nuova classe di imprenditori capitalisti cinesi e rinegozierebbe i termini degli investimenti stranieri nell’interesse dei lavoratori cinesi. Per esempio, insisterebbe su salari migliori e un miglioramento dei benefici sociali per gli operai.
E’ poiché noi comprendiamo l’importanza della Cina per la classe operaia internazionale che mettiamo la questione della sua difesa e della rivoluzione politica proletaria al centro della nostra propaganda. Una rivoluzione politica proletaria in Cina, alzando la bandiera dell’internazionalismo socialista contro il nazionalismo del “socialismo in un solo paese”, scuoterebbe completamente il mondo. Metterebbe fine al clima ideologico della “morte del comunismo” propagato dalle classi dirigenti imperialiste dopo la distruzione dell’Urss. Permetterebbe la radicalizzazione della potente classe operaia giapponese. Sarebbe la scintilla di una riunificazione rivoluzionaria della Corea, con una rivoluzione politica nella Corea del Nord assediata e una rivoluzione socialista nel Sud, e avrebbe delle ripercussioni tra le masse dell’Asia del Sud, in Indonesia e nelle Filippine devastati dall’austerità imperialista.
La rivoluzione politica proletaria è inseparabile dalla lotta per il rovesciamento della classe dirigente capitalista a livello internazionale, in particolare nei centri imperialisti dell’America del Nord, dell’Europa occidentale e del Giappone, perché è il solo mezzo per andare verso la modernizzazione completa della Cina e l’edificazione del socialismo sul pianeta. E’ nella lotta per questo obiettivo che la Lci si batte per riforgiare la Quarta internazionale di Trotsky, il partito mondiale della rivoluzione socialista.
I pericoli che pesano sulla Cina
Affermando che la Cina rimane tuttora uno Stato operaio deformato, non cerchiamo di negare o minimizzare il peso sociale crescente dei nuovi imprenditori capitalisti nella Cina continentale e della vecchia borghesia cinese espatriata a Taiwan o altrove. La politica economica del regime stalinista di Pechino rafforza sempre di più le forze sociali che daranno vita a delle fazioni o a dei partiti sostenuti dall’imperialismo e che diventeranno apertamente controrivoluzionari quando il Pcc non potrà più mantenere il suo attuale monopolio del potere politico.
Cercando di ripetere ciò che è successo con la distruzione controrivoluzionaria dell’Urss negli anni 1991-1992, gli imperialisti vogliono promuovere un’opposizione politica in Cina che si appoggerebbe principalmente sulla nuova classe di imprenditori capitalisti, su degli elementi della burocrazia e del settore dei managers, membri di professioni liberali e tecnocrati legati al capitale locale e straniero. Nello stesso tempo gli imperialisti (in particolare gli Stati Uniti) fanno crescere la pressione militare sulla Cina. Cercano, per esempio, di accerchiare la Cina con basi militari, come quelle in Asia centrale. Hanno siglato con il Giappone un accordo per la difesa del bastione capitalista di Taiwan, e stanno realizzando un comando integrato contro la Cina con l’esercito giapponese a Yokohama. Contrariamente all’Iran, l’India non ha firmato il famoso “trattato di non proliferazione nucleare”, e l’autorizzazione che gli Stati Uniti le hanno dato di sviluppare armi nucleari serve chiaramente a far pressione sulla Cina. Il Pentagono sviluppa chiaramente i suoi progetti con l’obiettivo di dotarsi della capacità di un primo colpo nucleare efficace contro il limitato arsenale nucleare cinese.
La questione della difesa militare incondizionata della Cina contro gli imperialisti non è dunque una questione soltanto teorica. E’ una questione molto concreta che si pone quotidianamente al proletariato internazionale. Certo qui, in Europa, è meno evidente poiché le pressioni militari dell’Europa (o dell’Italia) sono più deboli nella misura in cui gli imperialisti europei hanno mezzi militari limitati per intervenire nel Pacifico (ciò non gli ha impedito di inviare truppe all’estero e nelle loro ex colonie in Africa, in Afghanistan, nei Balcani e in Medio Oriente). Di fronte a queste minacce è vitale che la Cina modernizzi i suoi armamenti. Di fronte alle migliaia di testate nucleari di cui dispongono gli imperialisti, lo sviluppo del suo armamento nucleare è il solo mezzo serio di dissuasione. Ma la politica della burocrazia stalinista, indebolendo il sistema di proprietà nazionalizzata in Cina e ricercando la conciliazione con l’imperialismo su scala internazionale, mette in pericolo questa difesa.
I complici filo imperialisti della controrivoluzione
Una serie di organizzazioni, da Falcemartello (Fm) al Movimento per il partito comunista dei lavoratori (Mpcl) di Ferrando, al Partito d’alternativa comunista (Pdac) di Ricci che si richiamano al trotskismo, ma che lo negano di fatto nella teoria e nella pratica, sostengono che la Cina, dopo Tienanmen e a partire dal ’92, sarebbe o già capitalista o in marcia irreversibile verso il capitalismo.
Per tutti questi sostenitori “critici” o “oppositori” leali e costruttivi del capitalismo di casa nostra, in Cina c’è uno Stato capitalista o quasi capitalista sotto la direzione del Partito comunista cinese, con il mantenimento dell’apparato statale dei tempi di Mao, che solo avrebbe cambiato marcia e natura di classe diventando capitalista. Questa tesi, sostenuta in Italia da tutta la sinistra riformista, è l’espressione della tesi antimarxista secondo cui una controrivoluzione può avvenire a freddo, attraverso una marcia graduale verso il capitalismo, senza guerra civile e senza spezzare il vecchio apparato statale.
Falcemartello giudica la restaurazione del capitalismo in Cina iniziata nel 1992 e quasi del tutto compiuta:
“Benché ci siano ancora in vita pezzi del vecchio sistema, sia nel settore della proprietà statale che nell’apparato dello stato stesso, il compito principale della Cina è la rivoluzione sociale. Il fulcro dell’economia è in mani private. Il cammino verso il capitalismo è un fatto inoppugnabile. Tutti i discorsi sul ‘socialismo alla cinese’ non sono che foglie di fico in cui nessuno crede più, nemmeno la burocrazia locale. Malgrado esistano tendenze contrarie, noi consideriamo che il processo abbia ormai raggiunto il punto di non ritorno. L’apparato statale era e rimane quello del vecchio regime, mostruoso, totalitario e burocratico, mascherato con le peggiori sembianze di capitalismo e stalinismo. Il guscio, la forma, sono quelli di un apparato di stato stalinista, ma il contenuto è borghese”. (“La lunga marcia della Cina verso il capitalismo”, aprile 2006, www.marxismo.net)
Marco Ferrando e Francesco Ricci, ora dirigenti del Mpcl e del Pdac, quando erano insieme nella vecchia tendenza di Rifondazione Progetto comunista, così scrivevano:
“In ogni modo siamo entrati nella fase finale del processo restaurazionista. Due decisioni formali hanno segnato questo ingresso. La prima adottata al congresso del Pcc del 2002 che ha aperto ufficialmente la porta del partito agli imprenditori privati, che negli anni seguenti si sono iscritti in massa, mentre calavano gli iscritti operai. La seconda è quella dell’Assemblea nazionale del popolo del 2004 che ha costituzionalizzato il diritto alla proprietà privata. E’ del tutto probabile quindi che i prossimi anni vedranno la conclusione del lungo processo di reintroduzione del capitalismo in Cina”. (“La fase finale di un processo di restaurazione capitalistica”, Marxismo rivoluzionario n. 7, ottobre 2005)
Dopo la scissione da Rifondazione comunista il Pdac si è spinto ancora più in là, salendo sul carro della Liga Internacional de los Trabajadores (Lit), per la quale, non solo la Cina è semplicemente un “regime politico totalitario, al servizio dello sfruttamento più spietato della classe operaia e dei contadini poveri” (www.marxismo.info) ma anche “a Cuba il capitalismo è già stato restaurato dalla stessa direzione castrista, associata agli imperialismi europei e canadese, nella seconda metà degli anni novanta” (www.litci.org).
Il vero obiettivo di questi riformisti, nel momento in cui proclamano che la Cina è capitalista oppure nella fase finale di un processo inevitabile di restaurazione capitalista, è di dare un malcelato sostegno alle forze anticomuniste e pro-imperialiste all’interno e all’esterno della Cina che si battono per la controrivoluzione capitalista in nome della “democrazia” borghese. Estendono alla Cina la politica da loro seguita nei confronti dell’Urss e dell’Europa dell’Est, dove hanno capitolato alla Guerra fredda antisovietica appoggiando Solidarnosc, chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, o come i compagni russi di Falcemartello (Rabochaya Demokratiya) schierandosi fisicamente sulle barricate di Eltsin a Mosca durante il contro-golpe del 1991 che portò al crollo dell’Urss.
In Cina la tendenza internazionale di Falcemartello appoggia le manifestazioni anticomuniste che si tengono a Hong Kong, sostenendo che “il movimento democratico di Hong Kong ha avuto l’onore di levare per primo la bandiera della democrazia” e rivendicando “libere elezioni subito” e persino il “diritto all’autodeterminazione” dell’enclave capitalista di Hong Kong (Vedi: “Hong Kong Espropriare la borghesia!”, Spartaco n. 63, febbraio 2004).
Noi trotskisti ci siamo battuti per difendere l’Urss dalla controrivoluzione capitalista, le sue conquiste rivoluzionarie, il suo Stato operaio che, malgrado la degenerazione burocratica stalinista, esprimeva la vittoria proletaria dell’Ottobre. Nella Ddr, abbiamo messo in campo tutte le nostre piccole forze in una battaglia politica per difenderla dalla controrivoluzione capitalista e per una rivoluzione politica proletaria che spazzasse via la burocrazia stalinista, ostacolo alla difesa delle conquiste rivoluzionarie e allo sviluppo verso il socialismo, legando questa battaglia, da internazionalisti, alla necessità della rivoluzione proletaria internazionale, soprattutto, per la loro cruciale importanza, nei centri imperialisti.
Così come ci siamo battuti per la difesa dell’Urss e degli Stati operai deformati dell’Europa orientale, oggi ci battiamo per la difesa della Cina di fronte alle sempre più pressanti minacce di controrivoluzione che getterebbe il proletariato, le donne e le masse contadine cinesi sotto il tallone di ferro della schiavitù capitalista.
Un’organizzazione che sotto la copertura della definizione di “leninista” ha dato sin dalla sua nascita manforte al proprio imperialismo contro gli Stati operai deformati è Lotta comunista (Lc). Lc è un prodotto della Guerra fredda antisovietica che presentava l’Unione Sovietica come imperialista, e adesso sostiene che la Cina è una grande potenza capitalista e imperialista. Negando l’evidenza della distruzione dell’apparato statale borghese e l’espropriazione dei capitalisti in Cina con la Rivoluzione del 1949, Lc sostiene che la Rivoluzione cinese era una rivoluzione borghese progressiva che ha permesso alla borghesia cinese di aprire una fase di accumulazione capitalistica nazionale indipendentemente da altre borghesie più forti mettendola in grado di diventare una grande potenza imperialista, in collaborazione e opposizione a Europa e America.
Considerare che la Cina possa crescere dell’8-10 percento l’anno quasi ininterrottamente dalla Rivoluzione del ’49 in poi sulla base del capitalismo, è un’assurdità antimarxista. Il capitalismo conosce crisi, periodi di recessione seguiti da periodi sempre più brevi di espansione con bassi tassi di crescita. E’ sufficiente confrontare lo sviluppo della Cina con quello dell’India, due paesi che si trovavano in condizioni analoghe all’inizio del secolo scorso. La miseria di massa in cui versa l’India, rimasta capitalista, la sua dipendenza dai paesi imperialisti, l’arretratezza delle zone rurali, i ghetti di affamati nelle città, l’analfabetismo, la mortalità infantile, il sistema delle caste e la condizione femminile. A tutto ciò si contrappongono le enormi conquiste sociali della Rivoluzione cinese: l’indipendenza dall’imperialismo, la fine del dominio dei capitalisti e dei proprietari terrieri, istruzione e cure mediche accessibili a tutti, e conquiste per le donne che pongono le premesse per la liberazione delle donne da una barbara oppressione.
Contro Lc che blatera sul carattere progressivo del capitalismo nell’epoca imperialista, sulla possibilità che la borghesia di un paese semicoloniale possa emancipare la nazione e sviluppare autonomamente le forze produttive, Trotsky ne La rivoluzione permanente spiegò come:
“Per i paesi a sviluppo borghese ritardato, e in particolare per i paesi coloniali e semicoloniali, la teoria della rivoluzione permanente significa che la soluzione vera e compiuta dei loro problemi di democrazia e di liberazione nazionale non è concepibile se non per opera di una dittatura del proletariato, che assuma la guida della nazione oppressa, e prima di tutto delle sue masse contadine.
Non solo la questione agraria, ma anche la questione nazionale assegna ai contadini, che nei paesi arretrati costituiscono l’enorme maggioranza, una funzione essenziale nella rivoluzione democratica. Senza una alleanza tra il proletariato e i contadini, i compiti della rivoluzione democratica non possono essere assolti. Non possono neppure essere posti seriamente. Ma l’alleanza tra queste due classi non si realizzerà se non in una lotta implacabile contro l’influenza della borghesia nazionale liberale”.
La penetrazione capitalista in Cina
Le giustificazioni che vengono addotte per affermare che la Cina è già diventata capitalista si basano sull’esistenza di capitalisti in Cina, sulla ristrutturazione delle imprese di Stato e sul fatto che il Pcc ha riconosciuto ufficialmente la proprietà privata, che esiste una borsa, ecc. A differenza dei riformisti, noi non definiamo la natura di classe dello Stato in base alla percentuale di industrie nazionalizzate, o all’estensione dei servizi sociali, dell’istruzione e della sanità gestite dallo Stato, ma alla luce dell’elemento determinante costituito dal rovesciamento dello Stato borghese cinese avvenuto nel 1949, e in base al fatto che il capitalismo è stato espropriato e che lo Stato continua fondamentalmente a difendere queste forme di proprietà sociale.
Un elemento chiave che ci fa caratterizzare la natura di classe difesa dallo Stato operaio deformato cinese, è che il potere politico della burocrazia stalinista di Pechino riposa sulla collettivizzazione del nucleo centrale dell’economia cinese. Ancora oggi questi settori continuano a rappresentare il cuore dell’economia della Cina e a dominarla, anche se in un modo che non è certo né molto stabile né coerente. Nel 2003 le imprese di Stato e quelle (società per azioni) controllate dal partito, davano lavoro alla metà degli operai ed impiegati cinesi, fornendo il 57 percento del prodotto industriale lordo (McKinsey Quarterly, 2004).
Ma questa semplice statistica maschera il ruolo strategico svolto dall’industria statale. Il settore privato (comprese le industrie straniere) è composto principalmente da industrie leggere che impiegano una manodopera numerosa e pochi macchinari pesanti. L’industria pesante, i settori ad alta tecnologia, la produzione d’acciaio, di metalli non ferrosi e di macchine utensili, le telecomunicazioni, la produzione di energia elettrica, l’estrazione di gas e petrolio e la loro raffinazione, le armi moderne: sono tutti settori che si concentrano essenzialmente nelle imprese di Stato.
E’ evidente che il motivo per cui la burocrazia continua a mantenere la proprietà statale non sta nel fatto che essa si identifica soggettivamente con il socialismo, bensì, come scriveva Trotsky, solo “per paura del proletariato”. In effetti la politica economica del regime del Pcc deve fare sempre i conti col terrore di un’agitazione sociale, specialmente di agitazioni operaie, date le dimensioni e la forza della classe operaia, che potrebbero rovesciare il suo regime parassitario. I massacri perpetrati il 4 giugno del 1989 nei quartieri operai di Pechino sono stati ordinati dalla burocrazia nel momento in cui la classe operaia cinese era iniziata a scendere in campo. All’inizio le manifestazioni si erano limitate a delle agitazioni studentesche che chiedevano una liberalizzazione politica e si opponevano alla corruzione. Le prime unità militari inviate a schiacciare le manifestazioni, finirono invece col simpatizzare con queste. Poi si misero in movimento milioni di persone, con al centro la classe operaia. Questa iniziò a riunirsi in assemblee di massa, creando degli embrioni di un’organizzazione di consigli operai. E’ proprio la possibilità di un’entrata in scena della classe operaia che terrorizzò la burocrazia e la spinse a optare per una sanguinosa repressione.
L’ondata di proteste e di malcontento nei confronti delle riforme del “socialismo di mercato” hanno provocato, in occasione di molti dibatti e riunioni organizzati dal Partito comunista cinese, delle discussioni tra quei dirigenti della burocrazia che vogliono mantenere immutato il ritmo delle “aperture” economiche, i “neomarxisti” che vorrebbero un maggior intervento statale per limitare le devastazioni delle “riforme di mercato”, e i maoisti “conservatori”, che desiderano tornare ad un’economia burocraticamente pianificata.
In Francia, la Gauche révolutionnaire, così come i pablisti della Ligue communiste révolutionnaire (Lcr), legati in Italia alla tendenza Sinistra critica dentro Rifondazione comunista, sostengono che il Pcc funziona attualmente come un partito borghese, dato che ha riconosciuto la proprietà privata e che gli imprenditori possono entrare a far parte del Pcc, ecc. Il Cio-Gr (Comitato per un’internazionale operaia, Gauche révolutionnaire) considera che la Cina sarebbe diventata capitalista nel 1992 (mentre era “ibrida”, così dicono, tra la fine degli anni Ottanta e il 1992). Ma nessuno dei fatti su cui si baserebbe questo cambiamento corrispondono alla data del 1992. La proprietà privata, la borsa, la presenza di imprenditori nel Pcc, o esistevano già molto prima o sono stati introdotti in seguito. Il fattore proposto nel loro opuscolo è... la distruzione dell’Urss, avvenuta dopo gli eventi di Tienanmen: “il regime non ha visto altra alternativa che di portare a termine la transizione al capitalismo”.
Trotsky sosteneva che coloro che cercavano di dimostrare che l’Urss degli anni Trenta era capitalista, non facevano che girare al contrario il film del riformismo. Qui nei paesi capitalisti i riformisti spiegano che è possibile modificare la natura dello Stato attraverso le elezioni e la lotta parlamentare, o esercitando una pressione sul parlamento e il governo capitalisti. Girato al contrario, il film del riformismo consiste nel sostenere che la natura dello Stato operaio potrebbe mutare per decreto legge o per voto di un congresso. Non servirebbero delle dure lotte tra la classe operaia e i contadini da una parte e i controrivoluzionari dall’altra. Il Cio-Gr rappresenta un magnifico esempio di questo “riformismo capovolto”, quando sostiene che “Il regime non ha visto alternative” et voilà, la natura dello Stato si è trasformata.
Ma consideriamo un po’ più da vicino l’economia dello Stato operaio deformato cinese: è un dovere per dei marxisti seri che lo difendono.
Cominciamo dalle banche. Uno degli strumenti che servono a mantenere il controllo dell’economia nelle mani dello Stato sono le banche. Le quattro principali banche cinesi sono di proprietà statale. Quasi tutti i risparmi domestici (una cifra valutata in mille miliardi di dollari) e tutto il surplus generato dai settori che non sono di proprietà straniera, si trovano depositati in queste quattro banche. Il controllo esercitato dal governo sul sistema finanziario è un elemento cruciale per il mantenimento e la crescita della produzione nell’industria di Stato, e più in generale per lo sviluppo complessivo dei settori statali. Il fatto che, a tutt’oggi, il sistema finanziario sia rimasto sotto il controllo dello Stato ha consentito al regime di Pechino di controllare efficacemente i flussi di capitale finanziario in entrata e in uscita dalla Cina continentale. La valuta cinese non può essere convertita liberamente, non può essere scambiata (legalmente) sui mercati valutari internazionali. Le restrizioni sulla convertibilità dello yuan hanno messo la Cina al riparo dalle fluttuazioni dei capitali a breve termine che devastano periodicamente le economie dei paesi neocoloniali del Terzo mondo, dall’America latina all’estremo oriente. Anche se l’anno scorso vi è stata una modesta rivalutazione, il governo di Pechino continua a mantenere lo yuan fortemente svalutato (in base ai criteri del “libero mercato”), con gran dispiacere dei capitalisti americani, giapponesi ed europei.
Dietro alla pressione che le borghesie americane, giapponese ed europee esercitano sullo yuan e sulle banche, si profila un attacco ancor più fondamentale all’intero sistema finanziario statale della Cina. Gli imperialisti vogliono costringere il governo di Pechino a rendere totalmente convertibile lo yuan, per spalancare senza limitazioni la via della penetrazione finanziaria della Cina da parte delle banche di Wall Street, di Francoforte e di Tokyo, e questo sarebbe un pericolo mortale.
Il settore privato. Il controllo esercitato sulle banche e sul sistema finanziario consente al governo di controllare il settore privato. Da circa vent’anni in Cina gran parte delle imprese di Stato, sia in termini numerici, sia di manodopera impiegata e di volumi di produzione, sono state privatizzate. I nostri oppositori sostengono che l’esistenza di questo settore dimostra l’avanzata della restaurazione del capitalismo. Molte piccole e medie imprese del settore pubblico sono state semplicemente vendute ai quadri che le dirigevano e che spesso sono membri del Pcc e conservano i legami di cui godevano in precedenza nel partito. Oggi esiste un settore industriale completamente privato, cui appartengono in alcuni casi anche grossi gruppi (ad esempio nella siderurgia e nell’industria automobilistica). Ma questo settore completamente privato si trova dinnanzi un settore bancario statale che agevola le imprese di Stato. Se tutte le imprese di Stato che non hanno saldato i debiti contratti con le banche e che non erano in condizione di farlo, fossero state chiuse, la Cina sarebbe da tempo un’area economicamente disastrata. Viceversa, i prestiti bancari “inesigibili” hanno preso il posto (anche se in modo del tutto casuale, non pianificato e inadeguato) del finanziamento diretto da parte del governo. In questo modo, tra il 1998 e il 1999, la banca centrale ha pagato 200 miliardi di dollari alle principali banche commerciali, acquistando da loro una cifra equivalente di “prestiti inesigibili”. Tra il 2003 e il 2004, le due banche principali hanno di nuovo beneficiato di una dotazione di 45 miliardi di dollari ciascuna.
Il sistema finanziario cinese si basa su due pilastri: 1) Tutti sanno che dietro alle banche c’è il governo e 2) le banche private, specialmente quelle occidentali, non sono (ancora) autorizzate a fargli concorrenza. Se è vero che a partire dal 2006 le banche degli imperialisti hanno la possibilità di acquistare delle porzioni di banche cinesi, sembra per ora che ciò possa avvenire solo a precise condizioni: che partecipino come soci di minoranza e che abbiano solo qualche rappresentante, in via del tutto eccezionale, nei consigli d’amministrazione.
Quando una conferenza del Pcc ha approvato un emendamento alla Costituzione per “proteggere la proprietà privata”, alcuni gruppi (come i pablisti giapponesi di Kakehashi o il Cio) hanno affermato che ciò dimostrava la correttezza della loro valutazione che la Cina era diventata capitalista. Questo nuovo emendamento in effetti è solo il riflesso di una realtà già esistente.
La proprietà privata in Cina esiste da anni. L’eredità è stata introdotta a partire dal 1982. Con questo emendamento la burocrazia cerca di rendere stabili i suoi privilegi con il riconoscimento legale della proprietà privata e dei diritti ereditari. Ma non sarà l’approvazione di una mozione da parte della burocrazia, anche se certo questo rappresenta uno sviluppo inquietante, a determinare il destino della Cina, ma il conflitto sociale. In Cina la proprietà privata è altrettanto instabile che la burocrazia. La proprietà privata e i capitalisti possono esistere oggi in Cina solo con l’autorizzazione della burocrazia, che a sua volta agisce in risposta alle pressioni dell’imperialismo da una parte e del proletariato dall’altra. La proprietà privata, per quanto “inviolabile” la si consideri, sarà violata dalla burocrazia sotto l’impatto di minacce controrivoluzionarie aperte degli imperialisti e della borghesia o, più fondamentalmente, da una classe operaia in ascesa nel corso della lotta per il potere politico.
Questo non ci impedisce di vedere che la politica economica del regime stalinista di Pechino, di incoraggiare le imprese capitaliste, rafforza continuamente le forze sociali da cui nasceranno frazioni e partiti apertamente controrivoluzionari appoggiati dall’imperialismo.
La Borsa. Ecco di nuovo un argomento insostenibile utilizzato dai seguaci di Taaffe (che in Italia pubblicano Lotta per il socialismo, e hanno consigliato lo scorso anno di votare per la coalizione di Prodi) e da altri riformisti. Molte imprese di Stato di grandi dimensioni sono state “privatizzate” grazie ad un sistema di azionariato. Il governo detiene la maggioranza delle azioni, o una forte partecipazione di minoranza nelle imprese quotate nelle due principali borse cinesi. Ma anche nel secondo caso, esse rimangono nei fatti sotto il controllo del governo, dato che il Pcc conserva il monopolio del potere politico. L’autorizzazione a quotarsi in borsa è stata concessa prima alle imprese di Stato, privando le imprese private di un facile accesso al credito. Ciò significa che, se è vero che in Cina non esiste una democrazia operaia, non esiste però neppure una democrazia degli azionisti. Gli azionisti delle società cinesi non hanno diritti di proprietà nel senso capitalista. Hanno diritto ai proventi dei loro attivi finanziari e possono vendere le loro azioni. Ma non possono determinare e neppure influenzare la gestione e la politica delle imprese.
Una polveriera
La situazione della Cina resta dunque assolutamente contraddittoria ed esplosiva. Nonostante il tasso di crescita economico sia vicino al 10 percento annuo ormai da più di 20 anni, non tutti i settori della classe operaia hanno beneficiato di un miglioramento del proprio livello di vita. Come conseguenza delle privatizzazioni, con la loro scia di fusioni e chiusure sono stati licenziati da 20 a 30 milioni di operai, con una percentuale sproporzionata di donne. Quelli che hanno avuto la fortuna di trovare un nuovo lavoro, di solito nel settore privato, sono stati costretti ad accettare salari inferiori senza nessuno dei vantaggi legati in passato alle imprese statali. Una delle regioni più colpite sul piano economico è stata la “cintura della ruggine” del Nordest, dove erano concentrate la gran parte delle vecchie fabbriche: più del 40 percento degli operai adesso sono disoccupati.
In generale si stima che il tasso di disoccupazione vari tra il 6 e il 13 percento del totale della popolazione urbana economicamente attiva. La Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, un organo del governo che si occupa della supervisione della politica economica, ha previsto che se quest’anno l’economia continuasse a crescere dell’ 8 percento, si creerebbero 11 milioni di posti di lavoro, una cifra che rappresenta meno della metà dei 25 milioni di disoccupati, compresi quelli che si metteranno per la prima volta alla ricerca di un lavoro (Economist, 25 marzo 2006).
Secondo il China Labor Statistical Yearbook (2003), tra il 1999 e il 2002 i salari sono aumentati ad un ritmo vicino al 12 percento. Negli ultimi anni, importanti centri industriali come Shenzhen o Shanghai hanno conosciuto una penuria di manodopera, specialmente tra i lavoratori qualificati. Tra le conseguenze vi è stata l’offerta di salari più elevati e di vari benefici per attirare i lavoratori. La stampa ha rivelato che le imprese cinesi, da qualche settimana, annunciano di essere obbligate ad aumentare i prezzi di vendita (a volte fino al 10 o 20 percento). Hong Liang, un economista dell’agenzia di Wall Street Goldman Sachs, ha commentato che : “Stiamo per vedere la fine dell’epoca d’oro dei costi bassissimi della manodopera in Cina” (New York Times, 3 aprile 2006).
Lo sviluppo di una classe operaia di massa ha provocato il moltiplicarsi delle lotte operaie. Questa giovane, gigantesca classe operaia, non nutre le illusioni nel capitalismo che potevano avere gli operai dell’Urss o della Germania orientale: tanti sono quelli che hanno un’esperienza diretta o indiretta nelle enclave capitaliste. Decine di migliaia di scioperi, di manifestazioni e di proteste dimostrano la combattività degli operai e dei contadini cinesi. Ma quello di cui questa classe operaia è priva è un partito rivoluzionario che la guidi, che gli porti la coscienza dei suoi compiti storici, della natura della burocrazia e delle ragioni per cui bisogna combatterla. Ma deve portargli anche la coscienza della necessità di difendere le conquiste rimanenti contro gli imperialisti e i loro lacché.
In risposta a quest’ascesa della lotta di classe, i riformisti operaisti francesi di Lutte ouvrière (Lo), propongono la costruzione di sindacati indipendenti. Un’organizzazione della classe operaia che sia indipendente dalla burocrazia è fondamentale per la rivoluzione politica. Ma se si lancia la rivendicazione di “sindacati indipendenti”, bisogna farlo con un chiaro legame sia alla rivoluzione politica proletaria che alla difesa della Cina contro gli imperialisti. Altrimenti si trasforma, com’è avvenuto nella Russia sovietica e in Europa dell’Est, in un grido di battaglia degli imperialisti o dei loro agenti operai (come i burocrati dell’Afl-Cio, o quelli di Cgil, Cisl, Uil e Cobas in Italia) che sfruttano questa rivendicazione per indebolire lo Stato operaio cinese e spargere illusioni nella “democrazia” borghese.
Una componente vitale della classe operaia è costituita dai lavoratori migranti, molti dei quali sono donne. Questi ultimi, provenienti dalle campagne, si sono ritrovati alla testa di molte recenti lotte. Nel Sudest molte giovani donne migranti sono scese in sciopero, rifiutando di lavorare nelle oscene condizioni di lavoro da “sweatshop”, provocando una penuria di manodopera a partire dall’estate del 2004. A Shanghai e a Pechino i lavoratori migranti, che formano l’80 percento della manodopera che sostiene il boom dell’edilizia, hanno lottato con successo per ottenere migliori condizioni di lavoro.
Le restrizione imposte all’esodo dalle campagne verso le città sono state allentate negli ultimi decenni, ma non ancora eliminate. I migranti, costretti ad accettare i lavori più pericolosi e faticosi, non godono degli stessi diritti legali di chi risiede in città e sono obbligati a vivere in zone segregate. Molti operai di città disprezzano i migranti, che sono visti come coloro che sottraggono posti di lavoro e fanno diminuire i salari. In Cina un partito rivoluzionario d’avanguardia oggi si batterebbe per unificare tutti i settori della classe operaia in un’alleanza con gli operai agricoli e i poveri delle città. Una delle chiavi per una prospettiva di rivoluzione politica proletaria in Cina è la lotta affinché i lavoratori migranti godano degli stessi diritti dei residenti, compresi l’accesso all’assistenza sanitaria, all’alloggio, all’istruzione pubblica, oltre che ad un salario uguale per un uguale lavoro.
Affinché la rivoluzione politica vinca è fondamentale che la classe operaia conquisti alla sua causa le centinaia di milioni di contadini. Compito di un partito rivoluzionario d’avanguardia sarebbe quello di unire nella lotta tutti i settori della classe operaia. E i lavoratori e le lavoratrici migranti sono un ponte ideale che collega la classe operaia alle campagne. Un partito del genere appoggerebbe la resistenza che i contadini oppongono alle espropriazioni delle terre da loro coltivate da parte dei burocrati locali per lo sviluppo di infrastrutture industriali o commerciali. I contadini dovrebbero accettare di abbandonare le loro terre solo in cambio di sostanziali indennizzi per la perdita dei mezzi di sussistenza.
Di solito si ammette che l’era delle “riforme” ha portato allo sviluppo di un enorme divario tra la Cina rurale e la Cina urbana, tra province costiere e province dell’interno. Ma la crescente differenziazione socio economica tra una Cina rurale e una Cina urbana non è cominciata con le “riforme di mercato” di Deng. Era già cominciata negli ultimi anni dell’epoca di Mao. Tra il 1952 e il 1975 la media dei consumi pro capite della popolazione non agricola aumentarono dell’ 83 percento, mentre l’aumento nelle campagne si limitò al 41 percento. Nel 1980, all’inizio dell’epoca delle “riforme”, un abitante delle città consumava il 60 percento di cereali in più e mangiava 2 volte e mezza più carne dei membri delle comunità rurali. Una differenza che era ancora maggiore per quanto riguarda i beni di consumo dell’industria manifatturiera (orologi, lavatrici, radio). In totale il consumo medio della Cina urbana era da due a tre volte superiore a quello delle campagne.
Si può fare un raffronto con l’Unione Sovietica degli anni Sessanta e Settanta. Nell’Urss si osservava un riavvicinamento significativo tra i livelli di vita delle popolazioni urbane e rurali. Gran parte delle fattorie collettive si trasformavano volontariamente in fattorie di Stato, in cui i lavoratori ricevevano un salario uniforme e dei vantaggi indipendenti dalle fluttuazioni della produzione agricola e dei prezzi ai quali il governo acquistava i prodotti. All’inizio degli anni Ottanta, il reddito dei contadini dell’Urss aumentava ad un ritmo superiore a quello degli operai di fabbrica e degli impiegati. Questo livello di egualitarismo più elevato era reso possibile solo dal fatto che l’Urss aveva raggiunto un livello di produttività molto superiore a quello della Cina.
Per quanto riguarda le campagne cinesi, per certi aspetti si è assistito ad un miglioramento delle condizioni di vita. I consumi elettrici nelle regioni rurali si sono praticamente moltiplicati per 8 tra il 1978 e il 1997 e la maggioranza delle famiglie contadine possiede elettrodomestici. Nel 1997, due terzi delle famiglie rurali avevano una televisione, un mezzo di base per l’accesso alla vita culturale moderna.
Tuttavia sotto molti altri aspetti importanti le condizioni di vita dei contadini sono peggiorate. Le comuni rurali dell’epoca di Mao procuravano cure mediche di base, un’educazione elementare e secondaria, pensioni e altre forme d’assistenza. Tra il 1980 e il 1983, Deng ha disciolto le comuni, sostituendole con delle fattorie a conduzione familiare, basate su affitti a lungo termine: il “sistema di responsabilità familiare”. Le forme di assistenza precedentemente fornite dalle comuni, dovevano ora essere prese in carico (ma era solo un modo di dire) dalle amministrazioni locali. Data l’estrema decentralizzazione del sistema finanziario del governo cinese, le misere entrate dei villaggi e delle cittadine non erano sufficienti a rispondere ai nuovi bisogni. Le famiglie contadine sono state costrette a pagare di tasca propria l’assistenza medica e l’educazione dei figli. Con conseguenze sociali prevedibili:
“Nonostante i lodevoli progressi nell’accesso all’istruzione, continuano ad esservi degli squilibri. Le regioni rurali sono in grave ritardo rispetto alle città ed è lì che si concentra l’analfabetismo. Continuano a sussistere grandi differenze nella qualità dell’istruzione e il divario tra le possibilità educative si approfondisce all’aumentare dell’età degli studenti. Persistono anche importanti divari a livello sanitario tra cittadini e abitanti delle campagne e tra residenti di regioni diverse. La mortalità infantile e materna è doppia nelle regioni rurali rispetto alle città. Tutti gli indici mostrano scarti netti tra la nutrizione dei bambini nelle città e nelle campagne” (China Human Development Report, 2005)
Il governo di Hu Jintao ha promesso, in nome di “una nuova campagna socialista”, di migliorare le condizioni di vita dei contadini, come risposta ai “vasti casi di disordine”. Il carico fiscale è stato ridotto e le rette scolastiche per elementari e medie saranno abolite. Il governo centrale prevede di aumentare le spese per i programmi di assistenza alle regioni rurali e per la costruzione di infrastrutture. Tuttavia, come ha fatto notare l’Economist (11 marzo 2006) :
“Queste misure non hanno prodotto una significativa svolta politica. Le somme spese dal governo per le campagne continueranno ad essere solo l’8,9 percento del budget governativo, più dell’8,8 percento dell’anno scorso, ma meno del 9,2 percento del 2004. L’abolizione delle tasse agricole e di altre tasse che colpiscono i contadini consentirà a ciascuno di loro di risparmiare in media 156 yuan (19 dollari) all’anno: poco più del 4,8 percento del reddito netto”.
Una vera riduzione del divario tra Cina rurale e Cina urbana richiederà la ridistribuzione e una nuova massiccia ripartizione delle risorse economiche. L’introduzione di moderne tecnologie agricole, dai fertilizzanti ad ogni genere di sistemi di agricoltura scientifica, esige l’esistenza di una base industriale qualitativamente superiore all’attuale. D’altro canto, l’aumento della produttività agricola farebbe a sua volta crescere il bisogno di una vasta espansione dell’impiego nell’industria nelle zone urbane, per assorbire il vasto surplus di manodopera di cui le campagne non avrebbero più bisogno. E’ evidente che tutto questo richiede un lungo processo, specialmente se si considerano le dimensioni ancora limitate della base industriale cinese e il suo basso livello di produttività. Sia il ritmo che in definitiva la possibilità di concretizzare una simile prospettiva si basano sul tipo di aiuto che la Cina potrebbe ricevere da un Giappone o da un’America socialisti, e questo non fa che sottolineare la necessità di una rivoluzione proletaria internazionale.
Difendere la rivoluzione
Un partito rivoluzionario dovrà lottare contro la propaganda della burocrazia che sostiene che una democrazia sovietica è impossibile. La questione di un’economia centralizzata basata sulla democrazia di consigli operai (e contadini) è in Cina una questione fondamentale e bisogna conquistare a questa prospettiva la classe operaia e i contadini cinesi.
Per esempio, per stabilire la percentuale delle risorse economiche che sarebbe dedicata poniamo al sistema sanitario, piuttosto che ad altri bisogni come gli investimenti nello sviluppo tecnologico o nelle infrastrutture, alla difesa militare piuttosto che all’educazione o alle pensioni, ecc. Questa ripartizione delle risorse economiche disponibili tra molteplici bisogni contrapposti dovrà essere discussa e determinata ai più alti livelli di un governo basato su consigli di operai (e contadini). Il coordinamento delle diverse attività economiche (come l’edilizia, l’informatica o le apparecchiature mediche), necessarie allo sviluppo del sistema sanitario richiederà una gestione e una pianificazione centralizzate. Un sistema del genere è del tutto compatibile con la partecipazione democratica attiva degli operai al posto di produzione, per consigliare il miglior utilizzo delle tecnologie, istituire e rafforzare i sistemi di sicurezza, mantenere la disciplina operaia, ecc.
E’ sicuro che i lavoratori cinesi considerano l’impiego garantito a vita e i vantaggi sociali ad esso collegati (quella che un tempo si chiamava la “ciotola di riso garantito”), una delle principali conquiste sociali della Rivoluzione del 1949. Tuttavia un paese povero ed economicamente arretrato come la Cina non può evidentemente dare a centinaia di milioni di contadini dei posti di lavoro nelle industrie di Stato, per non parlare di posti di lavoro garantiti a vita con un livello salariale e di assistenza sociale doppi o tripli rispetto ai redditi degli abitanti delle comunità rurali.
Per mantenere l’ordine sociale, durante l’era di Mao il regime del Pcc ha impedito con la forza l’emigrazione dei contadini verso le città alla ricerca di lavoro. Inoltre il governo non dava neppure posti di lavoro sufficienti nel settore statale per tutti i lavoratori delle città. Durante la Rivoluzione culturale più di 17 milioni di giovani studenti vennero mandati nelle campagne, alla fine degli studi, separandoli dalle famiglie e dagli amici. Negli ultimi anni dell’era di Mao le comuni rurali erano diventate un enorme serbatoio di disoccupazione e di sotto occupazione mascherata.
La Rivoluzione culturale si poneva in parte l’obiettivo di peggiorare le condizioni di vita della classe operaia in nome di un falso “egualitarismo socialista”. Inoltre il posto di lavoro garantito a vita in una determinata azienda non era razionale dal punto di vista economico, costituendo un freno crescente all’aumento della produttività del lavoro tramite nuovi investimenti. Gran parte dell’infrastruttura industriale cinese è stata costruita nel corso del primo piano quinquennale (il meglio riuscito) a metà degli anni Cinquanta. Questa comprendeva le tecnologie più moderne che la Cina poteva ottenere dall’Unione Sovietica. Ma negli anni Settanta molte imprese industriali erano ormai tecnologicamente superate. Per ottenere la massima produttività del lavoro, senza ulteriori investimenti, bisognava chiudere delle imprese e sostituirle con altre nuove, oppure modernizzarle ricorrendo a tecnologie più moderne che consentissero di economizzare sul lavoro. Entrambi i casi richiedevano l’eliminazione di molti posti di lavoro specifici. Un governo veramente socialista avrebbe riutilizzato altrove i lavoratori eccedenti, garantendo salari e assistenze sociali analoghi e finanziandone il trasferimento e la formazione a spese dello Stato. Ovviamente né Deng né i suoi successori hanno fatto niente del genere. I lavoratori licenziati dalle aziende di Stato sono stati abbandonati a sé stessi e molti di loro hanno dovuto subire pesanti privazioni. Quanto al regime di Mao, di fatto congelò per vent’anni i salari, ricorrendo tanto ai diktat burocratici quanto alla repressione poliziesca dello Stato.
Per avere livelli salariali e assistenza sociali uniformi nelle differenti aziende, rami industriali e regioni (vale a dire ugual paga a uguale lavoro), c’è bisogno di un’economia diretta a livello centralizzato. Solo un sistema di questo tipo ha la capacità di ridistribuire le risorse delle diverse imprese, rami industriali e province verso quelle meno produttive.
L’espansione della base industriale necessaria ad assorbire i contadini senza lavoro pone il problema delle imprese imperialiste attive in Cina. Come marxisti rivoluzionari, non ci opponiamo alle importanti relazioni economiche che la Cina intrattiene con il mondo capitalista attraverso il commercio e le joint ventures con le società occidentali o giapponesi. Un governo basato su dei consigli operai e contadini in Cina, guidato da un partito leninista-trotskista, cercherebbe di sfruttare il mercato mondiale per accelerare lo sviluppo economico. Ma perché ciò avvenga reintrodurrebbe il monopolio dello Stato sul commercio con l’estero. E rinegozierebbe le condizioni degli investimenti stranieri a vantaggio degli operai e del loro Stato.
Ma la cosa più fondamentale è che un governo socialista rivoluzionario in Cina favorirebbe attivamente delle rivoluzioni proletarie su scala internazionale. E’ proprio per dare al proletariato la direzione necessaria in queste lotte che la Lci cerca di riforgiare la Quarta internazionale di Trotsky, partito mondiale della rivoluzione socialista.
Adattato da Le Bolchévik n. 177, settembre 2006