Spartaco n. 66

Settembre 2005

“Europa sociale”: maschera socialdemocratica degli imperialisti

Abbasso l'Unione Europea capitalista!

Per gli stati uniti socialisti d'Europa!

La secca sconfitta del referendum sulla bozza di Costituzione europea in Francia, lo scorso 29 maggio, ha segnato una battuta d’arresto per i piani dei governi capitalisti d’Europa, dimostrando la fragilità del loro tentativo di costruire un conglomerato imperialista che possa competere, per ora sul piano economico e in futuro, forse, su quello politico e militare, per il controllo dei mercati mondiali a spese dei loro rivali, l’imperialismo giapponese e soprattutto la superpotenza americana.

Le onde del “No” francese si sono immediatamente rifratte in tutto il mondo. Tre giorni dopo anche l’Olanda ha rigettato la Costituzione. Il governo laburista di Blair, che ha perso milioni di voti per la partecipazione all’invasione dell’Iraq, ha prudentemente deciso di revocare il suo referendum. A ruota lo hanno seguito tutti gli altri paesi che avevano indetto simili consultazioni.

La bocciatura della bozza di Costituzione ha rinfocolato le scaramucce diplomatiche e le faide commerciali che caratterizzano la vita dell’Unione Europea. A metà giugno il vertice dei capi di Stato dell’Ue è naufragato senza riuscire ad approvare il bilancio 2007-2013 e rimandando sine die la ratifica della Costituzione. Non sarà stata una “nuova Waterloo”, come hanno scritto molti giornali, ma per l’ennesima volta la “Fortezza Europa” si è dimostrata tale solo quando si tratta di usare il pugno di ferro con gli immigrati, di perseguitare la sinistra e di attaccare i lavoratori.

La “Costituzione europea” è stata concepita per sanzionare a livello ideologico il compito chiave delle borghesie d’Europa: aumentare la competitività economica abbassando drasticamente il costo del lavoro (che in Europa resta qualitativamente più alto che negli Stati Uniti), distruggere il retaggio del welfare state e dividere la classe operaia lungo linee etniche e nazionali in modo da poter sfruttare e disciplinare la manodopera, specialmente immigrata.

Come comunisti rivoluzionari ci opponiamo per principio a sostenere qualsiasi coalizione tra imperialisti. I nostri compagni in Francia hanno fatto appello a votare “No” al referendum. Il tentativo delle potenze imperialiste europee di costruire un’alleanza che li metta in condizione di meglio competere con i loro rivali imperialisti americani e giapponesi, può essere realizzato solo calpestando la classe operaia multietnica d’Europa e i popoli oppressi del mondo semicoloniale. L’Unione Europea non è nient’altro che un conglomerato imperialista reazionario, instabile e conflittuale, per il quale valgono ancora le lungimiranti parole scritte da Lenin nell’agosto del 1915: “Ovviamente delle alleanze temporanee tra stati capitalisti sono possibili. In questo senso gli Stati Uniti d’Europa sono possibili come accordo tra i capitalisti europei... ma a quale fine? Solo allo scopo di sopprimere insieme il socialismo in Europa e di proteggere il bottino coloniale contro il Giappone e l’America” (Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa).

L’Unione Europea: da alleanza antisovietica a consorzio imperialista

Le origini dell’Unione Europea risalgono agli anni Cinquanta, quando gli imperialisti dell’Europa occidentale, sotto la guida degli Usa, cercarono di consolidare la loro alleanza contro l’Unione Sovietica stabilendo una migliore coesione economica. L’Unione Sovietica, nonostante la sua degenerazione iniziata nel 1924 quando la casta burocratica guidata da Stalin si impadronì del potere politico, restava uno stato operaio, basato sull’espropriazione dei capitalisti e sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione che erano stati realizzati dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917. E’ per questa ragione che noi trotskisti abbiamo difeso l’Urss, ed è per la stessa ragione che gli imperialisti volevano distruggerla per riconquistare la possibilità illimitata di investire i loro capitali in tutta l’Europa dell’Est. La nostra opposizione per principio sia nei confronti della Nato, l’alleanza militare contro l’Urss, sia al suo corollario economico, la Comunità economica europea (la Cee, precorritrice dell’Ue) derivava dalla nostra difesa dell’Urss.

La natura dell’Unione Europea è cambiata con la distruzione controrivoluzionaria dell’Unione Sovietica nel 1991-92. L’Unione Europea ruota attorno alla Francia e alla Germania, due potenze imperialiste separate, con delle borghesie distinte e rivali tra loro, che stanno cercando di migliorare il loro livello di coordinamento e di muoversi spesso in collaborazione con la Russia capitalista (ed altri paesi) col solo obiettivo di realizzare i rispettivi interessi. Ovviamente è la Germania, più forte della Francia e di tutti gli altri paesi dell’Ue, il partner che domina questa relazione.

Nel dicembre del 1989, a un mese dalla caduta del Muro di Berlino, l’allora presidente francese Mitterrand negoziò col cancelliere tedesco Kohl il rafforzamento dei rapporti economici tra Germania e Francia, le due principali potenze imperialiste d’Europa, siglando un accordo di massima per la creazione di una moneta comune, pensando che sarebbe diventata un’arma per la guerra monetaria contro l’egemonia internazionale del dollaro. Era nato l’euro.

Tuttavia, sotto la pressione degli imperialisti americani, la cui economia è molto più dinamica e che possiedono una forza militare incomparabilmente superiore, quest’alleanza si è evoluta lungo linee contraddittorie. Gli Stati Uniti, con l’aiuto fattivo della Gran Bretagna, stanno cercando di tenere a freno la costruzione di un polo imperialista rivale e il dollaro continua ad essere la valuta di riferimento internazionale. Inoltre l’Unione Europea è minata dall’interno dalle rivalità tra le varie potenze che la costituiscono, comprese Francia e Germania, come dimostrano una serie di dispute industriali recenti. Il gigante farmaceutico Aventis, la società franco-tedesca “modello” è stata inghiottita dalla francese Sanofi-Synthélabo, mentre la società francese di ingegneria pesante Alstom sta lottando disperatamente per non essere assorbita dalla tedesca Siemens. Persino i “successi” europei, come l’Airbus, che ora sfida la Boeing, non sono privi di tensioni. L’Airbus A380 è stato lanciato solo dopo infinite trattative per la distribuzione dei compiti (e dei profitti) tra Tolosa ed Amburgo.

La bozza di “Costituzione” europea in verità non si può nemmeno considerare tale. Non si sta parlando di creare uno stato capitalista europeo, neppure in forma federale, quanto di un trattato in base al quale i singoli Stati cedono parte della propria sovranità per definire delle regole per la competizione tra le differenti classi capitaliste nazionali d’Europa, per aumentare la loro competitività nei confronti degli Stati Uniti e degli altri rivali, e per rafforzare gli attacchi ai lavoratori europei, specialmente ai lavoratori immigrati. Quando Chirac o il cancelliere tedesco Schröder parlano di un mondo multipolare intendono semplicemente dire che vogliono alleare le proprie forze e imbrigliare le proprie rivalità per confrontare meglio i rivali comuni più forti: Usa e Giappone.

Per gli operai non c’è niente da appoggiare in queste alleanze tra gruppi di imperialisti contro altri gruppi di imperialisti, niente che difenda i loro interessi! Tutta la storia dell’Unione Europea, già prima del Trattato di Maastricht, ha dimostrato che i miglioramenti della “competitività europea” significano togliere ai lavoratori per dare ai padroni, in modo da rafforzarli nella lotta contro i loro rivali americani e giapponesi. Quando i riformisti sostengono che gli operai hanno interesse ad un’Europa forte “democratica e sociale”, stanno cercando per l’ennesima volta di legare la classe operaia alla propria borghesia.

La “sinistra” europea: per un polo imperialista più autonomo

La sinistra socialdemocratica, dal Partito comunista francese (Pcf) a Rifondazione, spaccia abbondantemente la menzogna che gli imperialisti europei siano meno spietati dei loro rivali giapponesi o americani e invece di opporsi ai propri governanti imperialisti si preoccupa principalmente di sollecitare una maggiore indipendenza politica delle forze militari europee dalla Nato e dagli Stati Uniti. Il segretario del Pcf Buffet ha dichiarato ad esempio che “Ho paura che un domani, se venisse approvato il trattato costituzionale, l’Europa verrebbe a trovarsi sotto l’egida degli orientamenti della Nato, si chiederebbe agli Stati di aumentare le loro spese militari, come è scritto in effetti nel trattato, invece di far svolgere all’Europa un ruolo per il disarmo. Ciò danneggerebbe la voce della Francia sulla scena internazionale” (l’Humanité, 2 maggio). Il piccolo postino della Ligue communiste révolutionnaire (Lcr) Besancenot, ha ripetuto con voce piccata: “E’ vero! Questa Costituzione subordina l’Europa alla Nato! Dice che la difesa dev’essere compatibile con la Nato”.

Anche Rifondazione comunista chiede agli imperialisti europei di mostrare maggiore indipendenza e protagonismo politico. In un convegno del Partito della sinistra europea, il 24 ottobre 2004, il responsabile esteri del Prc Gennaro Migliore ha esclamato: “Altro che polo in concorrenza con lo strapotere militare degli Usa, al massimo l’Europa si pensa come appendice funzionale nella struttura imperiale del mondo”. A partire dalla guerra in Serbia, quando faceva appello ad un intervento “di pace” di forze europee, fino alla guerra in Iraq, quando ha esaltato “l’asse di pace franco-tedesco” e ha chiesto ai capi di stato europei di opporsi a Bush, Rifondazione comunista non ha perso occasione per sostenere un ruolo più assertivo e indipendente dagli Stati Uniti e dalla Nato per le forze imperialiste europee.

Quando parla delle “tradizioni di pace” dell’Europa, Rifondazione nasconde che l’Europa è stata costruita sullo sfruttamento e la repressione brutale dei paesi coloniali, dal genocidio libico dell’Italia alla guerra d’Algeria della Francia. Anche oggi i tentativi di costruire un polo imperialista europeo capace di competere con gli Stati Uniti si accompagnano agli sforzi di riarmo militare: dalle discussioni per stabilire dei produttori di armi integrati a scala europea, ai tentativi di rendersi indipendenti dai sistemi di intelligence americani con la creazione di una rete di satelliti a scopi militari (Galileo), all’invio di unità militari europee con ruolo di polizia nei Balcani. Inoltre le borghesie europee sono sempre pronte a usare il pugno di ferro e condurre sanguinose operazioni coloniali nelle rispettive aree di influenza, con o senza la partecipazione degli Usa, come fa costantemente la Francia nell’Africa occidentale, o la Germania e l’Italia nei Balcani.

Il Pcf e Rifondazione si nascondono dietro gli appelli al “disarmo” e ad un’Europa “pacifica” che “dialoghi” col Sud del mondo. Ma dati gli attuali rapporti di forza tra gli imperialisti, la retorica del “pacifismo” è del tutto compatibile con gli interessi delle borghesie d’Europa. Oggi le principali potenze imperialiste d’Europa sanno di non poter neppure lontanamente rapportarsi sul piano militare alla potenza del rivale americano. Non solo l’attuale arsenale (nucleare) degli Usa è incomparabilmente superiore a quello dei suoi rivali, ma le sue spese militari sono circa 10 volte superiori di quelle di ciascuno dei principali paesi d’Europa. Per questo, quando non si uniscono alle avventure imperialiste degli Usa, le borghesie europee predicano la competizione “pacifica”, “umanitaria” per i mercati mondiali.

Nelle masse lavoratrici sono diffusi l’odio e la giusta rabbia contro il militarismo americano. Ma finché l’opposizione al militarismo americano non si traduce in una politica di internazionalismo proletario, una politica che deve partire dall’opposizione alla propria borghesia e al proprio stato imperialista, verrà inevitabilmente incanalata nel rafforzamento della potenza militare delle rispettive borghesie e in qualche forma di “pace sociale” interna.

“Europa democratica e sociale”: maschera dell’imperialismo

Il “No” di massa al referendum francese ha allarmato i governi capitalisti d’Europa, proiettando lo spettro di una possibile resistenza della classe operaia ai loro piani per aumentare lo sfruttamento dei lavoratori e il terrore razzista contro gli immigrati. Come hanno scritto i nostri compagni in Francia: “I lavoratori francesi, da tre anni sotto i colpi raddoppiati di Raffarin, hanno approfittato un’altra volta di ciò che gli è capitato sotto mano, il referendum, per esprimere la loro rabbia. Ciò che le cifre mostrano chiaramente è un “No” massiccio tra i lavoratori (79% tra gli operai, 67% tra gli impiegati) mentre nelle sfere più elevate della piccola borghesia e nella borghesia è stato il ‘Sì’ ad essere massiccio” (Le Bolchévik n. 172, giugno 2005).

Molti lavoratori hanno visto nel “No” alla Costituzione europea un modo di esprimere la loro opposizione al governo francese in carica e agli altri attacchi alle conquiste operaie, come le privatizzazioni e la direttiva Bolkestein. Questa direttiva dell’Unione Europea, approvata nel marzo del 2004 dalla Commissione europea capeggiata da Romano Prodi, darebbe alle imprese dell’Europa occidentale la possibilità di assumere lavoratori dell’Europa dell’Est con salari bassissimi.

La nostra opposizione per principio all’Europa capitalista ci distingue dal resto della “sinistra” in tutta Europa.

In Francia, la maggior parte degli oppositori della Costituzione, dal Pcf alla Lcr hanno giurato e spergiurato di non essere contro l’Europa capitalista in sé e per sé ma solo contro l’attuale Europa “neoliberista” e la sua “Costituzione giscardiana”.

In Italia i partiti socialdemocratici sostengono con entusiasmo il tentativo di integrazione degli imperialisti europei. Ds, Verdi e Pdci hanno tutti ratificato il Trattato costituzionale in Parlamento e Fassino è persino andato in pellegrinaggio in Francia per cercare di convincere i lavoratori francesi ad abbracciare Chirac e votare “Sì”! L’unica opposizione parlamentare al Trattato è venuta da Rifondazione comunista. Ma anche Rifondazione, lungi dall’opporsi ad un’alleanza capitalista europea, sostiene con entusiasmo quello che chiama “un nuovo europeismo popolare di sinistra” (Liberazione, 17 giugno) e il manifesto del Partito della sinistra europea, di cui Bertinotti è il segretario, annuncia: “vogliamo costruire un progetto per un’altra Europa e per dare altri valori e contenuti dell’Unione Europea, autonoma dall’egemonia degli Usa, aperta al Sud del mondo, alternativa al capitalismo nel suo modello sociale e politico, fortemente contraria alla militarizzazione e alla guerra”.

Le frasi altisonanti di Rifondazione, del Pcf e della Lcr a proposito di una “Europa sociale e democratica” servono solo a nascondere sotto uno strato di vernice rosa la loro accettazione dell’Europa capitalista, che può significare solo sfruttamento, razzismo e guerra. Quello che vogliono è che le loro borghesie nazionali, gli imperialisti francesi e italiani, siano più autonomi, più forti e più competitivi sullo scenario internazionale, sperando di strappare qualche briciola per sé stessi e per i lavoratori. Ma c’è un solo modo in cui gli imperialisti di Francia e Italia possono reggere la competizione in un mondo dominato dall’imperialismo americano: aumentare lo sfruttamento dei propri lavoratori, ridurre le spese sociali, dividere il proletariato lungo linee etniche.

Il “No” alla Costituzione della classe lavoratrice ha espresso la sua ostilità verso quello che viene definito come il “modello economico neoliberale anglosassone” promosso da Bush e Blair e la volontà di difendere il vecchio “stato sociale”. Per vasti strati della popolazione l’ingresso nell’euro ha significato solo aumenti verticali dei prezzi, licenziamenti di massa dalle vecchie industrie di stato privatizzate e pesanti attacchi all’assistenza sociale (scuola, pensioni, sanità). Questi attacchi sono stati presentati, soprattutto dal governo dell’Ulivo/Rifondazione nel 1996-98, come il prezzo necessario che andava pagato per obbedire ai “criteri di Maastricht” ed “entrare in Europa”, evitando l’emarginazione economica.

Rifondazione insiste che il suo “No” alla Costituzione non è “per colpire l’Europa” ma “semmai per difenderla, per difendere il continente che ha creato lo stato sociale, che ha realizzato un sistema di sicurezze, che ha costruito diritti sociali e politici, che ha cercato di creare condizioni di sicurezza e di solidarietà” (Liberazione, 31 maggio 2005).

Rifondazione nasconde che il “modello sociale” europeo ha significato sin dall’inizio lo sfruttamento e l’oppressione degli immigrati provenienti prima dall’Europa del Sud e dell’Est e poi dal Nordafrica e dall’Asia. Nasconde che è un continente lacerato, come tutti i continenti, dalla lotta di classe, senza la quale gli operai non avrebbero mai avuto nessun diritto sociale e politico. Lo “stato sociale”, l’insieme di conquiste sociali (pensioni, sanità, educazione, ecc.) di cui hanno goduto vasti strati di lavoratori dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra è stato una concessione che le classi dominanti sono state costrette a fare per placare il proletariato e preservare il potere. Alla fine della Seconda guerra mondiale, grazie alla vittoria dell’Armata Rossa sul nazismo, all’espropriazione dei capitalisti in tutta l’Europa dell’Est e alla situazione rivoluzionaria in vari paesi (dalla Grecia all’Italia), le borghesie europee temevano di essere rovesciate. Lo impedirono, col sostegno degli Usa, ma anche con l’aiuto dei partiti stalinisti di massa che consentirono il disarmo del proletariato e il ristabilimento dell’ordine borghese. Ma per placare la classe operaia si videro costrette a fare importanti concessioni. Poi, tra gli anni Sessanta e Settanta vi furono di nuovo esplosioni rivoluzionarie o prerivoluzionarie in Portogallo, Francia e Italia (e di nuovo i partiti comunisti filomoscoviti aiutarono a preservare l’ordine borghese in nome di “riforme strutturali”). Il cosiddetto “stato sociale” fu il sottoprodotto di quelle lotte rivoluzionarie: un insieme di riforme limitate e necessariamente provvisorie sotto il capitalismo. Dopo la distruzione controrivoluzionaria dell’Urss e dell’Europa dell’Est, nel clima sociale della “morte del comunismo”, la borghesia non considera più necessarie quelle concessioni e cerca di smantellarle pezzo a pezzo.

Solo con la lotta di classe nella prospettiva di rovesciare ed espropriare le proprie classi capitaliste i lavoratori d’Europa saranno in grado di difendere ed estendere le conquiste faticosamente strappate nel passato. Cullandoli nell’illusione che il capitalismo europeo sia intrinsecamente migliore del “neoliberismo” angloamericano, Rifondazione li disarma politicamente e li lega alla propria borghesia, facilitando l’erosione di ogni loro conquista. La politica di Rifondazione è la collaborazione di classe con la borghesia. Al contrario, gli operai di tutti i paesi devono unirsi contro le borghesie di tutti i paesi.

Persino Lutte Ouvrière (Lo), che pure ha adottato una postura militante contro la coalizione della “sinistra plurale”, appoggia da anni l’Europa capitalista. Nel 1992 si sono astenuti al referendum sul Trattato di Maastricht, che ha posto le basi per una moneta comune europea. Anche loro, pur avendo votato “No”, continuano ad elogiare l’unificazione capitalista europea. In un recente articolo, hanno scritto (Lutte de Classe, febbraio 2005):

“(…) siamo a favore dell’unificazione europea. (...) Persino ora, su basi capitaliste, con tutte le ingiustizie e insufficienze che l’accompagnano, l’Unione Europea rappresenta un progresso in tutta una serie di campi. Non foss’altro che per la fine della frammentazione economica e delle barriere doganali, oltre che per la libertà di circolazione delle persone su buona parte del continente, questo rappresenterebbe già un vantaggio apprezzabile rispetto ai controlli sull’immigrazione e al filo spinato, anche se questa libertà non è pienamente riconosciuta agli immigrati che vivono e lavorano nell’Ue”.

Nelle otto pagine dell’articolo appena citato, le rivalità tra Europa e Usa e all’interno dell’Europa tra le varie potenze imperialiste scompaiono semplicemente e si traccia un disegno idilliaco della Ue per mascherare il loro sostegno all’Ue imperialista. “Libertà di circolazione”? Andate a raccontarlo ai rom che fuggono dai pogrom in Romania, nei Balcani e in Slovacchia (paese che appartiene all’Ue) e che ovunque sono perseguitati dalla polizia. Un “vantaggio rispetto al filo spinato”? Si stima che circa 4.000 africani siano annegati negli ultimi anni nel tentativo di attraversare lo Stretto di Gibilterra per entrare nella fortezza razzista dell’Unione Europea. I ministri dell’Ue stanno discutendo apertamente la possibilità di istituire dei campi di concentramento finanziati dall’Ue in Libia o in qualche altro paese, in ogni caso, lontano dagli occhi sensibili di Lo. Un lavoratore marocchino che riesca ad ottenere un permesso di soggiorno in Spagna, ha diritto di “viaggiare” in Francia, a condizione che non si fermi mai, perché non ha il diritto di restarvi.

In Italia la “opposizione interna” di Rifondazione (Falcemartello e Progetto comunista) dichiara la sua netta opposizione all’Ue, condannandola come un’alleanza imperialista antioperaia e criticando la direzione di Rc per il suo sostegno all’Ue mascherato da “Europa sociale e democratica”. Ma nonostante le loro lamentele, sia Fm che Progetto comunista sono assolutamente disponibili a sostenere Rifondazione (e quindi l’Unione) alle elezioni, contribuendo così a legare la classe operaia alla carrozza del futuro governo borghese. La loro opposizione all’Unione Europea è tutta interna al quadro del riformismo nazionale. In un articolo intitolato: “Come uscire dalla crisi economica”, Falcemartello ha spiegato ad esempio che “un governo di sinistra che voglia fare una politica autenticamente alternativa” dovrebbe:

“Riprendere in mano leve decisive del controllo finanziario che oggi sono in mano alla Banca centrale europea e alle altre istituzioni dell’Unione europea. Come già detto, di per sé la rottura con l’euro non risolverebbe alcuno dei problemi di fondo del capitalismo italiano. Il problema non è scegliere fra integrazione o protezionismo su basi capitaliste. Il cuore del problema è la lotta per il controllo sull’economia; in questo quadro è chiaro che un governo che voglia realmente difendere gli interessi dei lavoratori e dei settori popolari si troverebbe inevitabilmente in un conflitto frontale con le istituzioni finanziarie europee, dovrebbe disconoscere il patto di stabilità e rifiutare l’applicazione delle varie normative europee che impongono flessibilità, privatizzazioni ecc. Se questo significhi anche rompere con l’euro (…) saranno solo gli avvenimenti a dirlo, ma certo non può essere escluso a priori” (Falcemartello, n. 184, 8 giugno 2005).

Si tratta di un appello riformista a Ds/Rifondazione perché, sotto la pressione di lotte operaie, prendano in mano il timone della macchina statale capitalista, nazionalizzino le aziende in crisi e quelle “strategiche” e facciano una politica di redistribuzione dei redditi. Non è una ricetta nuova. La attuò ad esempio, nel secondo dopoguerra, il partito laburista britannico (di cui fa ancora parte, da più di quarant’anni, la sezione inglese della corrente di Fm), allo scopo di impedire il crollo economico dell’imperialismo britannico ormai esangue, di imbrigliare la classe operaia, e di mantenere il più a lungo possibile il potere nelle colonie della Corona.

Perché i marxisti internazionalisti si oppongono all’estensione dell’Ue

Con l’estensione dell’Unione Europea a 25 paesi, ora nell’Ue coesistono, fianco a fianco, paesi imperialisti e intermedi e paesi molto poveri. Molti hanno conosciuto la controrivoluzione capitalista che ha devastato le economie dell’Europa orientale, riducendole allo stato di semicolonie dominate dal capitalismo tedesco, italiano e francese, la cui penetrazione verrà enormemente facilitata dall’estensione dell’Ue.

Per quanto riguarda l’estensione dell’Ue è utile prendere in considerazione la creazione del Nafta all’inizio degli anni Novanta, il trattato economico tra Stati Uniti, Canada e Messico. All’epoca i nostri compagni americani, canadesi e messicani pubblicarono una dichiarazione congiunta contro il Nafta (Workers Vanguard n. 530, 5 luglio 1991). Facendo appello ai lavoratori americani, canadesi e messicani perché si unissero nella lotta di classe contro questo “Accordo di libero commercio” (Fta), la dichiarazione diceva:

“In complesso sarebbe l’economia più forte, quella degli Usa, ad uscirne vincitrice. Per di più i capitalisti americani vogliono usare l’Fta per fare a pezzi le leggi che regolano le relazioni sindacali ambientali sui due lati del confine. L’imperialismo yankee vuole trasformare il Messico in una gigantesca maquiladora, una zona di libero commercio: ‘libero’ dai sindacati, ‘libero’ per il capitale.

Lungi dal ‘liberalizzare’ il commercio internazionale, questo accordo mira a creare una riserva di caccia privata per la borghesia imperialista americana, per i suoi partner cadetti canadesi e per i loro lacché nella classe dominante messicana”.

E’ esattamente quello che è successo. Il primo gennaio del 1994, il giorno in cui entrò in vigore il Nafta, insorsero i contadini messicani del Chiapas. All’epoca, l’intera sinistra europea, solidarizzò con l’insurrezione zapatista contro il Nafta. Oggi quella stessa sinistra è tutta contenta che la Polonia stia entrando nell’Unione e chiede che la Turchia faccia altrettanto! Vale a dire: si oppongono al Nafta, che rafforza il giogo Usa in America Latina, ma appoggiano l’estensione del dominio delle proprie borghesie sull’Europa dell’Est e i Balcani!

Il Nafta e l’Unione Europea non sono certo identici, ma l’inclusione della Polonia e in futuro della Romania e forse della Turchia, non faranno che aumentare l’oppressione degli operai e dei contadini di quei paesi. Come hanno scritto i nostri compagni dello Spartakist-Arbeiterpartei Deutschlands (Spartakist n. 156, autunno 2004):

“Durante i negoziati per l’adesione all’Ue, gli imperialisti europei hanno imposto una serie di criteri per l’ingresso che equivalgono ad un programma brutale di attacchi sociali. Per esempio la Polonia ha dovuto ‘rendere competitivo’ il suo settore minerario, col licenziamento in massa dei minatori e la chiusura delle miniere. I sussidi di disoccupazione sono così bassi che non bastano per sopravvivere. Oggi, nelle foreste della storica regione mineraria di Jelenia Góra (dove la disoccupazione supera il 40 percento) capita spesso di imbattersi in miniere scavate coi badili da minatori licenziati in cerca di carbone. (…) E’ il risultato della controrivoluzione capeggiata da Solidarnosc in Polonia”.

E’ stata soprattutto la questione della Turchia a scatenare le proteste più isteriche. Il fascista Le Pen e il ministro di estrema destra De Villiers, la destra tedesca e la Lega Nord italiana, tutti sono impazziti all’idea che 70 milioni di musulmani, turchi e curdi, possano entrare nell’Unione Europea. Questa lurida campagna razzista colpisce direttamente milioni di persone di origine musulmana e nordafricana che vivono in Europa. Ma non è una buona ragione per essere a favore dell’ingresso della Turchia nell’Ue. Alain Bocquet, capo del gruppo parlamentare del Pcf all’Assemblea nazionale, ha fatto capire nel migliore dei modi le ragioni che spingono il Pcf ad appoggiare l’ingresso della Turchia nell’Ue da un punto di vista sciovinista.

“Dal punto di vista del tipo di Europa che noi comunisti preferiamo, è meglio continuare su questa strada piuttosto che isolare la Turchia alle porte d’Europa. Altrimenti la Turchia potrebbe cadere preda di vari esiti. Il primo è l’ascesa del fondamentalismo islamico: ricordatevi in questo senso che la Turchia, una società a maggioranza musulmana, per quanto riguarda le istituzioni è uno stato laico. La seconda possibilità è una crescita del militarismo: l’esercito è un pilastro fondamentale della società turca, dato che rappresenta una possibilità di avanzamento sociale. La terza è il pericolo di una deriva filo-atlantica, dato che gli Stati Uniti continuano a vedere nel mantenimento della Turchia in seno alla Nato un obiettivo strategico di prim’ordine” (L’Humanité, 9 febbraio).

Anche Rifondazione ha votato a favore dell’allargamento dell’Ue e per bocca di Ramon Mantovani (www.esteri.rifondazione.co.uk) ha sostenuto in Parlamento che: “Noi siamo stati sempre favorevoli all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, tanto più lo siamo oggi (...) a patto che in Turchia si risolvano i problemi che ci sono in quel paese”, in particolare la questione curda.

Sembra che molti lavoratori e contadini curdi pensino che l’Unione Europea metterebbe fine alla loro secolare oppressione nazionale. Non potrebbe esserci nulla di più sbagliato. Non solo l’Unione Europea non accetterà la spartizione della Turchia, della Siria, dell’Iran e dell’Iraq allo scopo di formare una repubblica curda indipendente, ma negli stessi Stati più avanzati dell’Unione Europea, la questione nazionale non è stata affatto risolta. I cattolici irlandesi sono oppressi nell’Irlanda del Nord e altrettanto vale per i baschi in Spagna e in Francia, per non parlare dei corsi e dell’oppressione nazionale in Guadalupa, ecc. Per non parlare della Grecia, membro dell’Ue da quasi 25 anni, che continua ad opprimere i turchi, gli slavo-macedoni, gli albanesi, i rom e una moltitudine di altre minoranze.

Facendo propria l’idea che l’Unione Europea porterà la libertà ai curdi e la democrazia agli operai turchi, la sinistra non fa altro che dimostrare le sue profonde illusioni nel presunto carattere progressista della sua borghesia. Illusioni del genere disarmano la classe operaia e le impediscono di sostenere la lotta di classe rivoluzionaria. Le affermazioni di Bocquet vanno al nocciolo della questione dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea: contrastare la supremazia americana nella regione. Anche se si proclama “internazionalista” e vota “No” alla “Costituzione europea”, la sinistra fa da foglia di fico per lo sciovinismo nazionale della propria borghesia. Chiede solo che si segua un approccio diverso, nella speranza che anche i lavoratori francesi ne ricevano qualche briciola.

Le “delocalizzazioni” e la lotta contro lo sciovinismo e il razzismo contro gli immigrati

Oggi molti lavoratori si sentono minacciati dalla chiusure delle fabbriche per la decisione delle imprese di spostare la produzione nei paesi dell’Europa dell’Est, in Turchia o nello Stato operaio deformato cinese. Facendo proprio il punto di vista dei capitalisti, i burocrati sindacali accettano necessariamente il bisogno delle loro imprese nazionali di aumentare la competitività sul mercato mondiale. Perciò firmano, uno dopo l’altro, contratti che accettano lo smantellamento di conquiste duramente strappate dai lavoratori sul terreno del salario, dell’orario e delle condizioni di lavoro.

I capitalisti cercano di rivolgere la rabbia dei lavoratori contro i loro fratelli di classe di altre nazionalità, sia fuori che dentro i confini. E’ per questo che insistiamo che la lotta contro gli attacchi della borghesia, come ad esempio la chiusura delle fabbriche in nome della competitività, può essere condotta solo se è accompagnata da una battaglia senza compromessi contro il terrore razzista e lo sciovinismo. Pieni diritti di cittadinanza per tutti gli immigrati! Come hanno scritto i nostri compagni tedeschi durante il potente sciopero della Opel-Bochum dello scorso ottobre, nel bastione industriale della Ruhr (Spartakist n. 157, inverno 2004-2005):

“Ci sono anche molte discussioni sulla fabbrica Opel di Gliwice in Polonia. Non abbiamo percepito espressioni aperte di sciovinismo antipolacco. Ma c’era ugualmente un’atmosfera del tipo ‘non possiamo competere con i loro salari’. E perché dovrebbero? Gli operai tedeschi devono aiutare gli operai polacchi a lottare per dei salari e delle condizioni lavorative decenti contro la sete di profitto dei capitalisti scatenata dalla controrivoluzione. Per questo è necessario un partito rivoluzionario basato sul programma della lotta di classe internazionalista. In definitiva solo un’economia pianificata sotto il controllo della classe operaia può eliminare le lampanti differenze sociali ed economiche tra i diversi paesi”.

In Italia e in molti altri paesi d’Europa, i media borghesi agitano freneticamente lo spettro della “concorrenza cinese”. I capitalisti d’Europa sono divisi (in base ai loro specifici interessi, industriali o nazionali) riguardo a quale atteggiamento tenere verso la Cina. Così i proprietari di industrie manifatturiere tessili, calzaturifici, ecc. (concentrati nell’Europa meridionale e in Francia), direttamente minacciati dalle esportazioni cinesi a basso costo chiedono l’imposizione di dazi doganali. Ma i settori decisivi della borghesia e il capitale finanziario (più concentrati in Germania e in Inghilterra), aspirano a partecipare alla penetrazione economica della Cina e alla futura lotta per la sua spartizione imperialista. Ad esempio l’Unione Europea ha rimosso l’embargo sulla vendita di armi alla Cina, con dispetto dell’imperialismo americano, e quando il Commissario Ue Mendelhson ha imposto il blocco delle importazioni cinesi, gli importatori, le catene di grande distribuzione, ecc., hanno protestato per le perdite che subivano.

La punta di lancia della campagna protezionista e razzista in Italia è stata la Lega Nord, che ha fatto appello al boicottaggio dei prodotti cinesi, scatenando un’isteria razzista contro le piccole aziende cinesi, i commercianti ambulanti e i lavoratori cinesi in Italia. La risposta dei dirigenti sindacali, invece di organizzare una lotta di classe risoluta, etnicamente integrata ed estesa ad altri settori operai meno ricattabili, è stata quella di accettare il peggioramento delle condizioni lavorative, sottoscrivendo ulteriore “flessibilità” e tagli salariali e chiedendo contemporaneamente ai governi capitalisti di adottare una politica protezionista rivolta contro le importazioni dalla Cina. Di fronte alla minaccia di migliaia di licenziamenti, lo scorso 8 marzo i sindacati dei tessili hanno indetto uno sciopero “per difendere il ‘made in Italy’”. I burocrati sindacali hanno “concordato una strategia comune” con le associazioni imprenditoriali, che invoca una serie di misure protezioniste rivolte alla difesa delle aziende italiane contro Cina e paesi dell’Est, come “l’introduzione obbligatoria dell’etichetta d’origine, reciprocità e regole chiare e condivise per le produzioni e gli scambi internazionali, l’intensificazione della lotta alla contraffazione, l’inasprimento delle sanzioni, il contrasto alle importazioni illegali e più incentivi per la formazione e la qualificazione professionale” (www.labitalia.com). Il sito web del sindacato dei tessili della Cgil, (www.filtea.cgil.it) sembra ormai dedicato agli appelli al protezionismo contro la Cina e a complimentarsi con gli alti papaveri dell’Ue per le misure anticinesi. Per difendere i lavoratori non bisogna schierarsi a difesa dei capitalisti dell’industria tessile, ma organizzare azioni di lotta di classe contro di loro. Nel tentativo continuo di mantenere ed aumentare i loro profitti, sono gli stessi proprietari capitalisti del “made in Italy” a subappaltare in Italia o all’estero la produzione, ricorrendo a laboratori dove non esistono né sindacato né diritti. Se è più vantaggioso spostano all’estero interi rami produttivi. La ricerca del massimo profitto riducendo l’impiego di capitale variabile, cioè di operai, è una delle leggi fondamentale del sistema capitalista. Gli appelli all’unità con gli sfruttatori sulla base della difesa della “produzione nazionale” si risolve sempre a danno degli operai, tanto quelli italiani che quelli stranieri.

Quello che serve è una politica di internazionalismo proletario rivoluzionario. La classe operaia internazionale deve innanzitutto difendere le conquiste strappate dalla Rivoluzione cinese del 1949, che ha sottratto la nazione più grande del mondo al giogo diretto dell’imperialismo e costruito uno stato operaio deformato (sulle ragioni per cui sosteniamo che la Cina non è capitalista, si veda Spartaco n. 64, “Cina. Sconfiggere l’offensiva della controrivoluzione capitalista!”). Bisogna fermare il tentativo di restaurazione del capitalismo in Cina da parte degli imperialisti, enormemente facilitato dalle “riforme di mercato” introdotte dall’avida burocrazia nazionalista e antioperaia di Pechino. La classe operaia cinese deve lottare per cacciare la burocrazia stalinista con una rivoluzione politica e instaurare una vera democrazia operaia. Soprattutto è necessario rovesciare il capitalismo nei paesi capitalisti avanzati d’Europa e d’America.

Solo sotto un’economia collettivizzata e pianificata a scala internazionale, strappata dalle mani dei capitalisti e messa al servizio delle esigenze delle masse lavoratrici di tutto il mondo, si potrà eliminare l’anarchia economica del capitalismo, la disoccupazione e la povertà. E’ sulla base di questa prospettiva che lanciamo il nostro slogan degli Stati uniti socialisti d’Europa. Rovesciando le borghesie d’Europa con delle rivoluzioni operaie sarà possibile procedere in direzione di una società socialista, superando il quadro degli stati nazionali.

Come scriveva già nel 1932 il rivoluzionario russo Lev Trotsky:

“La caratteristica essenziale della nostra epoca consiste nel fatto che le forze produttive hanno definitivamente oltrepassato il quadro nazionale e hanno assunto, innanzi tutto in America e in Europa, dimensioni in parte continentali, in parte mondiali. La guerra imperialista è nata dalle contraddizioni tra le forze produttive e le frontiere nazionali. (…) In altri termini: di fronte allo sviluppo delle forze produttive, il capitalismo non può esistere in un paese solo. D’altro lato, il socialismo può e deve appoggiarsi su forze produttive sempre più sviluppate: altrimenti apparirebbe non progressivo, ma reazionario rispetto al capitalismo. (…) Gli Stati uniti socialisti d’Europa rappresentano di per sé una tappa di una parola d’ordine storica sulla via della federazione socialista mondiale. (…) E’ una ragione di più perché l’Opposizione la riprenda e la proclami con tenacia. Assieme ad essa, l’avanguardia proletaria d’Europa dirà ai padroni di oggi: ‘Per unificare l’Europa bisogna anzitutto strapparvi il potere. Lo faremo. Unificheremo l’Europa. La unificheremo contro il nemico e questo nemico è il mondo capitalista. Ne faremo la piazza d’armi grandiosa del socialismo combattente. Ne faremo la pietra angolare della Federazione socialista mondiale” (Il disarmo e gli Stati Uniti d’Europa, 1932).