Spartaco n. 65 |
Febbraio 2005 |
Liberare Mumia! Abolire la pena di morte razzista!
We Want Freedom: Una vita nel Partito delle pantere nere
Un libro di Mumia Abu-Jamal
Recensione di Paul Cone
“PER ME, la vita POLITICA cominciò col Partito delle pantere nere. Quando una sorella più grande, di nome Audrea, mi diede una copia del giornale The Black Panther [La pantera nera] nella primavera del 1968, la mente mi si spalancò all’improvviso. Era come se i miei sogni si fossero risvegliati, facendo irruzione nella realtà. Lessi e rilessi quel numero, carezzando teneramente ogni pagina come il foglio sericeo e sottile di una sacra scrittura. Gli occhi assorbivano le immagini di giovani uomini e donne neri, corpi snelli e splendidi avvolti nel cuoio nero, petti coperti di spille che proclamavano ribellione, resistenza e rivoluzione. Non potei quasi credere ai miei occhi quando vidi delle fotografie di neri armati che proclamavano la loro volontà di combattere o morire per la Rivoluzione nera. Anche se, formalmente, sarebbero trascorsi diversi mesi prima che aderissi a qualcosa che si chiamava Partito delle pantere nere, in verità vi entrai molti mesi prima, quando vidi la mia prima copia della Pantera nera. Vi entrai col cuore. Avevo solo quattordici anni”.
We Want Freedom è la testimonianza personale di una vita nel Partito della pantere nere (Bpp) di Mumia Abu-Jamal, prigioniero politico nel braccio della morte. La storia raccontata da Jamal è la storia dei combattenti delle pantere, giovani uomini e donne che, come lui, dedicarono le loro vite alla causa della lotta rivoluzionaria contro l’oppressione dei neri. Jamal ha dedicato il suo libro, tra gli altri, “a quelle giovani anime idealiste che indossavano la divisa nera e blu. A quelli che vendevano giornali nel cuore della notte, dentro bar fumosi o nella morsa di un vento gelido (specialmente nell’Est). A quelle donne amorevoli e a quegli uomini sensibili che si alzavano alle cinque di mattina, da costa a costa, per preparare colazioni ai bambini”.
Il libro di Jamal riesce a catturare le migliori qualità che le pantere incarnavano agli occhi degli oppressi e degli sfruttati. Ricorda Mumia:
“Le giornate erano lunghe.
I pericoli notevoli.
I guadagni pochi.
Ma la libertà era ipnotica. Potevamo pensare liberamente, scrivere liberamente e agire liberamente nel mondo.
Sapevamo di lavorare per la libertà del nostro popolo e ci piaceva.
Era il posto esatto del mondo in cui sembrava giusto essere”.
Grazie a questo libro, tanti giovani uomini e donne che l’Fbi aveva messo in guardia dal “soccombere alle dottrine rivoluzionarie” non sono più “senza voce” e “senza volto”come avrebbero voluto gli sfruttatori razzisti.
We Want Freedom racconta la storia delle origini del Partito delle pantere nere e della sua successiva distruzione, meno di dieci anni dopo, per mano della spietata campagna denominata Cointelpro (Programma di controspionaggio), alimentata dalle divisioni interne. Jamal apporta la sua testimonianza personale sulla sezione di Filadelfia, di cui fu tra i fondatori e luogotenente all’informazione. Jamal descrive con passione e orgoglio le colazioni gratuite e gli altri programmi di assistenza alla comunità con cui le pantere cercavano di “servire il popolo”. Racconta di come le pantere sfidavano i governanti razzisti esprimendo solidarietà alle rivoluzioni vietnamita e cubana, compresa la loro audace offerta di inviare delle truppe a combattere a fianco dei vietnamiti contro il sanguinario imperialismo americano.
La parte più commovente di questo libro pieno di forza, sono le descrizioni di Jamal dei giovani uomini e donne, usciti dalla povertà degli infernali ghetti d’America, che si unirono alla battaglia per la libertà dei neri. C’era Regina Jennings, una sedicenne tossicodipendente, che dopo essere saltata su un aereo a Filadelfia irruppe nell’ufficio di Oakland chiedendo di entrare nel partito: fu ammessa pochi giorni dopo, appena si riprese, e aiutata a smettere. Jamal cita Naima Major, una studentessa nera diciassettenne, vincitrice di una borsa di studio nazionale, che lasciò l’università per andare ad Oakland e unirsi alle pantere. “Essendomi impegnata per la rivoluzione nera e il programma in dieci punti, iniziai ad occuparmi di bambini in fasce, come parte del duro lavoro per la comunità che era dovere di tutte le pantere, ad organizzare donne povere come me, pianificare e sostenere scuole gratuite, scrivere lettere per gli analfabeti, esigere abitazioni decenti per quelli che avevano paura del padrone di casa, aiutare a far uscire il giornale, quadri sanitari, quadri alimentari, tutta la lista. Ho fatto anche qualche lavoro pericoloso e ho studiato Hegel, Marx, Lenin, Fanon, Mao, da vera fanatica”.
We Want Freedom fa anche un resoconto agghiacciante della campagna terroristica scatenata contro Jamal e i suoi compagni dall’Fbi e dalla polizia, decise a distruggere le pantere con ogni mezzo necessario. Mumia dedica un intero capitolo al Cointelpro, il micidiale programma dell’Fbi, osservando che: “Il Bureau utilizzò il suo enorme potere, la sua influenza e i suoi contatti per intimidire gli attivisti. Usò la sua pressione onnipresente per far licenziare molta gente. Sabotò supposte libere elezioni. Distrusse matrimoni. Fece a pezzi intere famiglie. Fomentò la violenza tra avversari politici e sociali”.
Con tipica modestia, Jamal non fa parola della sua personale battaglia per la vita e la libertà contro la montatura razzista che lo tiene all’ombra del boia nel braccio della morte della Pennsylvania. Ma in ogni pagina di We Want Freedom il lettore può capire perché il governo lo ha preso di mira per così tanto tempo. Nel 1982 Jamal fu condannato in base alla falsa accusa di aver ucciso il funzionario di polizia di Filadelfia Daniel Faulkner, il 9 dicembre 1981. Dal momento dell’arresto, l’accusa cercò di inchiodare Jamal al suo passato nel Bpp. La fotografia che compare sulla copertina di We Want Freedom viene da un’intervista di Jamal al Philadelphia Enquirer nel gennaio del 1970, quando aveva 15 anni ed era portavoce del Partito delle pantere nere. Quell’intervista venne usata dall’accusa come prova numero uno per l’esecuzione di Jamal. Come raccontò Jamal nel video del Partisan Defense Committee del 1990: “Dal braccio della morte vi parla Mumia Abu-Jamal”: “Il termine pantera nera significa cose diverse per persone diverse, dipende dalla loro prospettiva, dalla loro storia, dal loro orientamento politico. L’accusa lo sapeva fin troppo bene. Vidi l’impatto che ebbe sulla giuria, fu come una scossa”.
Per essere sicuro che Jamal venisse condannato a morte, il pubblico ministero Joseph McGill infiammò la giuria, quasi esclusivamente bianca, con la menzogna grottesca per cui la militanza dell’adolescente Jamal nelle pantere provava che si trattava di un assassino convinto di poliziotti che per 12 anni aveva progettato di ucciderne uno. Come vedranno i lettori del libro, e come confermano gli stessi documenti d’archivio del Cointelpro riguardanti Mumia, erano invece gli agenti federali dal grilletto facile e i poliziotti di Filadelfia che cercavano “fin da allora” di mettere le mani su Mumia: fin da quando, il 1 maggio del 1969, lui e i suoi compagni apparvero per la prima volta in pubblico di fronte allo State Building di Filadelfia per chiedere il rilascio del leader delle pantere, Huey P. Newton.
La montatura contro Jamal
Mumia Abu-Jamal è innocente! Il suo è un caso da manuale, una classica montatura politica razzista. Per tre anni, sia i tribunali dello Stato della Pennsylvania che i tribunali federali hanno rifiutato persino di prendere in considerazione la testimonianza di Arnold Beverly, che ha confessato di essere stato lui, e non Jamal, a uccidere Faulkner, insieme a una montagna di altre prove che confermano la testimonianza. Hanno respinto anche una prova scoperta più di due anni fa: la dichiarazione rilasciata sotto giuramento da una stenografa del tribunale, Terri Maurer-Carter, su di una conversazione cui assisté nell’aula del tribunale dove veniva processato Jamal. In quella conversazione, il giudice Albert Sabo, che condannò a morte Mumia, disse riguardo al caso di Jamal: “Li aiuterò io ad arrostire il n—-o”.
La volgare promessa di Sabo, il “re del braccio della morte”, non fu fatta solo a titolo personale: è la voce dei governanti razzisti di questo paese, che scatenarono contro le pantere e tanti altri attivisti neri radicali una vera e propria guerra di distruzione, sterminio e montature. Una direttiva del quartier generale dell’Fbi spiegava ai suoi agenti che poiché “l’obiettivo (…) è di distruggere (…) è irrilevante l’esistenza di fatti che provino l’accusa”. Nel 1968 il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover giurò: “Bisogna far capire ai giovani e ai neri moderati che se soccombono alle dottrine rivoluzionarie, saranno rivoluzionari morti”. La spietata vendetta del Cointelpro uccise 38 militanti delle pantere. Centinaia trascorsero lunghi anni negli inferni carcerari.
I giovani uomini e donne descritti da Mumia vivevano nella consapevolezza che ogni giorno poteva essere l’ultimo. Dopo che Fred Hampton e Mark Clark furono assassinati da una pioggia di proiettili nelle prime ore del mattino del 4 dicembre 1969, Mumia fece parte del gruppo di pantere di Filadelfia che andarono in macchina a Chicago per la commemorazione. Ricorda Jamal: “Quando arrivammo all’ufficio, ci fecero entrare nell’appartamento e vedemmo i fori nel muro, un vero groviera. Vedemmo i materassi in cui dormivano Fred e la sua compagna in quella notte fatale, inzuppati di sangue, i fori delle pallottole allineati lungo i muri, impronte palpabili dell’odio del governo”.
Quattro giorni dopo i poliziotti assaltarono la sede del Bpp a Los Angeles, bombardando le pantere con migliaia di caricatori di munizioni per più di cinque ore. I poliziotti volevano uccidere specialmente Geronimo ji Jaga (Pratt). L’esperienza militare di Geronimo, un veterano decorato del Vietnam, aveva salvato la vita a lui e ai suoi compagni e l’Fbi e i governanti della California volevano fargliela pagare. Geronimo ha passato 27 anni della sua vita in prigione, prima del rilascio avvenuto nel 1997, sulla base della falsa testimonianza di un informatore di polizia, Julius Butler, per un omicidio avvenuto a Santa Monica, in California, che l’Fbi sapeva perfettamente che Geronimo non aveva commesso. I nastri registrati dall’Fbi dimostravano che Geronimo si trovava ad Oakland, a 400 miglia dalla scena dell’omicidio e stava partecipando ad una riunione della direzione del Bpp. A partire dall’ufficio del pubblico ministero, passando per le auguste sale dei giudici fino alla residenza del governatore, molti alti funzionari della California degli anni Settanta e Ottanta costruirono e mantennero le loro carriere sulla guerra alle pantere e la montatura contro Geronimo, che all’epoca era il più importante prigioniero della guerra di classe in America.
Jamal cita il dirigente delle pantere di Filadelfia, Reggie Schell, che descrive uno dei raid polizieschi contro l’ufficio delle pantere a Filadelfia. Mumia ricorda di quando fu arrestato e detenuto per vari giorni per vagabondaggio mentre andava a vendere il giornale La Pantera nera nelle strade di Oakland; racconta come i federali lo aspettarono mentre stava per salire su un aereo per la California, solo per essere frustrati perché la perquisizione non rivelò nulla che potesse essere nemmeno lontanamente assimilabile ad un’arma (una volta Jamal fu redarguito da un quadro delle pantere per essersi addormentato durante un turno di guardia). Jamal cita anche il racconto di Flores Forbes, un militante delle pantere di Los Angeles, sui frequenti “falsi attacchi”del Dipartimento di polizia di Los Angeles, con gli elicotteri che sorvolavano per scuotere i nervi dei militanti: “La casa cominciava a tremare. Gli alberi in giardino e dall’altro lato della strada si piegavano”. E come racconta Jamal, i poliziotti avevano i loro bersagli preferiti. Uno di questi a Los Angeles era Paul Redd, un artista di talento le cui opere, molto apprezzate, abbellivano le pagine della Pantera nera. Quando al Dipartimento di polizia di Los Angeles capirono chi era, dopo il suo arresto, gli spezzarono le dita della mano destra.
Sicuramente Jamal, che nei fascicoli dell’Fbi viene identificato come uno dei tre principali dirigenti del Bpp a Filadelfia, fu uno dei principali bersagli degli assassini razzisti in divisa comandati da Frank Rizzo. I federali decisero di aprire un dossier su Jamal quando partecipò alla manifestazione del 1 maggio del 1969 per la “Libertà per Huey”. Da allora in poi, tutte le mosse politiche di Jamal furono seguite da un flusso costante di memorandum, lettere, intercettazioni e comunicazioni tra il quartier generale dell’Fbi e i suoi agenti sul campo.
Anche se gran parte del testo è stata cancellata e molti documenti sono stati semplicemente nascosti, più di 700 pagine dei fascicoli dell’Fbi ottenute per conto di Jamal dal Partisan Defense Committee dimostrano chiaramente che l’Fbi e i poliziotti avevano come missione quella di “giocare sporco” per far tacere l’uomo che sarebbe diventato famoso come “la voce dei senza voce”. Ricorrendo ad intercettazioni telefoniche, informatori, spie, il governo lo seguì senza sosta alle manifestazioni, alle vendite del giornale, alle riunioni politiche e alle raccolte di fondi, persino ai picnic. Sapevano con esattezza quando avrebbe lasciato la città e quando sarebbe tornato, intercettandolo quando saliva su di un aereo e osservandolo fisicamente sul volo di ritorno. I federali interrogarono gli impiegati della sua scuola, contattarono i suoi datori di lavoro, molestarono sua madre.
In un periodo tipico di quattro settimane nell’estate del 1969, i fascicoli dell’Fbi includono: un memorandum datato 11 agosto che racconta come Jamal avesse parlato al presidio per il Giorno di Hiroshima a Filadelfia; un rapporto dell’Unità sulla disobbedienza civile (Cdu) sulla stessa manifestazione, anch’esso datato 11 agosto; due comunicazioni al direttore dell’Fbi datate 14 agosto; una “missiva dell’Fbi” del 14 agosto; un “Memorandum per il governo” del 19 agosto, sempre sulla manifestazione per il Giorno di Hiroshima; ed un rapporto dell’Fbi del 4 settembre su di una manifestazione per la campagna del Socialist Workers Party, in cui Mumia “parlò contro i ‘porci’”, seguiti da una nota introduttiva datata 5 settembre che lo identifica con precisione come “Wesley Cook, noto anche come Wes Mumia”.
I fascicoli sono pieni di ritagli di articoli della Pantera nera scritti da Jamal e di rapporti sui suoi discorsi in pubblico. Ad attirare tanto l’attenzione dell’Fbi era l’evidente talento di Jamal come giovane giornalista e propagandista rivoluzionario. Un rapporto del 24 ottobre 1969, invitava a metterlo sotto stretta sorveglianza: “Nonostante la giovane età del soggetto (15 anni), noi di Filadelfia ritienamo che per la sua continua partecipazione alle attività del Bpp nella divisione di Filadelfia, la posizione che occupa nella locale sezione del Bpp e la predisposizione mostrata a comparire e parlare ad incontri pubblici, il soggetto dovrebbe essere incluso nell’Indice per la sicurezza”.
Jamal fu sottoposto a molto più di una semplice sorveglianza. Il suo nome fu inserito in due delle liste dei bersagli del governo: l’Indice per la sicurezza dell’Fbi (Si) di coloro che erano considerati una “minaccia” per la “sicurezza nazionale”, e l’Indice amministrativo (Adex), di coloro che dovevano essere rastrellati e gettati in campi di concentramento in caso di “emergenza nazionale”. Su molti documenti appare l’annotazione “Atto Smith”, la legge tristemente famosa sui “crimini del pensiero” in base alla quale prima i trotskisti e poi i sostenitori del partito comunista furono gettati in prigione per aver “invocato” la rivoluzione.
Nonostante l’Fbi riconoscesse che Jamal “non ha dimostrato propensione per la violenza” e benché, attraverso tutto questo periodo di intensa sorveglianza, non sia mai stato trovato con un’arma, i fascicoli lo etichettavano regolarmente come “armato e pericoloso”, una licenza per i poliziotti e i reparti speciali per sparare prima e fare le domande dopo. E alla fine gli spararono, nelle prime ore della mattina del 9 dicembre 1981. La storia non è una cospirazione, ma ci sono cospirazioni nella storia. Noi non sosteniamo che i poliziotti che si trovavano sul luogo del delitto la notte del 9 dicembre 1981 sapevano che ci sarebbe stato anche Jamal. Ma erano lì, ed ebbero l’occasione che aspettavano da tanto tempo. Il successivo processo, la condanna e la sentenza di morte furono una pura e semplice montatura politica, il culmine di un decennio di tentativi di “neutralizzare” Jamal.
Gli archivi dell’Fbi sono solo la punta dell’iceberg. Negli anni Sessanta e Settanta i poliziotti di Filadelfia tennero anch’essi dei fascicoli voluminosi: quasi 18.000 persone, e nemmeno uno è mai stato reso disponibile! C’era un’ampia collusione tra l’Fbi e il Dipartimento di polizia di Filadelfia di Frank Rizzo. Tutti i documenti dei fascicoli dell’Fbi menzionano come fonte, uno dopo l’altro, dei poliziotti non meglio identificati della Cdu o dell’Intelligence Division. Secondo S.A. Paolantonio, il biografo di Rizzo, la Cdu di Filadelfia, sotto il comando di George Fencl “aveva un costante flusso di informatori pagati dal Federal Bureau of Investigation. Difatti, quanto l’Fbi lanciò il suo programma di controspionaggio (Cointelpro), presero a modello la squadra di Fencl”.
Anche se in teoria il Cointelpro terminò a metà degli anni Settanta, la vendetta del governo contro Geronimo, Dhoruba bin Wahad, Assata Shakur, Sundiata Acoli, Mondo we Langa, Ed Poindexter, Mtulu Shakur, Sekou Odinga, Delbert Orr Africa, e molti altri, non ebbe mai fine. Per quanto l’accusa, i governatori democratici e repubblicani, la stampa e i giudici cerchino di far passare il caso di Jamal come un semplice processo criminale, le sue vere basi sono ben spiegate da un breve scambio di battute nella trascrizione del processo. Chiunque abbia visto un processo penale sa bene che è assolutamente irregolare che il giudice interrompa il procedimento per rispondere al telefono. Nel giugno del 1982, mentre il processo stava decidendo la vita di Jamal, il procedimento venne interrotto proprio mentre stava per deporre il testimone chiave della difesa, la prostituta Cynthia White:
“LA CORTE: Solo un minuto. C’è Fencl al telefono.
MR. McGILL: Non venga messo a verbale
(Discussione non riportata nei verbali)
LA CORTE: Tutto a posto?
MR. McGILL: Non c’è problema”
Come scrisse il Partisan Defense Committee in un numero speciale di Class-Struggle Defense Notes (n.10, aprile 1989) dedicato alla campagna per Jamal:
“La condanna a morte di Mumia rappresenta il lungo braccio del terrore del Cointelpro che penetra nell’aula del tribunale. Questa volta ce l’hanno fatta. Mumia è stato condannato a morte per le sue convinzioni politiche, per ciò che scrisse, per ciò che disse, per le persone a cui è ‘legato’, e per ciò che lui stesso è”.
I governanti capitalisti vogliono vedere Mumia morto perché vedono in lui, come giornalista eloquente, come sostenitore del Move e come portavoce delle pantere, lo spettro della rivoluzione nera, della coraggiosa opposizione al loro sistema di oppressione razzista. Cercano di giustiziare Jamal per mandare un messaggio raggelante a tutti quelli che sfidano l’oscena repressione poliziesca nei ghetti, che alzano la testa nei picchetti per difendere i diritti dei lavoratori, che protestano contro gli eccidi dai Balcani all’Iraq. I militanti sindacali, i nemici dell’oppressione razzista e tutti gli oppositori della pena di morte stile Jim Crow devono mobilitarsi per Mumia libero subito!
I migliori di una generazione di militanti neri
“Il tipico giovane uomo o donna del Partito delle pantere nere aveva tra diciassette e ventidue anni, viveva in una casa collettiva con altre pantere, passava lunghe giornate (e a volte anche le nottate) lavorando duramente e senza paga per fare il lavoro necessario al partito, e non possedeva nulla… La tipica Pantera si alzava all’alba e rientrava al tramonto e faceva ogni sorta di lavoro che servisse a portare avanti i programmi attivati per il popolo, dai fratelli e sorelle che preparavano la colazione ai bambini, al porta a porta per raccogliere firme per le petizioni, alla raccolta di indumenti per il programma di distribuzione gratuita di vestiario, fino a procurarsi delle donazioni dai negozianti del vicinato”.
We Want Freedom è una lettura obbligatoria, non solo come contributo necessario a mobilitare il sostegno alla battaglia di Mumia per la libertà. Rendiamo omaggio a questo libro sull’unica organizzazione radicale nera della nostra epoca che non ha strisciato davanti agli oppressori capitalisti. Allo stesso tempo, dichiariamo che il nostro programma rivoluzionario proletario è fondamentalmente contrapposto e distinto anche dal nazionalismo più “giusto”, per usare i termini di V.I. Lenin, il leader della Rivoluzione d’ottobre del 1917.
Il Partito della pantere nere, rappresentava il meglio di una generazione di militanti neri che si schierarono coraggiosamente contro la classe dominante razzista e i suoi poliziotti, assassini fanatici. I suoi militanti incarnavano le speranze e le aspirazioni alla libertà dei neri di un’intera generazione che cercava di scrollarsi di dosso il senso d’impotenza e disperazione delle masse nere oppresse, specialmente di fronte all’impunità dei poliziotti che ammazzavano i neri nelle strade di Oakland e di tutta l’America. Ma fin dall’inizio il Bpp si basò su di una contraddizione: da un lato si identificava con la popolazione nera più oppressa (i lavoratori poveri, i disoccupati, i destinatari dell’assistenza sociale) la cui fondamentale oppressione sotto il capitalismo non poteva di tutta evidenza essere risolta e neppure veramente alleviata da un pugno di riforme liberali, limitate e reversibili; d’altro canto, si basava sull’ideologia del nazionalismo nero, che negava le basi di classe della società e della lotta sociale, aprendo la strada perché il Bpp diventasse uno dei tanti gruppi di pressione che stanno al gioco della politica etnica di competizione per una “fetta della torta” più grossa all’interno dello status quo.
I neri negli Stati Uniti non sono una nazione. Sono una casta oppressa in base alla loro razza-colore, segregata al fondo della società, pur costituendo una componente strategica della classe operaia. La battaglia per la libertà dei neri è una questione strategica della rivoluzione americana. Non ci sarà nessuna rivoluzione sociale in questo paese senza la lotta unita degli operai neri e bianchi, guidati dal loro partito d’avanguardia multirazziale.
Come marxisti rivoluzionari ci basiamo sulla prospettiva dell’integrazione rivoluzionaria. Al contrario dell’integrazione liberale (la falsa idea che i neri possano ottenere un’uguaglianza sociale nei confini del capitalismo razzista americano), l’integrazionismo rivoluzionario ha come premessa la coscienza che la libertà dei neri richiede la distruzione del sistema capitalista e la costruzione di una società socialista egualitaria. Come abbiamo analizzato in “Nero e rosso: la via della lotta di classe verso la libertà nera”, adottato alla conferenza di fondazione della Spartacist League nel 1966:
“La vasta maggioranza della popolazione nera, tanto al Nord quanto al Sud, è attualmente formata da operai che, insieme al resto della classe operaia americana, devono vendere la loro forza-lavoro per ottenere le necessità basilari dell’esistenza da coloro che comprano la forza-lavoro per realizzare profitti (…) In definitiva la strada verso la loro libertà passa solo per la lotta insieme al resto della classe operaia per abolire il capitalismo ed istituire al suo posto una società socialista egualitaria. Ma la lotta per la libertà della gente nera di questo paese, pur facendo parte della lotta dell’insieme della classe operaia, va al di là di questa lotta. La popolazione nera forma una casta di razza-colore, formata in gran parte dagli strati più sfruttati della classe operaia americana (…) Per il fatto di essere simultaneamente lo strato più oppresso e il settore più cosciente e con più esperienza, gli operai rivoluzionari neri sono destinati a svolgere un ruolo eccezionale nella prossima rivoluzione americana”. (Riprodotto in Spartacist n.10, maggio-giugno 1967).
Il Partito delle pantere nere
Il Bpp, fondato nel 1966 da Huey P. Newton e da Bobby Seale, fu una risposta diretta all’incapacità del movimento per i diritti civili, liberale e vicino al Partito democratico, di mettere seriamente in discussione la natura dell’oppressione dei neri quando il movimento si estese al Nord a metà degli anni Sessanta. Era chiaro a tutti che le rivolte dei ghetti a metà degli anni Sessanta segnarono la fine del vecchio movimento per i diritti civili, dal momento in cui i neri più combattivi adottarono la rivendicazione del “Potere nero”, nel tentativo di trovare una via d’uscita dall’inferno razzista del capitalismo americano. Jamal lo dice esplicitamente: “Il Partito delle pantere nere non fu creato per appoggiare o fare da complemento alle principali organizzazioni per i diritti civili, ma per soppiantarle”. Descrive “i giovani dei ghetti che ribollivano sotto il controllo dei poliziotti apertamente razzisti. Anelavano a prendere parte al crescente movimento per i diritti civili, ma non lo avevano fatto perché non potevano sopportare di unirsi ad alcun gruppo che si sottomettesse remissivamente alla violenza razzista, come chiedevano alcune organizzazioni per i diritti civili”. Molti di questi militanti si ispiravano a Malcolm X. Pur non essendo un marxista e non basandosi sulla lotta di classe degli operai, Malcolm invocava l’autodifesa armata dei neri contro gli attacchi razzisti e si opponeva ai politicanti ingannevoli, avidi e traditori del partito repubblicano e del partito democratico.
Le pantere diventarono famose per le loro pattuglie armate di controllo sulla polizia, in cui militanti delle pantere dotati di armi cariche, libri di legge, macchine fotografiche e registratori si avvicinavano agli incroci per far sì che i poliziotti non brutalizzassero le loro vittime nere e che queste ultime fossero informate dei loro diritti. Nell’aprile del 1967 le pantere organizzarono una manifestazione armata a Richmond, California, per protestare contro l’uccisione del ventiduenne Denzil Dowell ad opera di un vicesceriffo, respingendo la polizia. L’anno successivo attirarono l’attenzione a livello nazionale quando, dimostrando la loro sfida all’ordine borghese razzista, le pantere entrarono, armi alla mano, nel parlamento dello Stato della California a Sacramento. Le pantere stavano protestando contro la Legge Mulford, di cui nella stampa locale si parlava come della “legge sulle pantere”. Prima della sua approvazione, in California era legalmente consentito portare armi cariche in pubblico a condizione che non fossero tenute nascoste.
All’inizio, incerti sul sostegno che le pantere avevano nel ghetto, i poliziotti le lasciarono fare. Ma a partire dal ferimento e dall’arresto di Newton nell’ottobre del 1967 e con impeto crescente dopo l’uccisione di Bobby Hutton nell’aprile del 1968, i poliziotti locali e l’Fbi, in molti casi con l’aiuto di gruppi “nazionalisti culturali” (ad esempio, a Los Angeles alcune pantere furono uccise da militanti degli United Slaves di Ron Karenga), fu lanciata una campagna coordinata a scala nazionale per spazzar via le pantere. J. Edgar Hoover dell’Fbi definì le pantere “la maggior minaccia alla sicurezza interna degli Usa”. Per uccidere le pantere l’Fbi resuscitò il Cointelpro, il programma di controspionaggio inizialmente utilizzato nel 1956 contro il Partito comunista, scatenando la più feroce e sistematica campagna di terrore razzista di stato della storia moderna americana. 233 delle 295 azioni condotte dal Cointelpro contro organizzazioni nere riguardarono le pantere.
Rispetto ad altre organizzazioni nazionaliste nere degli anni Sessanta, le pantere cercavano di organizzarsi in maniera indipendente dai democratici e dai repubblicani. Ma da nazionalisti radicali eclettici e contraddittori quali erano, le loro concezioni subivano le influenze più svariate, dagli insegnamenti di Malcolm X a quelli di Che Guevara, Marx, Lenin, Stalin e Mao: un deposito da cui scegliere ciò che si confaceva ai loro appetiti del momento. Le pantere furono plasmate da una congiuntura storica unica, sia negli Stati Uniti che a livello internazionale: un periodo che vide le nazioni africane conquistare l’indipendenza formale, le forze guerrigliere contadine di Castro rovesciare il regime fantoccio degli Usa di Batista e le eroiche vittorie dei vietnamiti sui campi di battaglia contro il colosso militare americano.
Nei loro comunicati pubblici ed interni, le pantere si paragonavano all’esercito guerrigliero a base contadina di Mao nella guerra civile cinese e al Fronte di liberazione nazionale del Vietnam del Sud. Guardavano in particolare agli scritti di Frantz Fanon, un intellettuale delle Indie occidentali, sostenitore della lotta d’indipendenza dell’Algeria. L’enfasi che Fanon poneva sul ruolo catartico della violenza divenne per le pantere la base per i loro discorsi sulla guerriglia urbana. Jamal cita Kathleen Cleaver: “I dannati della terra”, il libro di Fanon “divenne una lettura fondamentale per i rivoluzionari neri in America e ne influenzò profondamente le idee. L’analisi di Fanon sembrava spiegare e giustificare la violenza spontanea scatenatasi nei ghetti neri di tutto il paese e legava le rivolte incipienti all’ascesa di un movimento rivoluzionario”.
Invece di riconoscere le esplosioni dei ghetti per ciò che erano realmente, vale a dire gli spasmi finali di furia e disperazione di un movimento che aveva suscitato grandi speranze e risvegliato un’enorme energia con ben miseri frutti, questi militanti di sinistra scambiarono le loro speranze per la realtà e videro nelle battaglie contro la polizia nei ghetti l’inizio di una violenza rivoluzionaria di massa, cui sembrava sufficiente dare forma organizzata per renderla efficace. L’idea che il ghetto fosse la base della guerriglia urbana non era diffusa solo tra i nazionalisti neri, ma era accettata anche da gran parte della sinistra. Ciò che distingueva le pantere era la loro determinazione a sfidare la prigione e anche la morte per questa teoria.
Le rivolte dei ghetti non diedero alle masse nere un senso del loro potere. Avvenne esattamente il contrario. Furono i neri stessi a ritrovarsi con le case bruciate. I poliziotti scatenarono un’escalation di omicidi. Ciò rivelò che la brutalità della polizia non era un’ingiustizia isolata che poteva essere eliminata con azioni combattive. I poliziotti sono una parte essenziale della forza armata dello stato capitalista. Se vengono sconfitti a scala locale, tornano accompagnati dalla Guardia nazionale o dall’esercito. Cacciare i poliziotti dal ghetto equivale a rovesciare lo stato capitalista. Finché la maggioranza degli operai bianchi restava fedele, o anche solo passivamente ostile, al governo, l’attivismo nero non avrebbe potuto liberare i ghetti.
Gli scritti di Fanon ebbero un ruolo importante nella convinzione delle pantere che il sottoproletariato, in particolare i giovani dei ghetti, abituati a vivere in mezzo alla strada, era l’avanguardia della rivoluzione americana. All’epoca avvertimmo che “un movimento politico che si isola in un ambiente sociale ostile alla normale società che lavora, deve diventare irresponsabile, individualista ed in definitiva cinico e sprezzante verso le masse dei lavoratori” (“Ascesa e caduta delle pantere: la fine dell’era del Potere nero”, Workers Vanguard n.4, gennaio 1972). Alla fine le pantere furono distrutte non solo dal terrorismo esterno della polizia, ma dalle divisioni interne omicide, infiammate dalle provocazioni del Cointelpro.
Le pantere non trovarono mai l’unica strada che porta alla distruzione dell’ordinamento razzista borghese: il proletariato multirazziale. Le pantere, che si consideravano “nazionalisti rivoluzionari”, condividevano con la nuova sinistra, prevalentemente bianca, il rifiuto della centralità e del potere sociale strategico del movimento operaio integrato, nella lotta contro la brutale oppressione razzista e contro la guerra imperialista, oltre che contro lo sfruttamento capitalista.
Esisteva una base, concretamente visibile, per legare il ghetto alle fabbriche nella lotta combattiva contro i poliziotti assassini. Ciò avrebbe richiesto una direzione di lotta di classe del movimento operaio. Nel 1970 i lavoratori delle poste organizzarono il loro primo sciopero nazionale contro il governo federale. Le fabbriche automobilistiche trasudavano ribellione. Nel 1969, per un breve periodo, le pantere costituirono un nucleo nella fabbrica della General Motors di Fremont, in California, giungendo persino a pubblicare alcuni numeri di un giornale di fabbrica. Il Capo di stato maggiore delle pantere, David Hilliard, aveva lavorato come portuale per un po’di tempo, e suo fratello June, anch’egli militante del partito, era un conducente di autobus. Le pantere sapevano che c’erano degli operai bianchi sindacalizzati in una stazione petrolifera che erano stati presi a manganellate dai poliziotti che accompagnavano i crumiri, e che avevano fatto proprio l’epiteto che le pantere riservavano ai poliziotti: “porci”. Ma le pantere si indirizzarono invece al “lavoro verso la comunità”: una serie di programmi a livello locale che cercavano quantomeno di alleviare alcune delle privazioni della vita nel ghetto, senza confrontare le basi materiali dell’oppressione dei neri: un surrogato della lotta per conquistare la classe operaia alla causa della lotta per la libertà dei neri. Così facendo, lasciarono il terreno libero ai falsi dirigenti riformisti neri e ai luogotenenti operai del capitale, la burocrazia sindacale.
L’autentica radicalità e il coraggio personale di tante pantere erano accompagnate da illusioni nella possibilità di riformare il sistema capitalista razzista. Un esempio fu la Convenzione costituzionale del popolo rivoluzionario, un raduno che si tenne nel 1970 a Filadelfia e che riunì una varietà di organizzazioni e di attivisti di sinistra per adottare una “costituzione che serva il popolo e non la classe dominante”. Jamal ne attribuisce il “fallimento” al fatto che i radicali bianchi non erano pronti alla rivoluzione. Mumia chiede: “Erano davvero disposti i milioni di giovani bianchi, indipendentemente dalle convinzioni politiche o ideologiche che seguivano, ad intraprendere una rivoluzione, una rivoluzione che non premiava il fatto di avere la pelle bianca?” Quest’idea del privilegio bianco, che era la moneta corrente con cui la nuova sinistra scartava il proletariato americano come fattore rivoluzionario, è ormai logora dopo 25 anni di attacchi alle condizioni di vita degli operai, inaugurati dal licenziamento di tutti i controllori di volo del Patco nel 1981 e simboleggiati dagli arresti dell’operaio metallurgico Bob Buck e del minatore del carbone Jerry Dale Lowe.
Il Programma in dieci punti delle pantere, un insieme di moderate riforme liberali, chiedeva al governo il pagamento di riparazioni, voleva che il sistema educativo insegnasse la “vera storia” dei neri e dei popoli oppressi di questo paese, ed esprimeva le illusioni delle pantere nelle Nazioni Unite, questo covo di ladri imperialisti e delle loro vittime. A pochi anni di distanza dallo sporco ruolo notoriamente svolto dall’Onu nell’assassinio del dirigente nazionalista congolese Patrice Lumumba, il programma delle pantere chiedeva un plebiscito, da svolgersi sotto la supervisione dell’Onu, in cui i neri decidessero “il loro destino nazionale”. Le pantere esigevano anche la fine della brutalità poliziesca e promuovevano petizioni per il controllo sulla polizia da parte delle comunità, mescolando illusioni liberali sulla natura dello stato borghese alle illusioni dei nazionalisti neri di poter porre fine all’oppressione della gente nera tramite il “controllo” sulle istituzioni del ghetto.
Se mai si potesse realizzarlo, il “controllo” sui ghetti miserabili non potrebbe porre fine alla povertà endemica, alla disoccupazione, alla criminalità, alle case in rovina, alle scuole cadenti e alla tossicodipendenza nata dalla disperazione. Ciò richiede uno spostamento enorme di risorse e di ricchezza, possibile solo con l’espropriazione integrale della classe delle sanguisughe capitaliste e con la creazione di uno stato operaio in cui chi lavora comanda: uno stato operaio dove la produzione sia basata sulle necessità umane e non sui profitti. Questo si può fare solo rovesciando con una rivoluzione socialista l’ordinamento capitalista e il suo Stato, che serve a difendere la dittatura di classe della borghesia. E solo la classe operaia multirazziale ha il potere di farlo. Grazie al suo ruolo nella produzione della ricchezza di questa società, è solo il proletariato industriale ad avere sia l’interesse sociale che la forza per abbattere il putrido ordinamento capitalista.
L’attacco alle pantere non provocò rivolte di massa nei ghetti, ma una rapida deriva verso destra. Isolate, schiacciate dalla repressione, le pantere spostarono l’asse della loro attività verso il lavoro di difesa legale, nel tentativo di conquistare il più vasto sostegno possibile. L’alleanza delle pantere con la sinistra bianca non fu motivata dalla comprensione che la società americana poteva essere rivoluzionata solo da un movimento di classe integrato, ma dalla loro ricerca di un appoggio alle loro campagne di difesa. Nel 1968 Eldridge Cleaver si candidò alle presidenziali nelle liste del liberale Peace and Freedom Party. Un ruolo decisivo nella degenerazione di destra e nella dissoluzione del Bpp, fu svolto dai cinici manipolatori del Partito comunista (Pc). A partire dal 1969 il Pc influenzò la direzione delle pantere perché lanciasse un “fronte unico antifascista”, un tentativo di creare un’alleanza di tutti quelli che erano a sinistra dell’Amministrazione Nixon-Agnew, sulla base di un programma essenzialmente di libertà civili. Pochi anni dopo, Newton e soci parlavano già dell’importanza delle chiese nere e del capitalismo nero. Nel 1973, Bobby Seale si candidò come sindaco per i democratici e nel 1976 Newton entrò nella Naacp.
Nel 1971, le pantere subirono una scissione tra la maggioranza più esplicitamente riformista e favorevole al Partito democratico di Newton e l’ala di Cleaver, fautrice della guerriglia urbana, una scissione che fu caratterizzata da divisioni interne omicide e che fu attizzata dalle provocazioni del Cointelpro. Entrambe le fazioni mandarono i rispettivi sostenitori ad uccidersi a vicenda per strada. Il libro di Jamal cita diverse pantere che entrarono in clandestinità per proteggersi non soltanto dallo Stato ma anche da altre pantere.
Per un partito operaio rivoluzionario che lotti per un governo operaio!
Anche se si concepivano, in modo semi-cosciente, come un partito d’avanguardia, le pantere non lo erano. Erano fautori del settorialismo tipico della nuova sinistra. Il loro programma era che i neri avrebbero liberato i neri, gli ispanici avrebbero liberato gli ispanici e via discorrendo. Al contrario del settorialismo, che è una strategia che divide le fila del futuro esercito proletario in lotta per il potere statale, un partito d’avanguardia leninista è un tribuno popolare, che lotta contro tutti gli aspetti dell’oppressione sociale sulla base di un programma internazionalista rivoluzionario.
Jamal descrive le pantere come un partito di donne e fornisce degli impressionanti ritratti di donne che giocarono ruoli dirigenti e furono fondamentali per mandare avanti il partito, ricoprendo incarichi diversi e nonostante tutti gli ostacoli incontrati. Ma il semplice fatto che Newton avesse proclamato la necessità della liberazione delle donne e dei gay, non significa che il Partito delle pantere nere fosse un tribuno del popolo. Le pantere erano fortemente influenzate dall’ideologia del sottoproletariato. Alcune donne decisero di lasciare le pantere per il soffocante sciovinismo maschilista. Con ciò non vogliamo negare il ruolo eroico svolto dalle donne che decisero di restare in seno alle pantere e fare da dirigenti nonostante tutto.
E’ impossibile avere un programma per la liberazione delle donne che sia separato da un programma rivoluzionario proletario che abolisca le radici dell’oppressione delle donne: il sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione. I bolscevichi di Lenin e Trotsky erano dei combattenti intransigenti per la liberazione delle donne come componente indispensabile della lotta per l’emancipazione della classe operaia dallo sfruttamento. Le basi materiali dell’oppressione delle donne si trovano nell’istituzione della famiglia. Senza una lotta energica e implacabile per l’uguaglianza delle donne, la lotta proletaria contro il dominio del capitale non può vincere.
Gli atteggiamenti militari delle pantere ne fecero un facile bersaglio per gli assassini di massa dell’imperialismo Usa. Non si può costruire un partito rivoluzionario sulla base dell’adorazione di un eroe o della mentalità di una gang di strada. Il fatto tragico è che le pantere siano state distrutte da una sanguinosa repressione dello stato, senza che vi fosse un partito rivoluzionario abbastanza grande da conquistare i migliori tra questi giovani neri radicali. Noi ci abbiamo provato. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta le pantere erano così sacrosante nei circoli radicali che qualsiasi critica rivolta loro veniva accolta da stridule accuse di razzismo. Nonostante la diffusa adorazione messianica di Newton, Eldridge Cleaver e altri dirigenti, la Spartacist League polemizzava con la concezione delle pantere di avanguardismo sottoproletario, e sosteneva che il nazionalismo nero, anche nella sua versione più radicale, era un vicolo cieco utopico. Condannavamo anche il gangsterismo e la violenza fisica contro altri militanti di sinistra, e sfidammo la deriva verso destra del Bpp in direzione del Partito democratico. In una “Lettera aperta ai militanti del Partito delle pantere nere sulle elezioni di Oakland” (Wv n.18, aprile 1973), scrivevamo di non poter dare un sostegno elettorale critico alle pantere, chiedendo “Come è possibile che il vostro partito, che un tempo diceva di volere una trasformazione rivoluzionaria della società, possa ora appoggiare dei candidati che sono membri del Partito democratico, il partito della guerra, del razzismo e della repressione, e presentarvi voi stessi nelle liste dei democratici?” Facemmo loro l’offerta che se il Bpp avesse rotto con i partiti del capitale e con la sua stessa politica di collaborazione di classe, avremmo potuto dare un sostegno critico alla loro campagna elettorale: “Speriamo che voi compagni sappiate riconoscere la disastrosa svolta verso destra del Partito delle pantere nere e lottiate per sostituire l’attuale linea del Bpp, di appoggio ai democratici neri, alle chiese nere, ai poliziotti neri, e ai capitalisti neri, con una prospettiva operaia rivoluzionaria”.
Nonostante le differenze politiche, difendemmo le pantere contro la repressione dello stato, anche dopo che i loro ex adulatori nella sinistra avevano da tempo abbandonato la nave, e continuiamo a difenderle anche oggi. Il Partisan Defense Committee dà degli stipendi mensili a Mondo we Langa, Ed Poindexter e Mumia. Da 17 anni combattiamo una campagna per la vita e la libertà di Mumia, producendo opuscoli e un video e presentando il suo caso a sindacati di tutto il mondo. Cerchiamo di costruire il partito rivoluzionario che guidi la classe operaia al potere, spezzando questo decrepito sistema razzista del capitalismo. In uno stato operaio americano, We Want Freedom, riceverà i più grandi onori nelle biblioteche e nelle scuole del popolo. Leggetelo.