La sinistra, l’occupazione dell’Iraq e la "resistenza"

Per una federazione socialista del Medio Oriente!

Iraq: fuori subito le truppe Usa e i loro alleati!

Spartaco, n. 64, Luglio 2004

Col passare dei mesi l’occupazione dell’Iraq ha assunto sempre più i contorni sanguinosi dei grandi massacri coloniali dell’imperialismo moderno. Alla metà di maggio, durante l’assedio di Falluja, George W. Bush ha detto che agli iracheni sarebbe "servito del tempo per imparare cosa vuol dire libertà". La "libertà" portata dagli imperialisti ha il volto della soldatessa americana che umilia un prigioniero iracheno, tenendolo al guinzaglio nudo come un cane. Ma le testimonianze venute a galla sulle torture sono solo una piccola parte del terrore e delle atrocità che gli imperialisti americani, inglesi e italiani fanno subire ogni giorno alle loro vittime. Il solo assedio di Falluja ha fatto almeno 600 morti, che si sono sommati a migliaia di altre vittime senza volto dall’inizio della guerra e ad una popolazione al 70 percento disoccupata, umiliata e sprofondata nella miseria.

L’attuale macelleria coloniale non finirà finché le forze imperialiste Usa, gli alleati della coalizione e l’armata di mercenari e agenti della Cia rimangono in Iraq. Devono andarsene subito! E non per essere sostituiti da una differente combinazione imperialista, magari sotto l’egida dell’Onu, che consenta a Francia, Germania e Italia di arraffare una fetta più grossa del bottino. Onu e Nato devono stare alla larga dall’Iraq, un paese dove dieci anni di embargo imposti dall’Onu hanno fatto quasi due milioni di morti!

Bush, Berlusconi e soci non hanno nessuna intenzione di abbandonare militarmente il paese. E’ già iniziata la costruzione di quattro basi "permanenti" per 110.000 soldati Usa che dovrebbero rimanere in Iraq per anni. Appena entrato in carica, a dimostrazione del suo ruolo, il nuovo "governo provvisorio" collaborazionista di Allawi ha reintrodotto la pena di morte, instaurato la legge marziale e lanciato una massiccia retata a Baghdad. Ma i ministri iracheni non possono quasi uscire di casa senza la protezione delle truppe imperialiste. Il vero potere in Iraq sono i 135.000 soldati americani e i loro alleati inglesi e italiani. Qualunque sia la maschera dell’occupazione ciò che conta è che gli imperialisti dovranno continuare a rafforzare il controllo sull’Iraq, scatenando ulteriori rivolte e risposte ancor più brutali dell’esercito di occupazione. Non rinunceranno al loro dominio nella regione se non vi saranno costretti dalla lotta di classe degli operai, sia nei centri imperialisti che in Medio Oriente.

Come marxisti riconosciamo che tutti i colpi rivolti contro le forze di occupazione imperialiste e i loro fantocci dell’esercito e della polizia iracheni, vanno a vantaggio dei lavoratori e degli oppressi, nella regione e nel resto del mondo. Durante la guerra, noi della Lega comunista internazionale abbiamo preso una posizione chiara di difesa militare dell’Iraq contro gli imperialisti, senza dare alcun appoggio politico a Saddam Hussein. Oggi, come parte della lotta per il ritiro di tutte le truppe imperialiste, difendiamo i popoli dell’Iraq contro ogni attacco e repressione condotti dagli occupanti. Sosteniamo le azioni direttamente rivolte contro il dispositivo di occupazione, ma non diamo il benché minimo sostegno politico alle forze che lottano militarmente contro l’occupazione irachena: né ai rottami del regime ba’athista, né alle forze fondamentaliste islamiche che aspirano ad instaurare un regime teocratico sul modello iraniano. Condanniamo con forza gli attacchi indiscriminati contro civili, sciiti, sunniti, curdi e ogni forma di violenza interetnica e contro le donne.

Un’eventuale vittoria militare delle forze della "resistenza" sulle truppe di occupazione dall’Iraq, sarebbe una vittoria per i lavoratori del mondo e un grave colpo per gli imperialisti. Ma data la sproporzione militare e l’ostilità reciproca delle forze della "resistenza", se non vi sarà una lotta di classe internazionale contro l’occupazione imperialista, è molto più probabile che la vittoria di una delle varie forze reazionarie sul terreno si realizzi attraverso qualche alleanza con gli imperialisti Usa, e in questo modo non potrebbe avere altre conseguenze che ulteriori spargimenti di sangue e repressione. Abbasso l’occupazione coloniale del’Iraq! Fuori subito tutte le forze imperialiste Usa e alleate! Fuori il contingente italiano! Nessun intervento dell’Onu!

Imperialismo, razzismo e guerra

Le prove delle spaventose torture di Abu Ghraib hanno demolito le bugie imperialiste sulla "libertà" e la "democrazia". Ma non bisogna farsi ingannare dalla propaganda su "mele marce" ed "eccessi" o dalle patetiche promesse di processi esemplari e di interrogazioni parlamentari. La ferocia e il sadismo visti in Iraq non sono un’eccezione, ma la regola che ha accompagnato tutte le occupazioni coloniali della storia moderna. E c’è anche un legame evidente tra il trattamento della popolazione irachena e quello riservato alle minoranze (gli immigrati in Europa o i neri negli Usa) e alla classe lavoratrice a livello domestico. Il giornalista e prigioniero politico nero Mumia Abu-Jamal, ha fatto notare che "ciò che è successo ad Abu Ghraib accade quasi ogni giorno nelle prigioni d’America. Le foto hanno mostrato al mondo un aspetto che non tutti conoscono, soprattutto negli altri paesi: quello di un’America arrogante che impone la sua forza con la tortura e l’umiliazione". Torture, minacce sessuali e stupri sono all’ordine del giorno anche nelle galere italiane: basti ricordare i prigionieri pestati e denudati a Bolzaneto o a Napoli, il trattamento degli immigrati nei famigerati Cpt o le storie di squadrette punitive e pestaggi polizieschi che ogni tanto filtrano dalle galere del "bel paese". Queste atrocità sono il prodotto di una società che si basa sullo sfruttamento della classe operaia da parte di un’infima minoranza di proprietari capitalisti e sul dominio sul mondo da parte di un pugno di potenze imperialiste. E’ un sistema irrazionale, basato non sugli interessi della popolazione ma sulla ricerca del massimo profitto di ogni singolo capitalista, un sistema che porta regolarmente alla guerra e alle forme più barbare di violenza per consentire alle classi capitaliste delle diverse nazioni di appropriarsi di una porzione maggiore delle ricchezze prodotte dai lavoratori del mondo. In ultima analisi, le potenze imperialiste possono mantenere i popoli semicoloniali sotto il tallone e sfruttarne le risorse e la manodopera solo grazie alla forza e alla violenza. L’imperialismo significa una lotta costante per la spartizione del mondo tra le principali potenze capitaliste e ha portato due volte a guerre mondiali nello scorso secolo.

Con il crollo dell’Urss nel 1991-92 e la proclamazione borghese della "morte del comunismo", gli imperialisti si sono dovuti fabbricare un’alternativa al "pericolo rosso" per giustificare le loro avventure militari e le misure antidemocratiche volte a intensificare lo sfruttamento dei lavoratori. Se già l’Amministrazione Clinton aveva usato lo spauracchio del fondamentalismo islamico, i criminali attentati del l’11 settembre hanno dato alla classe dirigente americana quella che Condoleeza Rice ha chiamato una "buona occasione" per estendere il potere militare degli Usa. Ma in verità Al Qaeda e Bin Laden sono solo una versione moderna del Mostro di Frankenstein che si rivolta contro i suoi creatori: gli imperialisti che li hanno armati e fomentati nella guerra per interposta persona contro l’Armata rossa sovietica in Afghanistan negli anni Ottanta.

Di fronte alle torture, la stampa borghese ha rispolverato il mito degli "italiani brava gente", cercando di distinguere le "nostre truppe", i "bravi ragazzi" di Nassirya dai sadici americani che hanno "macchiato" la "missione umanitaria" rovinando "l’immagine dell’occidente". In questo hanno ricevuto l’aiuto dei burocrati sindacali e dei dirigenti riformisti. Dopo l’attentato di Nassirya, Rifondazione si è unita alla campagna patriottarda di "unità nazionale", facendo le condoglianze al capo dei carabinieri e inginocchiandosi all’Altare della Patria. "Carabinieri, poliziotti e militari sono figli del popolo" ha scritto Liberazione (21 novembre 2003), "non si devono regalare alla destra i valori della Patria e della difesa della Pace". E Gigi Malabarba, senatore di Rc e dirigente della tendenza pseudo-trotskista di Bandiera rossa, ha candidamente dichiarato di sapere "da fonte militare presente in Iraq che, perlomeno dal mese di settembre, i carabinieri erano a conoscenza che nelle carceri irachene sotto comando anglo-americano avvenivano torture" ma di aver "mantenuto discrezione finora sulla questione anche perché sono membro del Comitato di controllo sui Servizi" (Corriere della Sera, 12 maggio). Per fedeltà alla patria e al comitato di controllo sui "servizi", Malabarba ha nascosto la verità finché questa non è venuta fuori nel salotto di Bruno Vespa!

Lo storico Angelo Del Boca ha riassunto la sanguinosa realtà che si nasconde dietro il mito degli italiani "brava gente" in un’intervista a Panorama: (26 giugno 1997)

"Abbiamo sempre detto che eravamo migliori degli altri, portavamo la pace, la civiltà. Un leit motiv che ci perseguita da cento anni, dal primo sbarco in Africa Orientale alle autodifese di oggi. I documenti che ho studiato dimostrano il contrario, e cioè che siamo stati non brutali, ma violentissimi in tutte le nostre campagne, a cominciare da quelle ottocentesche. Dal dicembre 1935 alla primavera 1939 utilizzammo circa 500 tonnellate di gas, iprite e fosgene. Nella riconquista della Libia, che avevamo perso del tutto durante la prima guerra mondiale, ci fu il trasferimento coatto di circa centomila cirenaici in campi di concentramento situati nel Golfo della Sirte, la zona più dura, il deserto assoluto. Ne morì circa la metà. Le stragi che seguirono l’attentato a Graziani fecero seimila vittime secondo i miei studi, trentamila secondo gli etiopici (…) L’uccisione di quasi 1.200 indovini e cantastorie che giravano di villaggio in villaggio predicando la catastrofe dell’impero italiano. La strage di Debrà Libanos, una città conventuale, con centinaia di morti".

Non bisogna inoltre dimenticare la similitudine (che tutti hanno insabbiato!) tra quanto succede in Iraq e le imprese dei caschi blu italiani in Somalia nel 1992: torture degli uomini applicando elettrodi ai testicoli, stupri di gruppo delle donne con granate. Cambiano date e luoghi, ma non la realtà dell’imperialismo.

Una coalizione sempre meno "volenterosa"…

L’occupazione dell’Iraq incontra una crescente opposizione popolare e operaia in tutto il mondo. La stessa popolazione americana è sempre più colpita dal ritorno delle body bags e dalla monotona ripetizione delle solite vecchie palle di Bush e soci. E’ ormai chiaro che l’invasione dell’Iraq non ha nulla a che fare col terrorismo o le "armi di distruzione di massa" e questo colpisce specialmente i lavoratori, minacciati da una ripresa che non porta posti di lavoro e dagli attacchi alle loro condizioni di vita. I sogni di gloria dei neocons, che pensavano che installare un regime fantoccio in Iraq fosse facile come aprire un McDonald, sono svaniti e gli Usa si trovano di fronte alla prospettiva di una lunga e sanguinosa occupazione con un esercito gravemente carente di uomini. Si valuta che tra i 500 e i 1.700 soldati siano scomparsi durante periodi di licenza per non prestare servizio attivo. Due soldati americani, Brandon Hughey e Jeremy Hinzman, hanno disertato e chiesto asilo politico in Canada, sapendo che se venissero estradati rischierebbero l‘esecuzione (Village Voice, 7 aprile). Un atto di grande coraggio è stata anche la decisione del Sergente Camilo Mejia di consegnarsi alle autorità militari dichiarandosi obiettore di coscienza. Mejia ha dichiarato: "Non ho firmato nell’esercito per girare mezzo mondo per essere uno strumento di oppressione".

La guerra e l’occupazione dell’Iraq sono così identificate col regime di Bush che molti diffidano di tutto ciò che esce dalla bocca del governo e guardano come alternativa al Partito democratico e al suo candidato presidenziale John Kerry, che potrebbe vincere le elezioni di novembre. Ma Kerry sta facendo una campagna elettorale guerrafondaia. In un discorso del 27 febbraio Kerry ha detto: "Per rafforzare il nostro esercito sottodimensionato, aggiungerò 40.000 soldati in pianta stabile. Un aumento temporaneo che dovrebbe durare fino alla fine del decennio".

Il sovrapporsi dei criminali attentati di Madrid, della legittima ribellione contro la presenza coloniale americana in Iraq, e dei rapimenti ed esecuzioni di ostaggi (sia civili innocenti che soldati o veri e propri mercenari come i quattro italiani), ha avuto ripercussioni in tutti i paesi della "Coalizione dei volenterosi". Le truppe ucraine hanno abbandonato la città di Kut. Ad eccezione della componente britannica, le forze alleate degli Usa sono militarmente insignificanti (e dunque molto vulnerabili agli attacchi). In molti dei paesi coinvolti c’è una forte opposizione interna alla guerra. Il governo Aznar in Spagna è stato defenestrato, portando all’immediato ritiro del contingente spagnolo da parte del nuovo governo, mentre i compagni di merende di Bush (Blair, Berlusconi e Koizumi) incontrano sempre maggiori difficoltà nel sostenere un’occupazione che ben pochi nei rispettivi paesi considerano vantaggiosa.

Rifondazione/Ulivo si candidano
a guidare l’imperialismo italiano

Le direzioni del "movimento pacifista" predicano il pacifismo borghese e il riformismo parlamentare interclassista, ma questi non possono fermare la guerra imperialista.

L’opposizione alle guerre di dominio coloniale può essere efficace solo se si basa sull’indipendenza di classe. Il tentativo di sviluppare un programma comune contro la guerra con forze che sostengono il capitalismo può solo portare alla subordinazione della classe operaia al sistema stesso che genera la guerra.

Le guerre imperialiste non sono un’aberrazione dovuta all’unilateralismo americano, alla politica reazionaria dei neoconservatori di Bush o al "servilismo" dei Berlusconi e dei Blair. L’imperialismo non è solo una politica estera che può essere mitigata o rovesciata con un "cambio di regime" a favore di governi capitalisti di sinistra o socialdemocratici. Fin dalla prima guerra mondiale, i marxisti hanno spiegato, nelle parole di Lenin, che l’imperialismo è "un sistema mondiale di oppressione coloniale e di strangolamento finanziario della stragrande maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi ‘progrediti’ e la spartizione del bottino ha luogo fra due o tre predoni di potenza mondiale, armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra per la spartizione del bottino il mondo intero". Tutti i governi capitalisti difendono gli interessi fondamentali della loro classe dominante, come hanno fatto i governi dell’Ulivo (per un periodo anche con l’appoggio di Rifondazione), dall’Albania al Kossovo. Per eliminare le guerre è necessario sradicare l’intero sistema mondiale del capitalismo imperialista con una serie di rivoluzioni operaie.

La possibilità di una lotta contro la guerra basata sulla mobilitazione della classe operaia in scioperi e azioni di boicottaggio, si è intravista all’inizio della guerra in diversi paesi, tra cui l’Italia, dove ferrovieri e operai portuali rifiutavano di maneggiare i trasporti militari e dove ci sono stati diversi scioperi politici contro la guerra. Ma non è questo che vogliono i dirigenti riformisti del "movimento pacifista" che, in Italia come altrove, hanno cercato di indirizzare l’opposizione alla guerra a sostegno delle loro ambizioni elettorali e di legarla agli interessi essenziali della propria borghesia. Tutta la politica di Rifondazione ha oscillato tra i belati pacifisti impotenti e i tentativi di spingere "l’asse di pace franco-tedesco", l’Unione europea e l’Onu ad opporsi agli Usa. Ancora lo scorso 20 marzo Rifondazione e diversi dirigenti dei Cobas hanno sottoscritto un appello all’Unione Europea a "svolgere un analogo ruolo di pace e includere il ripudio della guerra nel proprio trattato costituzionale", chiedendo che l’occupazione americana fosse rimpiazzata da un "intervento di garanzia dell’Onu". Lungi dall’avanzare la causa della "pace" questi appelli riflettono le aspirazioni degli imperialisti tedeschi e francesi, tagliati fuori dalla spartizione dell’Iraq, e di quella parte della borghesia italiana che attraverso l’Onu vede la possibilità di azzannare qualcosa di più dell’osso che la Casa Bianca ha gettato a Berlusconi (vedi "Elezioni Spagnole, attentati criminali e bugie ufficiali rovesciano il governo", pag. 3). Le difficoltà elettorali dei governi di destra (e dei discreditati governi socialdemocratici di Schroeder e Blair) alle ultime elezioni europee, hanno fatto crescere le ambizioni di Rifondazione e Ds di cacciare Berlusconi e sostituirlo con un governo di sinistra, in cui la direzione di Rc aspira ad ottenere qualche poltrona ministeriale. "Il ministero degli Esteri? Perché no" si è pavoneggiato Bertinotti su Panorama (27 maggio 2004).

In definitiva, il programma di Rifondazione è di costruire dei governi di sinistra che amministrino un imperialismo "dal volto umano". Una prospettiva falsa ed utopica, che incatena i lavoratori all’ordine capitalista.

La sinistra, l’occupazione dell’Iraq
e la "resistenza"

Noi della Ltd’I ci schieriamo nella situazione attuale: contro gli imperialisti americani e italiani, i loro alleati e i loro lacché iracheni. Quando le forze che agiscono in Iraq rivolgono i loro colpi contro gli occupanti, le difendiamo, perché riconosciamo che ogni colpo subito dagli occupanti è nell’interesse dei popoli oppressi, nella regione e nel mondo. Ma non diamo il benché minimo sostegno politico alle forze che dominano la "resistenza" irachena, denunciamo il carattere reazionario degli attacchi indiscriminati contro curdi, sunniti, sciiti, turcomanni, ecc., e delle faide interetniche e ci opponiamo a glorificare in qualunque modo le forze sociali che hanno impugnato le armi contro l’occupazione.

Per i marxisti rivoluzionari il compito fondamentale è di far emergere una mobilitazione indipendente del proletariato, nei paesi imperialisti e in Medio Oriente, in opposizione all’occupazione coloniale dell’Iraq e nella prospettiva di una rivoluzione socialista che ponga fine al dominio imperialista nel mondo. Cerchiamo di mobilitare le masse oppresse dietro al potere del proletariato nella lotta contro le occupazioni coloniali, con mobilitazioni operaie (scioperi, boicottaggi delle merci militari e dei trasporti di truppe) in una prospettiva rivoluzionaria sia contro le forze d’occupazione imperialiste che contro le borghesie locali. Ci opponiamo a qualsiasi aiuto, specialmente militare, dato dai "nostri" padroni capitalisti a schiacciare il popolo iracheno o quello palestinese. Un boicottaggio operaio degli equipaggiamenti militari diretti in Iraq o in Israele e altre simili azioni di lotta di classe rivolte contro gli imperialisti, sarebbero un potente aiuto alla lotta contro l’occupazione coloniale. Importanti lotte operaie come quelle dei tranvieri o degli operai di Melfi, devono essere l’occasione non solo per strappare miglioramenti salariali o altre importanti conquiste sociali, ma per cercare di conquistare il proletariato alla comprensione del suo ruolo di avanguardia rivoluzionaria di tutti gli oppressi.

Col crescere della resistenza all’occupazione coloniale, un settore della sinistra ha preso a sostenere in maniera più o meno "incondizionata" le forze della cosiddetta "resistenza irachena", sostituendola alla necessità di una mobilitazione indipendente del proletariato internazionale contro l’imperialismo, mascherandone e abbellendone la natura sociale e politica reazionaria.

Un esempio in questo senso è fornito da FalceMartello (Fm), che falsifica la natura delle forze in campo, creando l’illusione che sotto la pressione delle "masse" le direzioni reazionarie si possano evolvere in direzione del… socialismo. Secondo Fm "in una situazione di ascesa della lotta, un movimento non può essere egemonizzato dalle idee settarie e reazionarie del fondamentalismo islamico, perché questo tende a dividere anziché unire le masse popolari che oggi si orientano velocemente verso le idee del nazionalismo arabo, idee che oggi consentono al popolo iracheno di superare le differenze nazionali, linguistiche e religiose e di combattere come un sol uomo contro l’occupazione imperialista (...) Al Sadr, pur essendo un imam, si discosta decisamente dal ruolo tipico del leader religioso conservatore, giungendo ad interpretare, seppure in modo distorto, i sentimenti delle masse (…) Tutto questo non sarà certo socialismo, ma testimonia degli sviluppi veloci che si hanno nella situazione politica in Iraq" (Iraq. La rivolta di popolo, il Vietnam di George Bush. www.marxismo.net, 18/04/2004).

Una linea analoga a quella della tendenza di Ted Grant (di cui fa parte Fm) alla fine degli anni settanta quando il clero islamico iraniano, portavoce dei latifondisti e della classe mercantile dei bazaar, con il sostegno della maggior parte della sinistra internazionale, incanalò la rabbia delle masse contro lo scià di Persia nella costruzione di una teocrazia islamica in Iran. Noi della Lci intervenimmo in quelle lotte con lo slogan "Abbasso lo Scia! Abbasso i mullah! Per la rivoluzione operaia!" Al contrario proprio mentre Khomeini stava salendo al potere, Ted Grant scrisse che "Khomeini ha detto di non voler instaurare una dittatura militare reazionaria o una dittatura semi feudale. E’ questo elemento del programma dei mullah, la loro dichiarazione di essere per la libertà e la democrazia, che ha esercitato una forte attrazione sulle masse della classe media e naturalmente anche su settori operai. (...) Il sostegno a Khomeini si dissolverà dopo che avra formato un governo. L’incapacità del suo programma di repubblica teocratica di risolvere i problemi del popolo iraniano diventerà evidente" (The Iranian revolution, 9 febbraio 1979, www.marxist.com). Nella realtà la presa del potere da parte di Khomeini aprì la strada a 25 anni della più brutale reazione islamica, che dura tuttora, e che iniziò con il massacro dei militanti della sinistra. L’idea di Fm, che la pressione delle "masse in lotta" spinge necessariamente a sinistra il programma politico delle loro direzioni, non ha niente a che vedere con il marxismo, liquida il ruolo fondamentale dell’avanguardia rivoluzionaria di far crescere la coscienza rivoluzionaria della classe operaia, e testimonia solo della disperazione opportunista del loro programma. E’ veramente il segno di quest’epoca reazionaria e del cinismo di Fm che gli ayatollah sciiti possano essere spacciati per "antimperialisti".

I reazionari islamici come Al Sadr e i rottami del regime baathista non sono in alcun modo antimperialisti, ma vecchi alleati dell’imperialismo Usa nella lotta contro il comunismo. Con il ritiro sovietico dall’Afghanistan e il crollo dello stalinismo in Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est, le forze islamiche esprimono ora la collera per il fatto che l’America si è impossessata di tutto il bottino. Vale a dire che gli islamici vogliono solo sfruttare in proprio, opprimere, saccheggiare e torturare le masse lavoratrici dei rispettivi paesi. La tendenza storica del fondamentalismo islamico è stata quella di allearsi con l’imperialismo contro qualsiasi forma di secolarizzazione, specialmente contro il "comunismo ateo". E non è neanche possibile parlare di una "resistenza" irachena o di una "lotta di liberazione nazionale", quando secondo ogni evidenza le forze che si contrappongono attualmente agli eserciti occupanti sono del tutto eterogenee, una miscela di cui si sa poco, in cui si incontrano (e si combattono reciprocamente) vecchi quadri militari ba’athisti, fondamentalisti islamici sunniti e sciiti, notabili e capi tribali, gruppi legati ad Al Qaeda, ecc. Si tratta di forze politicamente e socialmente reazionarie, in maggioranza dominate dal fondamentalismo islamico, che non hanno il benché minimo desiderio di rovesciare le relazioni sociali esistenti. In assenza dell’occupazione, cercherebbero di dominarsi l’un l’altra e di sopprimere il Nord curdo. Già adesso fanno più vittime tra i civili delle diverse etnie che tra le forze di occupazione.

La sorte di Falluja riassume tutti gli elementi di questa contraddizione. Le forze americane, respinte dopo un attacco violentissimo che ha fatto centinaia di morti tra la popolazione, si sono attestate fuori dalla città, che è virtualmente indipendente sia dagli occupanti che dal governo di Allawi. La sconfitta degli aggressori di Falluja è stata certamente un evento positivo. Ma ora la città, secondo Le Monde (1 luglio 2004) è un "emirato mujaheddin" governato da una Choura (consiglio) di capi islamici e tribali. "Isolata, Falluja sprofonda nella sharia, la legge islamica, più stretta (…) Poco dopo la battaglia di Falluja i mujaheddin hanno preso d’assalto la strada tra Falluja e Ramadi, dove i giovani si ritrovavano fuori città a bere e a parlare di calcio e di ragazze. I nuovi padroni della città ne hanno presi alcuni e il giorno dopo gli hanno fatto fare il giro della città su dei pick-up scoperti picchiandoli a sangue davanti alla popolazione. I mujaheddin hanno poi ricoperto Falluja dei loro ‘decreti di Allah, che ci ha dato la vittoria’. Inviti a denunciare tutti gli stranieri, divieto di bere alcool, minacce alle donne che non indossano l’abaya o usano il trucco. ‘Non avremo nessuna pietà per quelle che combattono Allah con la loro bellezza o i vestiti discinti’ dice un cartello. Hanno fatto il giro dei negozi di CD e dei parrucchieri, accusati di promuovere costumi occidentali anti islamici con la musica o il taglio dei capelli".

Anche la cattura e l’uccisione di ostaggi (non solo militari, ma studenti pacifisti giapponesi, civili coreani ecc.) col presunto obiettivo di ottenere il ritiro dall’Iraq delle forze imperialiste testimonia solo della disperazione della reazionaria dirigenza islamica (e copia la mentalità dei governanti imperialisti americani, che puniscono collettivamente i popoli dell’Iraq). La distruzione del villaggio gitano di Kawlia da parte dell’Esercito Mahdi di Al Sadr, a quanto sembra perché il villaggio era famoso come un posto dove si poteva ballare e dove c’erano donne "facili", non è solo un’ulteriore testimonianza dell’ostilità nei confronti degli "estranei" ma anche un avvertimento alle donne irachene del destino che le aspetta sotto il dominio dei clericali sciiti. Le forze di Al Sadr e dei militari ba’athisti che sembrano dirigere la cosiddetta "resistenza" sono più che disposte a convivere (a certe condizioni) con il dominio imperialista. Lo stesso Al Sadr ha proclamato una tregua per presentarsi alle "elezioni" per un futuro governo fantoccio iracheno.

Qualsiasi comunista che cercasse di allearsi con la "resistenza" finirebbe probabilmente ucciso ancor prima da loro che dagli americani. Se la rinascita di un movimento proletario iracheno portasse avanti una politica di classe indipendente contro l’occupazione dell’Iraq, si troverebbe probabilmente a fronteggiare un fronte unico delle forze imperialiste e degli islamici. E’ proprio quanto è avvenuto a Nassirya lo scorso autunno, quando i carabinieri hanno lavorato a braccetto con gli islamici per attaccare la sede del Partito operaio comunista d’Iraq (vedi Spartaco n.63).

Le prospettive per l’Iraq sono difficili. Nel 1958 il proletariato iracheno fu politicamente decapitato dalla distruzione del Partito comunista iracheno, la principale forza per una soluzione anti-settaria, una sconfitta storica in cui si combinarono il tradimento degli stalinisti e la macelleria del regime ba’athista appoggiato dagli imperialisti. La guerra con l’Iran, dieci anni di sanzioni dell’Onu, due aggressioni imperialiste e l’attuale occupazione lo hanno ulteriormente decimato. Oggi il partito comunista siede nel governo fantoccio degli americani e ciò che resta sono un nazionalismo terzomondista sempre più screditato e il reazionario fondamentalismo islamico (si veda: "Iraq: la liberazione delle donne e la lotta contro il giogo imperialista", pag. 20). Perciò è difficile stabilire una chiara via di lotta proletaria contro l’occupazione, specialmente per chi come noi si trova lontano dalla situazione.

Ma la nostra prospettiva per l’Iraq resta quella di forgiare un partito trotskista basato sul programma della rivoluzione permanente. Un’equa soluzione dei diritti democratici di tutti i popoli dell’Iraq e più in generale del Medio Oriente non può essere ottenuta sotto il capitalismo, ma solo col rovesciamento dell’ordinamento borghese nella regione e la creazione di una federazione socialista del Medio Oriente, cioè l’applicazione della rivoluzione permanente. La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il Medio Oriente richiede una lotta per sconfiggere il fondamentalismo religioso di tutte le risme, assieme al rovesciamento di re, generali, macellai sionisti e di tutti gli altri governanti capitalisti.

FalceMartello non ha una prospettiva per mobilitare la classe operaia su un programma comunista, così appoggia la "resistenza" reazionaria irachena alimentando l’illusione che in assenza di un proletariato cosciente e di una direzione marxista rivoluzionaria, l’"ascesa delle lotte" di per sé possa spingere i capi nazionalisti o islamici sulla via della rivoluzione. E’ per questo che, dal Venezuela di Chavez al Pakistan di Benazir Bhutto, finiscono sempre con il sostenere l’ala "antimperialista" delle borghesie locali.

Gli anarchici: antimilitarismo
e illusioni negli imperialisti

La rinuncia ad una prospettiva di mobilitazione proletaria contro l’imperialismo si riflette in modo diverso anche nell’ambiente anarchico, che ha il merito di aver rigettato lo sciovinismo patriottico alla Rifondazione e di riconoscere il contenuto sociale reazionario delle forze della resistenza irachena. Umanità Nova (Un) ha spiegato che "noi non rivendichiamo l’intervento dell’Onu, noi ci battiamo per il ritiro immediato delle forze di occupazione dall’Iraq per dare alla popolazione irachena quell’autodeterminazione di cui i governanti occidentali si riempiono la bocca" (Un 17, 16/5/2004). Ma in generale gli anarchici rifiutano anche di riconoscere il lato progressivo delle guerre di liberazione nazionale, che consiste anche nell’indebolimento dell’imperialismo, sostenendo che "è necessario liberarsi dalle illusioni sull’autodeterminazione dei popoli e sulle guerre di liberazione nazionale che, nei migliori dei casi, hanno visto il passaggio del testimone dello sfruttamento dai padroni stranieri alle neonate borghesie" (Un, 16/11/2003).

Come abbiamo già spiegato (Spartaco n. 62), durante la guerra imperialista contro l’Iraq, un paese semicoloniale, la posizione degli anarchici "Contro tutte le guerre", era:

"una scusa per il neutralismo e una confessione d’impotenza (…) La logica di questo slogan, superficialmente radicale, è in definitiva sciovinista: maledice la lotta per l’autodifesa delle nazioni oppresse allo stesso modo in cui condanna il saccheggio e la rapina degli imperialisti. Invece è dovere dei rivoluzionari difendere i paesi oppressi e dipendenti dall’attacco degli imperialisti".

Gli anarchici rigettano la centralità rivoluzionaria della classe operaia finendo con l’adattarsi al dominio imperialista della propria borghesia. Di recente lo si è visto in una serie di articoli di Umanità Nova sulla Palestina, che riecheggiavano la politica filo imperialista stile Rifondazione, invitando invariabilmente la "comunità internazionale" a "isolare e condannare con qualche atto politico il governo di Israele sia in sede Onu che in sede di Parlamento Europeo", sostenendo che "boicottare Israele come si fece con il Sudafrica nello sport, nella cultura, nella politica, nell’economia, nella cooperazione internazionale (…) è solo un minimo passo che una comunità internazionale coerente con i propri proclami può compiere" (Un, 2 maggio 2004). Secondo Un, "il boicottaggio politico, sociale, economico, culturale, è l’unica risorsa civile che ha permesso ai paesi liberali di spegnere dopo tanti e troppi anni quel campione di apartheid che fu il Sudafrica".

Non fu il "boicottaggio internazionale" (interessato) degli imperialisti a sconfiggere l’apartheid in Sudafrica, ma le eroiche lotte delle masse nere delle township di Soweto e Sharpeville, centrate sul potente proletariato industriale nero sudafricano, a mettere in ginocchio il sistema dell’apartheid. C’è una differenza fondamentale tra fare appello ad azioni mirate di boicottaggio operaio e fare appello ai paesi imperialisti, a disciplinare lo stato sionista. L’unico risultato di questi appelli è quello di mettere la causa palestinese nelle mani degli imperialisti, e di avvalorare le credenziali "democratiche" delle potenze imperialiste d’Europa, i "paesi liberali", come li chiama Un, che dovrebbero imporre la democrazia in Israele. Il sostegno a sanzioni economiche o a un embargo commerciale, oltre ad essere una pia illusione in una realtà in cui le principali potenze imperialiste appoggiano Israele, equivale ad un appello ad un intervento di navi e aerei imperialisti per chiudere i porti israeliani, col risultato aggiuntivo di fare il gioco del protezionismo commerciale imperialista. Non è stato con la scusa di "difendere i curdi" dalla (vera) repressione di Hussein, che l’Onu ha imposto il suo criminale embargo all’Iraq? Il sostegno di Un alle "sanzioni" contro Israele si basa sulla presunzione che gli stati imperialisti d’Europa siano "migliori" di Israele. Oggi la possibilità di mobilitare il proletariato internazionale, e quello israeliano in particolare, in difesa dei palestinesi, sembra molto remota. Ma è l’unica possibilità concreta per porre fine al decennale massacro sionista. La rinuncia a questa lotta lascia aperta la strada a cercare l’aiuto o degli imperialisti "democratici" o dei regimi nazionalisti arabi.

E’ il destino storico dell’anarchismo (una forma di idealismo radicale che rifiuta l’idea che il proletariato debba spezzare lo stato capitalista, imponendo il suo dominio di classe come premessa per l’eliminazione delle classi sociali e della necessità stessa di uno stato) quello di accodarsi alla borghesia ogni qualvolta questa si presenti con qualche vuota promessa di libertà e giustizia, come avvenne in Spagna nel 1936 (si veda: Marxismo contro anarchismo, Spartaco n.59).

Per una federazione socialista
del Medio Oriente

L’Iraq non è una nazione, ma uno stato artificiale creato dagli imperialisti che ne incisero i confini nella carne viva delle nazioni, etnie e popoli del vecchio impero ottomano. La millenaria divisione religiosa tra una minoranza sunnita e la maggioranza rurale sciita è stata manipolata prima dagli ottomani, poi dagli imperialisti britannici che fecero dell’élite sunnita i loro agenti. Decenni di oppressione sotto il regime di Saddam Hussein, dominato dai sunniti, l’hanno ulteriormente inasprita. Oggi la presenza coloniale imperialista non fa altro che esacerbare ed infiammare le ostilità tra i differenti popoli e può portare solo a conflitti e a un bagno di sangue fratricida. Il popolo curdo costituisce una nazione che oltre all’Iraq, si estende all’Iran, alla Siria e alla Turchia, e il cui desiderio di autodeterminazione nazionale è giusto. La difesa del diritto all’autodeterminazione nazionale del popolo curdo è un dovere fondamentale per ogni aspirante comunista in Turchia, Iraq, Iran e Siria. Le classi lavoratrici del Medio Oriente devono essere conquistate alla prospettiva di sostenere i diritti nazionali dei curdi, alla difesa delle organizzazioni curde dal terrorismo di stato e alla rivendicazione di pieni e uguali diritti per la lingua curda. Solo combattendo ogni manifestazione di sciovinismo turco e arabo e ogni espressione di oppressione nazionale si può aprire la strada alla lotta unita degli operai contro i loro comuni oppressori capitalisti. I diritti del popolo curdo possono essere garantiti solo da delle rivoluzioni proletarie che distruggano gli stati capitalisti che li opprimono: Turchia, Iran, Iraq e Siria. Per farlo è necessario costruire dei partiti leninisti-trotskisti che uniscano i lavoratori di diversa origine etnica e nazionale. Partiti di questo tipo scriveranno sulle proprie bandiere la rivendicazione di una repubblica unita socialista del Kurdistan, parte di una federazione socialista del Medio Oriente.

Ma oggi, molti curdi iracheni guardano con favore all’occupazione americana come garanzia contro la riconquista araba. Questo sentimento è esteso anche ai curdi in Siria, che nel corso di recenti proteste hanno chiesto diritti di cittadinanza, con molti manifestanti che scandivano slogan filoamericani. Il regime siriano ha risposto uccidendo almeno 11 curdi. Attualmente in Iraq non si può seriamente parlare del diritto all’autodeterminazione curda se questo rimane subordinato all’occupazione Usa. La lotta per l’indipendenza curda può avanzare solo sulla base di un’opposizione intransigente all’occupazione. Questo significa necessariamente sfidare i nazionalisti curdi dell’Unione patriottica del Kurdistan e del Partito democratico del Kurdistan, che collaborano con l’imperialismo Usa. Gli Usa si oppongono persino a un parvenza di autodeterminazione per il popolo curdo. La spartizione imperialista del Kurdistan è servita non solo a smembrare la nazione curda, ma ad indebolire con essa gli stati neocoloniali che hanno avuto una fetta del bottino. E Washington vuole che le cose restino come sono.

L’autodeterminazione curda può essere ottenuta solo con una rivoluzione operaia, guidata da partiti proletari internazionalisti, trotskisti, che rovesci i quattro regimi capitalisti coinvolti, dispiegando la bandiera della liberazione dall’oppressione nazionale per la miriade di popoli che vivono nel Medio Oriente. La battaglia per l’emancipazione di tutti i popoli della regione è un’applicazione della teoria trotskista della rivoluzione permanente, che spiega come nei paesi a sviluppo capitalista ritardato, la vera liberazione nazionale e altri fondamentali diritti democratici possono essere ottenuti solo con la vittoria della rivoluzione socialista proletaria. Sotto il dominio clericale, gli sciiti non possono che ribaltare i termini dell’oppressione. Non vi sarà nessuna riconciliazione degli antagonismi nazionali, etnici e religiosi senza un governo socialista proletario.

La questione nazionale, decisiva per un paese come l’Iraq, viene falsificata dalla sinistra riformista, in nome del sostegno alla "resistenza". Dai "Comitati per la resistenza del popolo iracheno", per i quali "i mezzi di informazione blaterano di una inesistente ‘guerra civile’ tra sunniti e sciiti" a FalceMartello, secondo cui sono state le televisioni ad "ingigantire le differenze che esistono fra queste due etnie per cercare di giustificare l’intervento armato in Iraq" mentre "nonostante le divisioni che ci possono essere fra queste due parti della popolazione, esiste in questo momento un forte sentimento di odio contro l’occupazione americana che sta rafforzando un’identità nazionale irachena (…) Quello a cui stiamo assistendo è una guerra di liberazione nazionale (Fm n.175, aprile 2004)". Parlare del rischio di lotte interetniche come di una invenzione degli imperialisti significa chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e al compito di opporsi al nazionalismo e al fondamentalismo religioso.

Sono stati fatti molti paragoni tra l’Iraq di oggi e la guerra del Vietnam. Ma è un paragone completamente inappropriato. In Vietnam era posta la questione di una rivoluzione sociale che mirava non solo a liberare il paese dall’imperialismo Usa, ma anche a rovesciare le vecchie classi dominanti, i latifondisti rurali e i capitalisti delle città e che portò alla costruzione di uno stato operaio deformato.

Un’altra differenza fondamentale tra l’Iraq odierno e il Vietnam è la distruzione, nel 1991-92, dello stato operaio degenerato sovietico, che rappresentava un sostegno militare ed economico cruciale a tutti quei paesi che avevano rovesciato il capitalismo, da Cuba al Vietnam, e consentiva una certa libertà d’azione alle lotte anticoloniali. Secondo FalceMartello invece "la divisione del mondo fra Usa e Urss garantiva una sostanziale stabilità (…) la diplomazia dei due blocchi interveniva e i cambiamenti nei rapporti di forza non influivano oltre il livello regionale". Oggi invece "se entra in crisi la dominazione americana, questo mette a rischio la stabilità del capitalismo su scala mondiale" (Fm n.176, maggio 2004). Perciò per Fm la distruzione dell’Urss e degli altri stati operai è stato un passo in avanti che ha sbloccato la situazione mondiale. A loro non importa che questo contraddica la realtà: che il popolo iracheno ha pagato con due guerre imperialiste e dieci anni di embargo, o che il popolo cubano sia sempre più isolato e affamato.

Noi della Lci siamo difensori coerenti dei diritti degli oppressi e oppositori militanti dell’imperialismo. Lottiamo per la sua sconfitta e difendiamo coloro che impugnano le armi contro l’occupazione dell’Iraq, ma il nostro metodo non è di applaudire da lontano chiunque si trovi momentaneamente ai ferri corti con gli imperialisti. Molto probabilmente la soluzione alla questione irachena non si limiterà a quello che avviene in ciò che resta di questo stato artificiale, ma sarà legato in mille modi alle lotte degli operai in Turchia, in Iran, in Egitto, in Israele, e anche qui, nelle metropoli imperialiste. La Lega trotskista d’Italia e la Lega comunista internazionale, dedicano tutti i loro sforzi ad educare la classe operaia sulla necessità di questi compiti e a lottare per forgiare un partito rivoluzionario capace di dirigere una rivoluzione socialista.

SPARTACO Organo della Lega trotskista d'Italia
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